LE TRE SINISTRE NELLA PALUDE da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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LE TRE SINISTRE NELLA PALUDE da IL FATTO e IL MANIFESTO

Le tre sinistre nella palude

I MOTIVI DELLA CRISI – Un saggio per ripercorrere le vicende degli ultimi quindici anni e ricostruire la divisione storica nata con la Rivoluzione francese che ha determinato tre identità: liberale, egualitaria e socialista

 DOMENICO DE MASI  11 MAGGIO 2023

Se un domani Giorgia Meloni riuscisse a introdurre il presidenzialismo, se poi il presenzialismo riuscisse a trasformarsi in autoritarismo e l’autoritarismo in turbofascismo, chi volesse capire come mai tutto questo sia successo dovrebbe leggere Si fa presto a dire sinistra. Tre anime in cerca di identità pubblicato in questi giorni da Salvatore Cannavò, vicedirettore del Fatto Quotidiano ed editor di Jacobin Italia, una delle più belle riviste – per contenuto e per veste grafica – della sinistra italiana.

Le sigle sono innumerevoli: Pci, Sinistra arcobaleno, Pd, Prc, Pds, Rifondazione comunista, Potere al popolo, Unione popolare, Sinistra italiana, LeU, Lista Tsipras, Sel, Possibile, fino a Ex OPGJe so’ pazzo, e così via. Lette tutte di seguito, rendono conto dei contorcimenti, dei congiungimenti, delle separazioni, dei ripensamenti, dei tradimenti, delle frantumazioni della sinistra liberaleggiante e di quella socialisteggiante. Inoltre, spiegano ampiamente sia il recente approdo della Meloni al potere, sia il crescendo di autoritarismo che connoterà la sua azione politica nei prossimi anni, fino a imporre progressivamente forme inedite di fascismo che non si chiamerà fascismo ma che, di fatto, lo sarà.

Per evitare quest’esito repellente non c’è che la sinistra, purché rivoluzionata da una totale ma improbabile palingenesi. I Greci dicevano che quando qualcosa è necessaria e tuttavia impossibile, la situazione è tragica. Noi in Italia – è bene ammetterlo – ci siamo cacciati in una situazione tragica. E il prezioso libro di Cannavò ce ne svela storicamente, chirurgicamente, impietosamente il come e il perché.

È chiaro cosa cercherà di fare la Meloni, che ormai può cavalcare e staffilare con tranquilla sicurezza i membri del suo governo: procederà nella imposizione dell’ordine interno avviata con il decreto contro i rave party; abbinerà la retorica nazionalista e patriottarda con la rassicurazione della propria fedeltà all’Ue, alla Nato e agli Usa; occuperà tutti gli spazi consentiti dalla democrazia sempre mantenendo ambigui rapporti con il fascismo; difenderà la sua concezione di comunità sociale incentrandola sulla lotta alla denatalità, sulla famiglia tradizionale ed eterosessuale; difenderà l’identità nazionale, il localismo, la terra, i valori, gli stili di vita, la cultura dei padri, avversando il globalismo, il multiculturalismo, il politicamente corretto, l’immigrazione, le organizzazioni non governative; manterrà un rapporto accortamente bilanciato tra lo Stato e il sistema produttivo ma, neoliberisticamente, si guarderà bene dal disturbare i produttori e farà in modo che la libertà dei privilegiati non sia minata dal rancore dei subordinati; devota a Edmund Burke e a Roger Scruton, identificherà i mutamenti sociali con la sovversione e associerà l’innovazione all’insicurezza, alla precarietà, a un futuro incontrollabile e capace di travolgere le nostre esistenze; evocherà il passato come porto sicuro, protezione, riparo, atavico bene rifugio; estenderà il raggio d’azione del suo partito fino a coprire tutta l’area conservatrice, legittimandosi come unica e vera destra del futuro.

A tanta furia solo la sinistra può fare da baluardo pur non avendo tutte le carte in regola. L’Ulivo disarticolò il tessuto sociale, precarizzò il mondo del lavoro, privatizzò le aziende pubbliche, ridusse il welfare. Il Pd – né socialista, né democristiano, né di sinistra e nemmeno progressista, confusamente americano – ha praticato l’interclassismo ma ha privilegiato le classi medie; ha facilitato la convergenza tra datori di lavoro e lavoratori, ma a scapito di questi; ha parlato di equità della distribuzione ma ha operato più in favore della produzione, ha predicato i valori socialdemocratici ma ha praticato quelli neoliberisti.

