IL POPOLO A VENIRE(2/2): PER UN “CONTRO-POPULISMO” da IL MANIFESTO
Il popolo a venire (2/2): per un “contro-populismo”
ELEZIONI POLITICHE IN FRANCIA. Nuit debout, movimenti femministi, Gilets gialli, personale sanitario durante il Covid-19, la rivolta nelle periferie dopo l’assassinio di Nahel Merzouk, la lotta contro la riforma delle pensioni, le Rivolte della Terra… Non si tratta di fondere o di sussumere questi movimenti in un unico “programma” e in un’unica “strategia”, ma di riaccendere la loro energia e trovare la loro intersezione in movimento, in evoluzione, con l’obiettivo di rafforzare il popolo nella lotta contro il lepenismo e ciò che esso rappresenta
Etienne Balibar 30/06/2024
Il popolo del fronte “popolare” non è dato. È su questo punto che vorrei proporre un’ipotesi. Non è ovviamente questa la sede per riprendere la discussione teorica che ha recentemente occupato tutta una parte del pensiero democratico cosiddetto “radicale” sulla costruzione delle “egemonie” politiche, e sul modo in cui queste risolvono il problema che pone la pluralità degli interessi “emancipatori” e dei “soggetti” storici eterogenei trasformandoli in una forza politica e non in un fattore di paralisi e di rivalità ideologiche permanenti.
È chiaro però che si tratta del problema delle “contraddizioni all’interno del popolo” e che bisogna affrontarlo con urgenza, se non altro perché (tornerò su questo punto più avanti) il Rassemblement National è ormai in grado di mobilitare sostenitori in quasi tutte le classi della società francese, riuscendo dove il macronismo ha completamente fallito. Sembra avere trovato una soluzione che può essere definita populista. Il Rassemblement National è davvero sulla buona strada per trovare il suo “popolo”. Cosa accadrà alla sinistra? Dal “populista” al “popolare” c’è sia un’incompatibilità radicale, sia una prossimità, un’analogia inquietante della questione posta che deve interrogarci profondamente.
Ecco la mia ipotesi di lavoro su questo punto. Non credo che ci si possa fermare ai due modi classici di pensare alla formazione di un popolo nel senso politico del termine che hanno alimentato le teorie e le strategie di “egemonia” nella tradizione della sinistra europea e globale, marxista o no. Quella che ragiona in termini dei gruppi sociali i cui interessi bisognerebbe elencare e conciliare (operai o più in generale dipendenti, lavoratori autonomi e in particolare agricoltori, dipendenti pubblici e agenti di pubblico servizio, intellettuali e artisti, ecc.) .), e quello che ragiona in termini di “partiti” nel senso originario della parola, cioè di scelte compiute da individui e da comunità tra valori morali concorrenti, religiosi o secolari, che si esprimono in stili di vita e professioni di fede.
Questi due metodi toccano certamente le condizioni fondamentali della politica, compresa la politica di sinistra, che si occupa sempre di temi socialmente situati, così come di ideologie o di “concezioni del mondo”. Ma sono troppo astratte, troppo deduttive, e proprio per questo esposte alla spiacevole sorpresa di rendersi conto che una “classe” sviluppa al suo interno interessi contraddittori o esclusioni, e che una confessione o anche un’ideologia progressista non è mai al sicuro dalle più grandi oscillazioni tra democrazia e totalitarismo…
Per questo mi sembra che, spinti dalla situazione di emergenza in cui ci troviamo, dobbiamo cambiare metodo e cercare ispirazione nelle esperienze che abbiamo vissuto o osservato di recente, prendendo come base non le condizioni sociali o idee, ma movimenti reali, sia sociali che politici, di cui possiamo dire che sono tutti “popolari”. Naturalmente per definizione questi movimenti, anche quando sono massicci, sono più ambivalenti, più instabili, più effimeri rispetto a quelli sociali o ideologici. Ma a volte mettono in luce le vere esigenze della situazione e del momento, di cui altrimenti non avremmo avuto idea.
