LA SINISTRA, IL CAPITALISMO E IL MERCATO da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LA SINISTRA, IL CAPITALISMO E IL MERCATO da IL MANIFESTO e IL FATTO

La sinistra, il capitalismo e il mercato

IN UNA PAROLA. 

Alberto Leiss  09/07/2024

Troppo facile vantarsi a urne chiuse e risultati festeggiati, ma ho sempre dubitato dell’attesa grande vittoria della signora Le Pen. Arrivata prima alle elezioni europee, certo. Ma altrettanto certamente non gradita alla maggioranza degli elettori, quel circa 69 per cento che non l’aveva votata. E tanti altri tra i non votanti, che poi sono in parte corsi alle urne proprio per manifestare questa scelta: non possiamo consegnare il paese alla destra estrema.

Inoltre, detesto Macron e il suo modo di fare politica, ma quando ha deciso di andare subito al voto non nego di aver apprezzato il suo coraggio tattico, e forse più che tattico. Un primo risultato paradossale è stato spingere la sinistra a unirsi e a diventare motore della reazione al rischio di destra.
Qui in Italia, alla vigilia del secondo turno, c’è stato un proliferare di voci preoccupate sul rischio che si rimanesse abbagliati da questa sinistra francese, larga, plurale, e sbilanciata verso il partito dell’esecrabile Mélenchon. Il quale però, tra uno slogan a effetto e l’altro, ha detto subito che bisognava fare le desistenze a favore degli odiati macroniani contro i candidati del Rassemblement National.

Un estremismo stranamente realistico? Mi è già capitato di ricordare che anche il Marx del “manifesto” scriveva che i comunisti, laddove siano in gioco alleanze determinanti per gli interessi di classe, scelgono «i democratici».
I problemi oggi sono diversi da quelli aperti nel 1848. Ma non proprio del tutto. L’aspetto farsesco della situazione mi sembra questo: Tony Blair si è precipitato a dare una serie di “consigli”, con uno scarso senso dell’opportunità, al neo primo ministro laburista Starmer, che forse si è sbilanciato in affermazioni troppo di sinistra, come chiedere un cessate il fuoco a Gaza e il riconoscimento di uno Stato ai palestinesi, il rifiuto di proseguire la politica di deportazione di immigrati in Africa. Blair insiste invece sulla priorità di reprimere l’immigrazione irregolare per non rischiare il successo del populismo di Farage.

Riecco la ricetta oltre che assurda mi sembra già usurata: la sinistra può vincere contro la destra attuando direttamente, e più rigorosamente, le sue stesse politiche!
La sinistra invece dovrebbe sottrarre alla destra il voto che una parte sempre troppo ampia dei cittadini le assegna dando risposte diverse al disagio che soprattutto strati popolari e di ceto medio impoverito esprimono con quel voto.
Qui ci vorrebbe un pensiero a sinistra molto radicale, per riconiugare da capo parole appesantite da qualche secolo di fraintendimenti più o meno tragici: capitalismo e mercato.

Il capitalismo, per dir così abbandonato a se stesso, cioè all’egoismo materiale e alla competizione accesa fino alla guerra, non funziona. Distrugge il pianeta e per quanta ricchezza monetaria e materiale produca, solo in troppo piccola parte viene redistribuita, e comunque costringe a un modo di vivere che alla fine produce infelicità e malattie.
Ma bisognerebbe prendere finalmente atto che il rimedio non può essere quello di immaginare un potere supposto saggio che rimette il mondo a posto facendo decidere tutto allo Stato, limitando se non eliminando il mercato.

Andrebbe ripresa una intuizione troppo dimenticata del femminismo della differenza quando ha detto che al mercato, per sovvertirlo, bisogna portare tutto: non solo lavoro, merci e denaro, ma sentimenti, affetti, relazioni, capacità di gestire non mortalmente i conflitti, e i desideri più profondi. Non solo regole, necessarie, per mitigare il suo carattere selvaggio (oggi invocate anche da chi il capitalismo lo difende). Ma una vera rivoluzione simbolica.