I 5 Stelle, da parte loro, hanno preferito barcamenarsi a lungo tra destra e sinistra, si sono fatti risucchiare nel gioco governativo, tuttora oscillano in modo ondivago dimostrando un’identità friabile e acerba.

Il risultato è che le distanze tra ricchi e poveri sono aumentate, che tutte le sinistre messe insieme non superano il 40% dei voti potenziali perché non sono in grado di proporre all’elettorato un modello di società nettamente alternativo a quello che ha in mente la Meloni. Tuttavia, nello scenario di sinistre liberaleggianti e socialisteggianti, solo queste ultime sono in grado di confrontarsi con il capitalismo e con la sua matrice neoliberista.

Innumerevoli sono i temi che il testo di Cannavò mette a fuoco. Accenno a quello della comunità, intesa come valore che fu identitario delle destre ai tempi di Tönnies e Peguy ma che, dopo Adriano Olivetti, può diventarlo per le sinistre. Oppure penso al tema del lavoro, che resta centrale in tutti i programmi delle sinistre benché, di fatto, ormai rappresenti appena un decimo della durata di vita dei cittadini, anche di coloro che, come direbbe Maurizio Landini, “per vivere hanno bisogno di lavorare”. Anche se il progresso tecnologico ci avvicina alla liberazione dal lavoro, ciò non toglie che liberarsi dal lavoro non risolve i problemi delle disuguaglianze di genere o della salvezza ecologica.

Insomma, siamo di fronte a un salto epocale e le sinistre, se vogliono gestirlo, debbono liberarsi della politica-spettacolo, appropriarsi di una rinnovata strumentazione critica, recuperare il valore e la forza dell’ideologia.

L’analisi spietata ma rigorosa della crisi in cui versano le sinistre, offerta dal libro di Cannavò, si placa in un capitolo finale dove viene avanzata una ricca serie di convincenti proposte per trarre queste sinistre dalla palude in cui sono impantanate. Prendono così nuova luce e vigore i concetti di lavoro, classe, genere, ideologia, libertà, comunità, uguaglianza e fraternità.

 

Meloni può diventare un Renzi che ce l’ha fatta

 

DDANIELA RANIERI  11 MAGGIO 2023

Meloni potrebbe diventare un Renzi che ce l’ha fatta. Ricordate lo storytelling scoppiettante e perentorio, del tutto velleitario, con cui Renzi cercò di intortare gli italiani tra il 2015 e il 2016, quando lui e le sue majorettes andavano in giro ad ammorbare il Paese coi loro abbattitori neuronali, “la volta buona”, il “cambio verso”, una riforma “che aspettavamo da 70 anni”? Con le stesse parole che costarono la sedia e il residuo di faccia a Renzi – “piaccia o non piaccia”, “andiamo avanti”, “l’Italia lo chiede” – Meloni minaccia di modificare la Costituzione chi c’è c’è. Lei dice di aver ricevuto mandato dal popolo per istituire l’elezione diretta di qualcuno, sia esso presidente della Repubblica o premier; Renzi, che governava coi voti di Bersani, si sentiva il prescelto dallo Spirito del Tempo.