La Francia ha vissuto negli ultimi anni diversi movimenti che, tranne forse il femminismo, che conosce alti e bassi ma non scompare mai, sono stati tutti sconfitti o soffocati, o almeno isolati da una combinazione di repressione, manipolazione ed esaurimento, ma hanno lasciato tracce e forse capacità di rinascita. Penso in particolare a:
1) “Nuit Debout” (2016) e la mobilitazione contro la “Legge sul lavoro” del governo Hollande-Valls, che ha visto convergere la difesa dei diritti del lavoro contro la logica della “competitività” delle imprese con le esperienze di democrazia partecipativa, analoghe allo spostamento delle “piazze” e delle “assemblee” in altre parti del mondo;
(2) al movimento dei “Gilet Gialli” nel 2018-2019, partito dalla protesta contro l’aumento del prezzo del carburante che colpisce tutti i lavoratori mobili e precari e i piccoli imprenditori: la sua invenzione di una “occupazione” simbolica del territorio e la sua rivendicazione per la consultazione democratica (il referendum di iniziativa popolare) che ha saputo mobilitare numerose categorie sociali, prima di essere duramente represso dalla polizia militarizzata, e derisa dal presidente Macron;
(3) la mobilitazione degli operatori sanitari ospedalieri e degli operatori dei servizi comunali durante la fase acuta della pandemia di Covid-19 per compensare la mancanza di lungimiranza dello Stato e l’impoverimento della sanità pubblica, che in modo molto diverso, ha generato un sostegno e l’esigenza di essere riconosciuta;
(4) la rivolta delle periferie contro il razzismo istituzionale e la violenza poliziesca, rivolta che non si è mai spenta, sotto varie forme, dall’inizio degli anni Ottanta, ma che è riemersa in con una violenza spettacolare (ma molto meno di quelle di repressione, in realtà) dopo l’assassinio di Nahel Merzouk nel giugno 2023, e prosegue oggi in un movimento di autorganizzazione dei “quartieri”, i cui portavoce si sono appena pronunciati inequivocabilmente a favore della mobilitazione a favore del Fronte Popolare;
(5) al movimento di scioperi e manifestazioni contro la riforma delle pensioni respinta dalla stragrande maggioranza del paese, tra gennaio e marzo 2023, segnato non solo dall’entità e dall’ostinazione dei manifestanti, ma dalla ricostituzione di un “inter-sindacale” democratica che ha rivitalizzato la lotta di classe e ha dimostrato la sua capacità organizzativa che pensavamo perduta, sotto la guida di dirigenti straordinari;
(6) alle “Insorgenze della terra” [Soulèvements de la terre, ndt.] e più in generale alle mobilitazioni contro l’artificializzazione dei suoli, la deforestazione e il pompaggio delle falde acquifere a vantaggio dell’agricoltura intensiva, che si svolgono nel tempo, in connessione con il principale “internazionalismo” contemporaneo, quello degli ecologisti, anche se i loro partiti sono a pezzi,, o proprio per questo motivo;
7) ai movimenti femministi che non scompaiono, anche se secondo la logica inscritta nel carattere “paradossale” della “classe delle donne”, continuano a dividersi in fazioni e a contraddirsi sui principi filosofici: Il #Metoo non li riassume, ma questo nome ha il vantaggio di sottolineare l’importanza che ha in questo momento, per tutte le donne, la lotta contro l’accettazione dell’incesto, dello stupro e della brutalità virilista [1].
Questi movimenti possono essere assegnati alla “società civile” (nonostante l’imprecisione del concetto) e dimostrano eloquentemente che essa non è immobile né rassegnata. Ma sono eterogenei sotto tutti i punti di vista: partecipanti, origini o occasioni, durata, modalità di organizzazione (o spontaneità), tensioni interne, riferimenti ideologici o simbolici, grado di radicalità in opposizione all’ordine sociale e di ostilità verso i suoi rappresentanti ufficiali. È in parte ovviamente questa la contropartita della repressione ineguale a cui sono soggetti. Non ci permettono nemmeno di proporre una definizione univoca di cosa sia un “movimento”, perché ognuno ne ha reinventato la forma a seconda delle circostanze e degli obiettivi. Ma direi ipoteticamente che sono (o erano) tutti caratterizzati da una reale capacità di trasformare la difensiva in offensività, il “rifiuto” (o la rabbia, o la disperazione) in affermazione di un diritto, di solidarietà e volontà di trasformare il “mondo” nella direzione dell’uguaglianza e della giustizia, e per questo universalizzabile a partire dalle situazioni e circostanze che le hanno originate. In altre parole, sono “azioni di cittadinanza” (acts of citizenship, dice Engin Isin) [2], portatrici di un’utopia concreta senza la quale non esiste politica di emancipazione.
La questione che allora si pone non è quella di fonderli o sussumerli sotto un unico “programma” e “strategia”, ma piuttosto, nella nostra determinatissima attualità, quella della lotta all’RN e ciò che esso rappresenta, rilanciare la loro energia e trovare la loro intersezione mobile ed evolutiva, nella prospettiva di rafforzare i popoli, dal punto di vista della loro coesione e delle loro capacità di costruire un futuro comune. Naturalmente prendo intenzionalmente questo termine da un saggio di Michel Feher, pubblicato poco prima dell’evento del 9 giugno, che si oppone all’idea di un movimento sociale omogeneo, e invoca un’alleanza che si collocherebbe all’”incrocio delle cause singolari”, contro l’unione delle destre di cui egli ha anticipato l’avvento.