La sinistra “indomita” non piace alle élite (e sconfigge Macron)

IL VOTO D’OLTRALPE – Nel programma indicano giustizia sociale, economia keynesiana espansiva e tassazione progressiva. Il pressing ora è su socialisti e Verdi, per spaccarli e annullarli

BARBARA SPINELLI  9 LUGLIO 2024

Alla fine i francesi hanno sorpreso l’intera classe politico-mediatica, domenica, dando la vittoria al Fronte Popolare delle sinistre – La France Insoumise di Mélenchon, Socialisti, Verdi, Comunisti – e mostrandosi leali nella strategia delle desistenze grazie a cui è stato possibile opporre un vasto “Fronte Repubblicano” all’avanzata di Marine Le Pen e Jordan Bardella. L’estrema destra viene addirittura confinata al terzo posto, dopo le sinistre e la coalizione di Macron, che perde più di 80 deputati ma non crolla. Non crolla per la verità neanche Le Pen, che aveva 89 deputati e ne ha ora 143; e che è pronta a prendersi una rivincita alle presidenziali del 2027, se la Camera diverrà ingovernabile come tanti predicono.

Le desistenze del secondo turno hanno visto il ritiro sistematico dei candidati di sinistra a favore di quelli del centro-destra in grado di battere Bardella, lì dove restavano in lizza tre candidati. In buona parte si sono ritirati anche i centristi, malgrado il disgusto che tuttora provano per Mélenchon.

Nonostante le profezie del centrismo macroniano sulla fine della dialettica destra-sinistra, la contrapposizione riaffiora e la sinistra è premiata. Non con forza sufficiente tuttavia, dal momento che il Nuovo Fronte Popolare è molto lontano dalla maggioranza assoluta (182 parlamentari invece di 289) e perché il peso del centro destra resta notevole. Insieme, ex Macroniani e Repubblicani sono più forti delle sinistre.

Diciamo ex macroniani perché sciogliendo l’Assemblea Macron ha dissolto anche sé stesso. Credeva di restare chiave di volta del sistema politico e invece i più importanti dirigenti del suo raggruppamento hanno preso le distanze da lui, nella campagna elettorale e ancor più domenica sera. In prima linea si sono dissociati il Premier Gabriel Attal e l’ex Premier Édouard Philippe, che da tempo si era chiamato fuori: entrambi hanno annunciato domenica una “nuova era” più democratica, e si sono presentati come leader non ancora ufficiali di un radicale cambiamento della Quinta Repubblica, destinato a spostare il baricentro della vita politica dall’Eliseo al Parlamento. È una battaglia condotta negli ultimi anni da Mélenchon. È nell’Assemblea che tocca ora cercare maggioranze più o meno fluttuanti, restituendo ai parlamentari un potere che De Gaulle aveva drasticamente ridotto nel 1958. Fenomeno non nuovo: si parla di maggioranza presidenziale perduta ma è dalle legislative del 2022 che Macron ha una maggioranza relativa, e che si è abituato a stringere ripetuti patti con le destre, specie sulla migrazione.

Per la quarta volta dunque, negli ultimi ventidue anni, l’estrema destra è bloccata quando è sul punto di prendere il potere. È accaduto nel 2002, quando Jean-Marie Le Pen sorpassò al primo turno i socialisti e fu battuto al secondo da Jacques Chirac, che nel duello finale raccolse l’82,2% dei voti pur avendo ottenuto il 19,8% al primo turno. Seguirono altri due sorpassi, quando Macron fu eletto Presidente nel 2017 e nel 2022, grazie alle desistenze delle sinistre. Nel 2022 i francesi lo detestavano più che mai, e infatti gli diedero alle legislative una maggioranza relativa. Nonostante questo respinsero Le Pen figlia. La loro incaponita resistenza continua ed è qui la singolarità della Francia.

Logica parlamentare vorrebbe che sia il Fronte Popolare, primo gruppo, a proporre il Premier all’Eliseo. Che governi con il suo programma e magari con una provvisoria maggioranza relativa, come Macron dopo il 2022. E logica vorrebbe che il candidato a Primo Ministro provenga dalla Francia Indomita, che a sinistra arriva prima malgrado il rafforzamento di Socialisti e Verdi. Ma Macron prende tempo: ieri ha respinto le dimissioni del Premier Attal. In parte perché incombono le Olimpiadi, in parte perché vuol osservare quel che accade nelle sinistre e punta al loro sfaldamento, nel desiderio di evitare il governo con gli Indomiti di Mélenchon. Quel che vuol vedere è se Socialisti e Verdi prenderanno le distanze dal Fronte e da un programma che l’Eliseo e il centro destra esecrano, perché imperniato sulla giustizia sociale, l’economia keynesiana espansiva, la tassazione finalmente progressiva, le imposte sui redditi alti e sulle corporazioni che più hanno profittato del Covid e della crisi inflazionista.