È comprensibile che Meloni voglia intestarsi una grande battaglia e realizzare il sogno di Almirante. Da una parte patisce l’imbarazzo di governare con una corte di miracoli: camerati, riciclati berlusconiani, il ministro cognato (declassamento del Conte zio), questurini che rinfacciano ai migranti la morte dei loro figli, aspiranti egemoni culturali (a chi Dante? A noi!) e la Casellati assurta a madre costituzionale; dall’altra deve pur dare qualche boccone ai suoi elettori, ch’erano convinti di votare la “destra sociale” e si ritrovano un governo draghista-neoliberista e ultra-atlantista (dunque non sovranista) con qualche pagliacciata col braccio teso e il fez. Renzi non si è presentato alle consultazioni (forse era “a Miami col genero di Trump o in Arabia a prendere soldi dall’assassino di Khashoggi”, cit. Calenda), ma s’è opportunamente messo a disposizione per tramite dei giornali che non dirige, almeno non ufficialmente. Con Calenda c’era la deputata Boschi, ultimamente famosa come testimonial delle creme-viso del fidanzato, che ha minacciato: “Sulle Riforme ci saremo perché servono all’Italia, lo diciamo da anni e non cambiamo certo idea per fare un dispetto alla Premier (sic, ndr)”. Pudore imporrebbe di non occuparsi più nemmeno di striscio di riforme costituzionali dopo averne firmata una schiantatasi al referendum, ma quelli di Italia diciamo viva sono gente notoriamente senza pudore (lei e il capo del partito farlocco sono quelli di “Se vince il No, lascio la politica”). Calenda, coi sondaggi che lo danno al 4%, dice che abbiamo “bisogno di un premier con più poteri e di una Camera sola” (non di Sanità, welfare, salari dignitosi) e propone una commissione con le opposizioni; Boschi lo autorizza a parlare solo per Azione (ma in Parlamento il Sesto Polo siede ancora nello stesso gruppo). È ovvio: Renzi con Conte e il Pd non parla, preferisce modificare la Costituzione da solo coi post(?)fascisti. Anzi, cercherà di far passare come “compromesso” l’idea del “premierato”, un sistema per cui si elegge il capo del governo e la maggioranza parlamentare nello stesso voto, che dal punto di vista della separazione dei poteri e del rispetto della democrazia è persino peggio del presidenzialismo, dove almeno possono darsi maggioranze diverse da quella del capo dello Stato.

A La Stampa ha detto: “Questa idea che il capo del governo debba non essere eletto denota una sfiducia nei confronti degli elettori”. Non è vero: ad esempio noi, contrari alla riforma, stimiamo molto gli elettori, infatti lui ha il 2%. Ritira fuori il “sindaco d’Italia”, ennesima patacca delle sue, un specie del “preside d’Italia” della Buona Scuola, o più probabilmente del principe del Rinascimento saudita suo amico. Questo sindaco-premier nominerebbe i ministri e avrebbe potere di vita e di morte su governo e Parlamento. Il disegno è chiaro: rafforzare l’esecutivo, degradare le Camere (una pure abolirla), ridurre l’elettorato a folla che acclama un capo con un plebiscito periodico. Siamo a un passo dall’autocrazia: questo sì ci avvicinerebbe a Putin, non un negoziato in luogo della guerra a oltranza come vaneggiano gli opinionisti mainstream.

Renzi sa che se ancora conta qualcosa, è proprio per questo tipo di lavori sporchi; con una maggioranza superiore ai 2/3, senza referendum e tantomeno sulla sua persona, la sua Costituzione fiorentina, rigettata da 20 milioni di italiani, potrebbe passare in versione persino peggiorata. La sostituzione del Senato elettivo con un club per amministratori locali con immunità parlamentare era legata alla legge elettorale-truffa detta Italicum, dichiarata illegittima dalla Consulta; stavolta la riforma legata all’Autonomia differenziata voluta dalla Lega (e la farebbero senza Verdini, temporaneamente impossibilitato per arresti domiciliari). Basterà aprire la campagna acquisti.

Tajani coglie il punto: nessun problema, “potremmo fare con Renzi”. Tutti sanno che quando c’è da fare qualche porcata Renzi è disponibile (vedi elezione di La Russa a presidente del Senato). In questo senso è una risorsa della Repubblica.

Riforme, il mandato popolare che non c’è

GOVERNO. Meloni lo invoca per cambiare la Costituzione, anche da sola. Ma ha i numeri solo grazie al premio di maggioranza e non ha mai proposto l’elezione diretta del presidente del Consiglio

Andrea Fabozzi  11/05/2023

Come in un maggio di tanti anni fa a Milano un altro prima di lei disse «Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca», intendendo la corona, Giorgia Meloni ripete che il popolo le ha dato il mandato di riformare la Costituzione e guai a chi glielo tocca. Cercherà, dice, un’intesa con le opposizioni (o con una opposizione), ma se non la trova farà da sola, dice, «per non venire meno agli impegni con i cittadini».