L’unica differenza che introdurrò a livello verbale (ma non è trascurabile), è che non penso che le cause singolari e i movimenti che le esprimono siano “minoritari”: credo invece che siano universalizzabili, e rientrano quindi nell’orizzonte di una maggioranza virtuale, da costruire attraverso la pratica politica. Ma per questo è necessario che l’incrocio dei movimenti, o di ciò che estende nel presente la loro esperienza e la loro ispirazione, non sia vuoto, né di idee, né di simboli, né di slogan, né soprattutto di attori e attrici concreti che “viaggiano” tra loro, passando dall’uno all’altro e discutendo la loro articolazione che ovviamente non è un’organizzazione professionale creata da militanti e da dirigenti di partito. Tale articolazione si dà in “assemblee” come quella evocata dalla prima dichiarazione delle organizzazioni convergenti nel “fronte popolare” che ha parlato della necessità di completare il proprio programma sui punti aperti o controversi attraverso dibattiti tra cittadini volontari [3]. Le forme tradizionali di pratica politica di massa potrebbero non aver detto l’ultima parola, come evidenziato dalla resilienza del sindacalismo, ma nuove forme sono fortemente necessarie e detengono la chiave per l’istituzione del “fronte popolare” nello stesso tessuto sociale e civico.
Mi si dirà che non ho fatto molti progressi perché questo incontro creativo dei movimenti attraverso i loro attori è altrettanto problematico quanto il “fronte popolare” a cui dovrebbe dare sostanza e radicamento nella vita quotidiana. Questo è assolutamente vero: non ho voluto fornire una ricetta, ma illustrare le dimensioni del problema che abbiamo di fronte e suggerire un modo attuale per riscoprire l’energia che aveva permesso allo storico Fronte Popolare di prevalere sui suoi avversari, nonostante le difficoltà profonde dei tempi e delle condizioni. È con lo stesso spirito che proporrò infine una terza discussione, questa volta concentrandomi sulla differenza tra il “populista” e il “popolare” che mi sembra costituire il cuore del confronto a venire, durante le elezioni e soprattutto dopo, qualunque sia l’esito, tra due concezioni e due pratiche della politica. È anche un modo per attaccare alla radice il discorso mistificante che presenta il confronto tra il Rassemblement national e il Fronte popolare come una lotta tra “due estremismi simmetrici”, ampiamente diffuso dai politologi del “centro”.
Struttura psicologica del lepenismo: odio e paura
Il punto di partenza di questa discussione mi sembra essere un chiarimento di ciò che costituisce la “forza” del Rassemblement National in Francia oggi. Quello che si riflette nelle sue conquiste elettorali e nel suo insediamento nelle istituzioni, in particolare nei comuni, ma si riferisce in un modo più profondo a quella che – parodiando una celebre espressione – chiamerò la “struttura psicologica del lepenismo”, cioè all’insieme di affetti e di rappresentazioni che lo compongono e gli danno energia.
Georges Bataille ha parlato di una “struttura psicologica del fascismo” per sottolineare che l’arruolamento delle masse in Francia, ma soprattutto in Germania e in Italia in movimenti militarizzati, soggetti al culto del leader e animati da un odio omicida verso stranieri, intellettuali, comunisti ed ebrei, sviluppando un “fanatismo della normalità e dell’identità” non si spiegava solo con interessi di classe o convinzioni ideologiche, ma con impulsi inconsci, che portavano a svelare le profondità al tempo stesso libidine e mortali della psiche collettiva, resistente alla normalità, da lui definita “l’eterogeneo”[4]. C’è infatti qualcosa di questo ordine nel lepenismo che rende possibile vedere in esso un potenziale fascismo capace di riattivare tradizioni violente che la politica “liberale” aveva represso o emarginato, e che ora potrebbe ritornare alla ribalta sotto nuove vesti.
Diamo un’occhiata all’America di Trump, all’India di Modi, alla Russia di Putin: nulla ci immunizza da queste tendenze. Ma ci sono anche – almeno per il momento – delle differenze, che vanno evidenziate per non immaginare che basterebbe brandire l’idea di una “mobilitazione antifascista” per bloccare alle urne, a breve termine, il progetto RN, invertendo l’equilibrio di potere che ha creato nella società. Il Rassemblement National ha al suo interno nuclei di giovani razzisti pronti alla violenza aperta, ma non mette in strada milizie o masse fanatiche. Questa non è né la sua strategia né la sua abilità. Il motivo della sua presa su un numero molto elevato di cittadini va ricercato in un altro registro: non è tanto l’odio quanto la paura, o l’ansia di fronte alle trasformazioni del mondo che li tocca. Più precisamente, innesta l’odio (verso l’“Altro” in generale) su un affetto fondamentale che è la paura, quindi il sentimento di impotenza.