Per il momento l’unità delle sinistre regge, pur scricchiolando molto. Difficilissimo, dopo una vittoria simile, dire ai francesi che è stato tutto un bluff, che il programma di giustizia sociale e di non discriminazioni per cui hanno votato si sfalda il giorno dopo, e che ricominciano da capo le divisioni e gli intrallazzi. Ma nell’area di Socialisti e Verdi riaffiora una sorta di libido autodistruttiva, che si esprime nel desiderio di rompere con la sinistra radicale e di adottare il punto di vista che domina all’Eliseo e in tutte le reti Tv, secondo cui Mélenchon e i suoi parlamentari rappresentano l’ “estrema sinistra”. Così viene chiamata oggi la sinistra che non si rinnega: estremista, e se non basta si affibbia il marchio infamante dell’antisemitismo, che già emarginò Jeremy Corbyn in Gran Bretagna.

Negli ultimi giorni si sono avute alcune avvisaglie di regolamenti dei conti a sinistra. Prima ancora di affrontare il secondo turno, alcuni esponenti del Fronte Popolare hanno fatto capire che con Mélenchon non si governa (l’ex Presidente François Hollande, l’eurodeputato Raphael Glucksmann che ha provato a rovinare il secondo turno dicendo che Mélenchon “è un enorme problema” per la sinistra). Non è chiaro quale sia il loro peso effettivo. Dar vita a una coalizione senza la France Insoumise, con Macronisti e destra dei Repubblicani, è un formidabile azzardo. Mélenchon sarebbe solo a opporsi, e a incarnare il tradito Fronte Popolare.

Altra singolarità francese: gli elettori non si sono limitati a sorprendere, affluendo massicciamente alle urne e salutando la sinistra vittoriosa con imponenti manifestazioni di sollievo e gioia, non solo a Parigi. Hanno sconfitto l’estrema destra, scalfito spettacolarmente il potere di Macron, e screditato gli istituti di sondaggio e soprattutto la stampa scritta e audiovisiva, che per settimane ha fatto disinformazione – continua a farlo – bollando Mélenchon e il suo partito di antisemitismo, estremismo e anti-repubblicanesimo.

Uno schieramento simile disinforma anche in Italia. Il Tg della Sette, per esempio, diceva spensieratamente, sabato, che le elezioni francesi sono “importanti anche per l’Europa, i mercati e gli imprenditori”, fingendo di dimenticare che in democrazia esiste un popolo elettore un po’ più ampio. Questo rivelano le elezioni in Francia, come hanno già hanno rivelato in Italia: i cittadini non sono rappresentati dalla classe politica e lo sono ancor meno dal potere mediatico/industriale, che tranne qualche eccezione pare occuparsi solo di mercati, imprenditori e padroni della stampa. La differenza tra Francia e Italia è che la prima va a votare in massa, mentre la seconda ancora fugge nell’astensione.

Oggi vince la paura ma questa destra è ancora una marea

LA VERA SFIDA. Come e se si sbloccherà l’impasse parlamentare francese dopo gli inattesi risultati delle elezioni del 7 di luglio, in che modo e con chi si configurerà la coabitazione con la […]

Marco Bascetta  09/07/2024

Come e se si sbloccherà l’impasse parlamentare francese dopo gli inattesi risultati delle elezioni del 7 di luglio, in che modo e con chi si configurerà la coabitazione con la presidenza, con quali rischi per il futuro, con quali compromessi e riflessi sull’opinione pubblica? Sono questioni decisive che tuttavia resteranno per un bel pezzo senza risposta. Ma, nell’immediato, il voto francese rappresenta un segnale ben preciso: conferma e rafforza qualcosa che già con le elezioni europee si era lasciato intravvedere. Nonostante un’indubbia avanzata delle forze nazionaliste e xenofobe, e in buona misura proprio per questo, la paura della destra più radicale e della sua marcia verso il potere in Europa si è diffusa.