Proporsi di modificare la Costituzione radicalmente, cambiando addirittura forma di governo, si può anche fare, per quanto sia discutibile che uno stravolgimento profondo dell’assetto istituzionale sia compatibile con lo strumento dell’articolo 138, pensato per puntuali «revisioni». Però per cambiare bisognerebbe conoscere da dove si parte. E per la Costituzione che abbiamo i cittadini elettori non hanno dato né a Meloni né al centrodestra alcun mandato a riscrivere le regole comuni del gioco. Perché a settembre 2022 hanno votato per eleggere deputati e senatori, a loro volta incaricati di esprimere la fiducia al governo. E non è compito del governo riscrivere la Costituzione, neppure se dice di volerlo fare – ma questo è ovvio – non per se stesso ma per chi verrà dopo di lui.

L’opposizione avrebbe potuto ricordarlo con più forza. Invece aderendo al rito delle convocazioni della premier – a prescindere dalle affinità o divergenze nel merito – a rinunciato a smontarle il teatrino e in qualche modo l’ha legittimata nella sua pretesa di dare le carte.

Ma a proposito di mandato popolare, è proprio vero che Meloni può – e quasi deve, a sentir lei – procedere verso l’elezione diretta del presidente del Consiglio perché i cittadini l’hanno votata per questo? In realtà no. Dopo il giro di consultazioni di martedì, in effetti, la formula con meno contrarietà nelle opposizioni risulta essere il premierato. Nel senso che un gruppo di opposizione – o mezzo gruppo, visto che Calenda è assai meno deciso di Renzi – si è sfilato dal resto dichiarandosi favorevole a quello che loro chiamano «il sindaco di Italia». Meloni quindi ha spiegato che si orienterà verso una formula di quel genere per essere più inclusiva. Questo però vuol dire appunto mediare e quindi rinunciare alla sacralità del mandato elettorale. O l’una o l’altra.

In nessuno dei programmi dei quattro partiti di maggioranza è presente, neanche con un vago richiamo, un’ipotesi di scuola, un periodo ipotetico, la formula dell’elezione diretta del presidente del Consiglio. C’è per tutti – Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e anche Noi moderati – solo la soluzione del presidenzialismo, semi o integrale. Meloni dice: sì, però in quei programmi è indicato il problema al quale si vuole rimediare, l’instabilità. Per questo va bene anche l’elezione diretta del capo del governo. Ammesso che sia efficace, però, se il punto è trovare rimedio al problema le soluzioni possono essere anche altre, molte delle quali indicate dai partiti di opposizione negli incontri di martedì. In ogni caso Meloni si richiama alla purezza del mandato popolare per marciare spedita, anche da sola, però subito annuncia che intende non seguirlo.

Si può pesare, questo presunto mandato popolare? Si può, perché le elezioni del settembre 2022 hanno consegnato due risultati diversi, uno in termini di voto popolare e uno in termini di seggi parlamentari. La legge elettorale e le divisioni degli avversari hanno regalato al centrodestra il più grande premio di maggioranza che ci sia mai stato da quando le leggi maggioritarie sono arrivate in Italia. Meloni governa grazie al fatto che sono con lei quasi il 60% dei deputati e il 57% dei senatori, ma nel voto popolare le destre tutte insieme non sono arrivate al 44%. Dunque il suo è un mandato popolare di minoranza. Un non mandato. Se ha la forza per cambiare la Costituzione con la maggioranza assoluta (che è sufficiente, anche se poi si può chiedere il referendum), e se riesce a mettersi d’accordo, questo governo ce l’ha non come conseguenza del voto proporzionale ma per la distorsione maggioritaria che è presente nella legge elettorale.

Non è un calcolo solo teorico, ha risvolti assai pratici. Perché se si decidesse di far nascere una commissione bicamerale per le riforme – secondo uno dei tanti modelli, tutti diversi, sperimentati in passato -, questa andrebbe composta sulla base del voto popolare, quindi del proporzionale. E non sulla base della consistenza dei gruppi, drogata dal premio di maggioranza. Piccolo particolare: in una commissione che rispettasse il criterio proporzionale, le destra non avrebbero la maggioranza. Ma, appunto, il 44% dei (40 o 60 stando ai precedenti) componenti. Troppo azzardato? È possibile anche una mediazione, quella prevista dallo schema della commissione per le riforme proposta ai temi del governo Letta, che andò vicinissima a essere approvata. Una via di mezzo: la bicamerale sarebbe composta tenendo conto sia del voto alle liste che della dimensione dei gruppi. La destra avrebbe così la maggioranza, ma non sarebbe schiacciante

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