Che paura? In sostanza quella della crescente insicurezza in cui vivono questi cittadini e chi vive intorno a loro (i loro cari, i vicini, i genitori, i figli). Riguarda sia l’incertezza sul futuro professionale, familiare, scolastico. Ciò dice molto dei danni provocati dal degrado del sistema educativo, della svalorizzazione dei diplomi e della selezione programmatica simboleggiata da “Parcoursup”, della crescente certezza di un declassamento in termini di tenore di vita, di stabilità o precarietà, della perdita di qualità del lavoro e del tessuto urbano e periurbano, della considerazione da parte delle amministrazioni e delle “élites” dominanti. Questi sentimenti non riguardano frazioni della società, che potrebbero essere considerate “marginali”, ma uno spettro immenso di categorie sociali che si trovano a collocarsi nel mezzo, “tra” i ricchi (sempre più ricchi) e i poveri (sempre più poveri). coloro per i quali tutele e solidarietà crollano a favore della competizione accanita in cui sono sempre più i perdenti che dei vincitori e dell’abbandono, quando non è vero e proprio disprezzo.
A questo proposito, bravi sociologi hanno proposto una categoria illuminante, quella della “coscienza triangolare”, per esprimere il sentimento di alienazione delle classi lavoratrici in senso lato che abbraccia tutti gli individui. Quelli che, oggi, sono privati di capitale finanziario o culturale, e si rivolgono contemporaneamente in due direzioni: verso i “dominatori”, con risentimento per il loro arricchimento sempre più concentrato e sempre più arrogante, per il loro “separatismo sociale”, e verso gli “esclusi”, con repulsione davanti al destino che sembra prefigurarsi tutti[5].
Il secondo affetto è ancora più violento del primo, perché i cittadini della mediana [il milieu, ndt.] non si fanno illusioni sulla possibilità di cambiare qualcosa nella concentrazione dei privilegi e della ricchezza (vale a dire, nel capitalismo). sono ossessionati dalla paura di retrocedere o di cadere, e la amplificano fantasmaticamente.
La strategia del Fronte Nazionale (sottolineata sin dalla sua trasformazione in Rassemblement National) consisteva nello sfruttare il più possibile il sentimento di insicurezza esistenziale, che si accoppia con il sentimento di impotenza generalizzata, aggiungendo due ingredienti che mobilitano le ansie “primarie” della psicologia individuale e collettiva di fronte alla violenza, associando l’insicurezza economica alla criminalità, alla “decivilizzazione” o alla cancellazione dei confini tra povertà e delinquenza, e di fronte all’alterità fondendo la paura di retrocedere con la paura di non riuscire più a distinguersi dagli “stranieri” o da quei concittadini sempre ritenuti stranieri, e per questo confinati nel “basso” della scala sociale. Ansie di caduta o di abbandono, in particolare di abbandono da parte dello Stato, e immaginazioni cospiratorie possono allora proliferare in modo circolare, in un circuito rinforzante: gli stranieri arrivano in massa, o vengono inviati in massa, per “sostituirci” e prendere posizioni politiche di potere, monopolizzare posti di lavoro e benefici sociali, spingendoci nella loro posizione “inferiore”. Alimentano la delinquenza e corrompono coloro che detengono il potere o li mettono al loro servizio. La loro presenza ha distrutto un ordine sociale che sarebbe potuto durare indefinitamente. E paradossalmente (scandalosamente) lo Stato (il nostro Stato) li “protegge”, vale a dire, non li scaccia né li reprime, almeno non abbastanza visibilmente. Il che sembra indicare che in qualche modo si sia denazionalizzato.
La centralità contraddittoria dello Stato
Tutto questo è, in un certo senso, ben noto. Non ho quindi alcuna pretesa di originalità. Ma vorrei fare quattro osservazioni:
1) Non dobbiamo certo sottovalutare il potere mobilitante e il potenziale mortifero degli affetti che derivano dall’odio per l’altro e che ci portano a sperare che la violenza, in particolare quella della polizia, sia usata “di preferenza” contro le persone razzializzate che continuiamo a chiamare “immigrati” della seconda, terza o quarta generazione, e di fatto a tempo indeterminato. Non dobbiamo nemmeno dimenticare che questi affetti sono ereditati dalle rappresentazioni lasciate dalla colonizzazione e dal risentimento che molti cittadini francesi provano nei confronti dei popoli “non bianchi” che ci hanno “espropriato” dei privilegi dell’impero.