E si è intensificata, facendosi in più occasioni maggioranza. Malgrado lunghe e laboriose strategie di ripulitura, umori neri e nostalgie, riaffiorano alla minima occasione nei partiti dell’estrema destra e, più in generale, l’avventura nazionalista comincia suscitare qualche preoccupazione.

Al contrario le sinistre non fanno più paura a nessuno, o quasi. Sono passati i tempi nei quali Berlusconi vedeva comunisti dovunque, o meglio fingeva di vederli per rifilare un babau all’infantilismo che ben sapeva stimolare tra i suoi potenziali elettori. Semmai il quadro appare oggi rovesciato. Le sinistre non è facile vederle quando perdono, ma soprattutto quando vincono. Difficile scovare qualcosa di sinistra nel Labour di Keir Starmer e altrettanto arduo dalle parti di Olaf Scholz e dei Grünen tedeschi o dei socialdemocratici danesi.

In Francia le sinistre all’opposizione si sono viste di più (anche in occasione di partecipate lotte sociali), ma soprattutto nel momento del massimo pericolo, di fronte al quale hanno tempestivamente edificato un argine decisivo. Un argine tuttavia non è ancora un’architettura politica, è un’opera importante ma piuttosto semplice, con una sola ed unica funzione: respingere, trattenere. Cambiare lo stato delle cose è un altro paio di maniche.

Quello che nel corso degli anni ha determinato il lungo declino delle forze di sinistra in tutta Europa non è certo la paura di un inesistente radicalismo, ma piuttosto la generale delusione per la timidezza, la subalternità al cosiddetto “pensiero unico” e l’inefficacia politica e sociale che ne è conseguita. E che a un certo punto si è trasformata in seconda natura, fregiandosi del titolo di “responsabilità”, quella che ha spinto, in questo caso comprensibilmente, un gran numero di elettori di sinistra a votare per gli uomini di Macron, compresi macellai sociali e questurini come l’indigeribile Darmanin, pur di sbarrare il passo al Rassemblement national. Molti di meno gli elettori macroniani e gaullisti che hanno fatto il sacrificio di votare a sinistra per la medesima ragione. La cortesia è stata ripagata in minima misura. Fino alla faccia tosta di rivendicare il successo di una presunta scommessa strategica del presidente che, per la verità, ha quasi dimezzato la sua forza parlamentare. Probabilmente il peso della variegata opinione di sinistra è perfino maggiore di quello che si traduce nei seggi assegnati al Nuovo fronte popolare.

E resta il fatto che il paese, come già anticipato dai grandi e tenaci movimenti di protesta che si sono susseguiti in Francia negli ultimi anni e dal vasto appoggio che hanno ottenuto nell’opinione pubblica, non ne può più di Emmanuel Macron, della sua arroganza e del suo stile di governo. Un umore diffuso che peserà non poco sulle precarie condizioni in cui si trascineranno gli ultimi anni del suo mandato.

Converrà però non dimenticare che la minaccia di una destra agguerrita all’arrembaggio del potere non si è affatto estinta e che l’aggregazione di una parte dei gaullisti al Rassemblement national resta un segnale decisamente preoccupante riguardo alla tenuta dell’antifascismo borghese. Inoltre i voti confluiti nell’estrema destra sono comunque una marea. Se lo spaventapasseri comunista è finito in soffitta, ce ne è un altro pronto all’uso e dimostratosi in più occasioni di grande efficacia: i migranti e la popolazione francese di origine extraeuropea, in particolare quella araba e di fede musulmana, che le destre demonizzano come fattore di minaccia su diversi fronti: culturali, economici, sociali. Qui, non si può negarlo, la paura esiste ed è pronta a essere mobilitata. Del resto, su questo terreno, le risposte delle sinistre di governo sono state ovunque fiacche, reticenti quando non anticipatrici o imitative delle politiche adottate dai governi della destra. La sfida più difficile sta qui, dove perfino il più classico repertorio repubblicano finisce col contraddirsi ripetutamente.

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