Ma, almeno questa è la tesi che vorrei sostenere, dobbiamo renderci conto che la paura è più profonda dell’odio, o almeno che la sua persistenza è ciò che rende difficile, se non impossibile, liberarsi dall’odio, sia attraverso uno sforzo del cuore che della ragione. L’odio si fissa su “oggetti”, una volta i ricchi, ora i poveri, o i più poveri, per arrivare all’estremo. La paura spiega perché è impossibile, o molto difficile. credere nella possibilità di un mondo migliore, più egualitario o più giusto, che ci permetta di “non odiare” coloro da cui differiamo.
2) La paura è un affetto che nasce e prolifera nell’immaginazione; potremmo dire che è una fantasia di cui gli individui sono la fonte, anche se non i padroni. Ma l’insicurezza da cui nasce non è immaginaria: è del tutto reale, ed è diventata la condizione in cui vive oggi un numero sempre maggiore di cittadini del mondo. Soprattutto, è la condizione in cui sono precipitate popolazioni che, in varia misura, erano state protette fino a tempi relativamente recenti a causa della loro nazionalità e come risultato delle loro lotte e dei loro sforzi, come le popolazioni delle nazioni borghesi “imperiali” del “Nord”. Questo è il risultato delle politiche neoliberiste che brutalizzano l’intera società per promuovere la globalizzazione e la deregolamentazione, con l’Europa “comunitaria” che svolge un ruolo straordinariamente perverso di protezione distruttiva in questo senso, tanto più terrificante perché sembra essere situata, per così dire, al di sopra del sovrano.
3) Precisamente, lo Stato è il perno, o il punto in cui si “annodano” gli elementi psicologici e i vincoli strutturali (economici, sociali) all’opera in questo complesso. Naturalmente, non esiste lo “Stato” al singolare, è solo un nome per un insieme di istituzioni molto complesse e per nulla coerenti con una storia e status giuridici diversi, di potere “normativo” o “coercitivo” ineguale, distribuito su tutta la società. Il “Capo di Stato” è solo una piccola parte di esso, costantemente spinto a sopravvalutare il proprio potere. Ma questo nome copre effetti molto reali che si riflettono nella coscienza di coloro che non potrebbero vivere senza i sussidi che egli fornisce o prescrive in maniera legale.
Nel corso del XX secolo, in Francia e altrove, lo Stato si è notevolmente modificato rispetto al corpo di potere “sovrano” che ha avuto origine nell’imperium medievale e monarchico e di cui si sono “riappropriati” i rappresentanti eletti dal popolo nell’era moderna. Secondo la definizione di Michel Foucault, la cui formula può essere generalizzata, lo Stato è il potere o l’autorità che, per i cittadini, è responsabile di “far vivere o lasciare morire”. Da parte mia, ho parlato di Stato “nazionale sociale” per indicare che le politiche su cui poggia oggi la sua legittimità non riguardano tanto la “difesa della società” contro i suoi nemici interni ed esterni o l’assoggettamento a un’ideologia dominante, quanto piuttosto la sua capacità di organizzare servizi pubblici “universali” e di garantire per legge risorse e aiuti personalizzati (come gli assegni familiari) in un quadro nazionale. Ciò non significa che i beneficiari debbano essere definiti dalla loro nazionalità: ciò dipende dall’idea che lo Stato e i suoi cittadini hanno della “comunità” che vive e lavora sul suo territorio.
Ciò che non è cambiato, invece, è il fatto che le imposte dirette o indirette che pesano in modo diseguale sui cittadini vengono raccolte dallo Stato e poi distribuite in base alle sue politiche (forse avrei dovuto parlare di Stato fiscale-nazionale-sociale, seguendo i suggerimenti di Wolfgang Streeck) [6]. Ma a partire dall’ultimo trentennio del XX secolo, questa stessa struttura è stata stravolta: lo Stato è diventato sempre più dipendente dai mercati globali sia per le sue risorse che per le sue politiche sostituendo il debito alla tassazione. E si è impegnato, sotto la pressione di questi stessi mercati, o meglio di coloro che li dominano, a smantellare progressivamente i servizi e i sistemi di diritti sociali che gli davano legittimità politica. Questo è il cosiddetto neoliberismo i cui effetti devastanti si vedono oggi sulla fiducia nelle istituzioni democratiche.
A partire da questo si comprende meglio come funziona la parola d’ordine della “preferenza nazionale” che è il cuore dell’ideologia . E da qui si capisce in quale crisi sia istituzionale che psicologica essa si radica. Più i cittadini perdono i diritti e i servizi che gli sono stati assicurati in precedenza, o idealmente promessi, più essi trovano insopportabile che questi stessi diritti e servizi siano forniti (anche se con il contagocce) a individui che non dovrebbero far parte della “comunità nazionale”, se vogliamo attenerci ai criteri di origine e genealogia. E tanto più rivolgono il loro risentimento contro lo Stato, chiedendo una prova visibile che lo Stato “appartiene” a loro (così come loro appartengono allo Stato, cioè dipendono da esso), e che questa proprietà gli conferisce la priorità nell’uso dei suoi servizi.
Queste prove sono date da sfratti, discriminazioni, stigmatizzazioni e violenze nei confronti di beneficiari indegni. Perché le cose vadano diversamente, bisognerebbe invertire contemporaneamente la traiettoria della riduzione dei diritti e dell’impoverimento dei servizi pubblici in modo da giustificarne l’universalità, e la rappresentazione dell’appartenenza al corpo dei cittadini (quella che la tradizione repubblicana chiama “nazione”) dovrebbe essere staccata dallo schema della proprietà e sostituita da quello della partecipazione alla “cosa comune”.
Queste due mutazioni sono davvero rivoluzionarie rispetto al corso attuale delle cose e non possono essere decretate, anche se è della massima importanza per una politica di sinistra coerente con se stessa formulare l’obiettivo e lavorare per crearne le condizioni, in particolare attraverso le riforme fiscali (da qui la ferocia dell’attuale scontro sulle “nicchie” di esenzione e sull’evasione fiscale), ma anche nelle rappresentazioni dominanti della comunità nazionale.
4) Ciò mi porta all’ultima osservazione, in un certo senso la più importante e la più delicata di tutte. Sono tanto più desideroso di farlo perché è il risultato di una tradizione internazionalista a cui ho aderito in gioventù durante le guerre coloniali, in solidarietà con il privilegio storicamente accordato alla lotta di classe come base della politica democratica. Fu poi estesa da altri movimenti di emancipazione intrinsecamente transnazionali o che portavano a mettere in discussione il controllo delle popolazioni da parte di organismi statali “sovrani”. Allora tendevo a pensare che la forma-nazione (e quindi la correlata equazione tra cittadinanza e nazionalità) è sempre dalla parte degli ostacoli alla giustizia, all’uguaglianza e alla libertà piuttosto che delle loro condizioni. Questo mi portava a sottovalutare le ragioni che avevano portato il Front Populaire (soprattutto tra i comunisti) a rivendicare il patriottismo, prima ancora che si affermasse come l’anima della Resistenza e del suo “Consiglio nazionale”, il punto più alto dell’antifascismo).
Il confronto impostoci oggi dal discorso populista, le cui categorie e sfumature puntano tutte verso il “nazionalismo integrale” (Charles Maurras), dovrebbe indurci a rivedere completamente questa valutazione. L’alternativa non è tra un’emancipazione o un egualitarismo “cosmopolitico” e un nazionalismo esclusivo e xenofobo, ma tra due concezioni della nazione: una aperta al cosmopolitismo, l’altra no. Sono due modi di costruirla istituzionalmente come comunità di interessi e valori, e due modi di articolare la sua “indipendenza” con le normative sovranazionali (la più importante delle quali dovrebbe oggi riguardare la lotta al riscaldamento globale), ma anche con la circolazione di persone, lingue e riferimenti culturali da ogni parte del mondo.
Così come esiste un discorso populista e un discorso popolare, esiste anche un modo di costruire la nazione che ignora la sua molteplicità e la sua storia reale a favore di “luoghi della memoria” feticizzati, di tradizioni regionaliste convenzionali e di criteri di appartenenza ideologica che discriminano tra “veri” e “falsi” cittadini, e un modo di costruirla che si basa sulle sue componenti reali, la cui molteplicità in un dato momento storico è irriducibile a un unico tipo e si riferisce a relazioni multiple tra il suo “dentro” e il suo “fuori”.
Una simile concezione evolutiva non rifiuta alcuna “identità” collettiva, ma cerca di far emergere il “noi” dalle relazioni di reciprocità, dagli interessi comuni e dalla maggiore capacità di realizzarli che la totalizzazione delle differenze conferisce, anche quando comporta difficoltà e conflitti. È notevole, inoltre, che la maggior parte delle richieste di riconoscimento (o di “rispetto”) che provengono oggi dai “quartieri” in rivolta contro il razzismo e l’esclusione vadano proprio in questa direzione. Ma sarebbe del tutto illusorio credere che la semplice constatazione di questa realtà sia sufficiente a delegittimare la concezione esclusiva della nazione in cui si identificano gli elettori del Rassemblement National e che si esprime nell’ossessione della “catastrofe migratoria” da scongiurare con i mezzi più brutali. Questa ossessione è infatti la contropartita del sentimento di impotenza collettiva che si è impadronito di masse di cittadini alle prese con l’insicurezza e la paura.
Il popolo “manca”, ma in due modi antitetici. In un caso, la sua assenza viene ostinatamente negata sotto forma di proclamazione di appartenenza alla nazione ideale da cui sono stati eliminati tutti i nemici interni, mentre nell’altro viene affrontata come il progetto costantemente rilanciato, “utopico” nel senso che contraddice l’ordine sociale dominante, ma fondato sulle relazioni sociali attuali, di tenere insieme le “masse” eterogenee di cittadini che hanno lo stesso interesse a uscire dall’impotenza in un mondo di incertezza e di disuguaglianze estreme. Popolo contro popolo, nazione contro nazione, comunità contro comunità. E, nella situazione attuale, “fronte” contro “fronte” (anche se mascherato da “raduno”).
Per un “contro-populismo”: potenza di agire, autonomia, servizio pubblico
Vorrei ricapitolare ciò che ho provato a proporre qui e aprire alla discussione in alcune proposizioni schematiche:
Il populismo incarnato dal Rassemblement national con caratteristiche francesi nel quadro di una tendenza politica molto più larga, all’opera sia all’Est che all’Ovest, a Nord e a Sud, è un fascismo in potenza. Ne mostra già molti tratti ma si trattiene dallo scivolare completamente sia per tattica, sia perché le condizioni di una messa in movimento delle masse in una ideologia nazionalista integrale eliminatrice dei “nemici interni” non sono tutte riunite. La situazione è più avanzata da questo punto di vista nell’India di Modi o negli Stati Uniti con Trump.
Ma una simile evoluzione non è reversibile attraverso le sue proprie forze. Al contrario, è chiaro che sarebbe accelerata dall’arrivo dell’RN alla guida dell’amministrazione dello Stato, tanto dall’eccesso di potere che queste eventualità conferirebbero ai suoi detentori quanto dagli ostacoli e dai fallimenti in cui incapperanno, in una spirale di esasperazione senza limite. L’unico modo di bloccare questo corso è di opporgli un contro-populismo cosciente e organizzato come quelli a cui tende implicitamente il progetto del “Nuovo fronte popolare”. Un contro-populismo non è un “populismo alla rovescia”, come in un gioco di specchi. Sebbene si proponga anch’esso di “trovare il popolo”, e di costruire una comunità nazionale, esso deve procedere per strade radicalmente differenti.
Il cuore della differenza sta nel fatto che il populismo e, a maggior ragione il fascismo, hanno per principio l’istituzione della passività dei cittadini, anche e soprattutto questa passività bruciante, violenta che impregna la partecipazione alle manifestazioni nazionali o ai sit-in nella campagna elettorale. Il loro principio è la ripetizione del discorso e degli slogan proposti dai dirigenti. Il populismo non supera l’impotenza collettiva che è alla sua origine, ma la raddoppia e la rinchiude in un circolo invalicabile, mascherando la paura sotto l’odio e la brutalità. (…) Tuttavia l’efficacia e l’autenticità della lotta consistono nell’invenzione di un altro modo di praticare la politica di massa: aumentare la potenza delle “persone comuni” offrendogli la possibilità di liberarsi dalla paura attraverso l’attività, la solidarietà, l’autonomia e dunque la capacità di discutere gli obiettivi stessi della lotta e delle modalità di continuarla. Un altro modo per formulare questa tesi è collegare la differenza tra “populista” e “popolare” alla pratica di una cittadinanza attiva, sperimentando al suo interno la democrazia che si cerca di difendere. Da qui nasce la tensione permanente con la “forma partito” di cui la politica non può probabilmente fare a meno nelle istituzioni parlamentari e al di fuori di esse.
Si arriva allo stesso risultato coniugando l’idea della costruzione di un “Fronte popolare” con quella di un’intersezione dei movimenti (…). I movimenti non possono fondersi, né iscriversi in cornici gerarchiche inglobanti. Bisogna al contrario che proliferino e si disseminino per affrontare tutti i problemi e rispondere a tutti gli obiettivi dell’emancipazione che sorgono dalle esperienze negative o affermative (sofferenze e creazioni) della cosiddetta “società civile”. Ma bisogna anche che convergano e si sommino nella costruzione di una resistenza comune all’autoritarismo, al populismo, al fascismo.
Tale unità non si crea per decreto, si scopre e si costruisce nei luoghi del confronto tra le idee e i loro sostenitori che possiamo chiamare “assemblee” o con un altro nome che è già stato usato nel corso della storia per nominare la spontaneità del raduno e la ricerca di una democrazia di base, partecipativa e non semplicemente rappresentativa: “consiglio”, “comitati”, “forum”… Non ci illudiamo però: la nascita e la durata delle assemblee è sempre irta di ostacoli, ma da esse passa l’obiettivo di costituire un “popolo”. Le assemblee vanno sperimentate alla luce della distanza che i loro partecipanti devono superare per riunirsi e fare nascere il comune, oltre che le repressioni o i tentativi di controllarle di cui possono essere oggetto. La distanza può essere spaziale e culturale: i “quartieri popolari” non sono più vicini alle università, anche nella banlieue parigina, così come le coltivazioni agricole non sono veramente vicine alle “zone da difendere”. La distanza può essere antropologica: tra generi o tra i sessi, tra le età e le generazioni, tra le formazioni e le professioni. Ci può essere infine una distanza tra i “movimenti” stessi con le loro storie singolari e i loro codici di riconoscimento. L’ipotesi di un “fronte popolare” costituisce in se stesso una grande utopia dell’incontro tra tutte queste esperienze e la loro conversione in un “movimento dei movimenti”. Senza questa ipotesi nulla può accadere, ma la proclamazione della sua urgenza è solo la prima delle difficoltà che dovrà affrontare.
Oltre alla giustizia economica e sociale e alla difesa della democrazia, il Fronte popolare ha messo al centro del suo “programma” elettorale e di un governo a venire la difesa e l’estensione dei servizi pubblici: sanità pubblica, educazione, cultura indipendente dai monopoli commerciali, una giustizia accessibile a tutti, una polizia di prossimità, lo sviluppo del territorio e del tessuto urbano, trasporti a prezzi contenuti e energia non inquinante. Il Fronte popolare ha toccato il cuore del problema di ciò che, negli ultimi decenni a causa delle politiche neoliberali di austerità e di privatizzazione, è diventato una delle principali cause dell’aumento delle disuguaglianze. La precarizzazione che non è solo una pauperizzazione, ma un’“esclusione” o una disaffiliazione come l’ha definita Robert Castel riferendosi agli abitanti delle banlieues e in particolare ai giovani disoccupati. Con molti altri anch’io credo che oggi l’offerta ideologica e affettiva del Rassemblement National prosperi sul sentimento di insicurezza. I servizi pubblici non sono lo “Stato” perché, tra le altre cose, il loro funzionamento e la loro utilità dipende soprattutto dalla coscienza professionale e dall’empatia di coloro che li procurano ai malati, agli studenti, agli spettatori, agli abitanti, agli “ultimi”, in altre parole ai cittadini. Non si può dire allo stesso tempo che in una società come la nostra i servizi pubblici non esistano senza lo Stato che li finanzia attraverso le tasse o altri contributi, li inquadra giuridicamente e così li incorpora nel proprio organismo proliferante che i filosofi hanno comparato a un grande mostro mitologico.
Con questa osservazione arriviamo a un’altra tensione in seno alla lotta del Fronte Popolare contro la “destatalizzazione” promossa dal neoliberalismo in termini socialmente selettivi: quella tra il principio di utilità e dunque di rafforzamento dello Stato e il principio di liberazione e di autonomia degli individui e delle capacità di auto-organizzazione o autogestione della società e dei suoi movimenti. La tradizione socialista e in generale quella della sinistra intellettuale, e partigiana, non ha smesso di oscillare o di cercare compromessi tra i termini di questa antitesi. Sarei tentato di dire che essa è costitutiva della politica in quanto pratica collettiva, come “governo di sé e degli altri”, per parodiare Foucault. Anche da questo punto di vista, l’idea del Fronte Popolare è una soluzione dinamica a questa contraddizione, che consiste nel lavorarla e trasformarla. Ma tutto questo verrà dopo, se ci sarà un dopo. Se riusciremo a fare arretrare l’estrema destra. Non c’è urgenza più importante di questa.
[1] Non includo volutamente le manifestazioni dei contadini, il movimento di solidarietà con la Palestina, la mobilitazione contro l’antisemitismo e, simmetricamente, contro l’islamofobia, altre ancora che non mi sembrano aver acquisito la stessa capacità di strutturare rivendicazioni collettive di emancipazione, ma possiamo discutere.
]2] Engin Isin, Theorizing acts of citizenship, in Engin F. Isin-Greg M. Nielsen, a cura di, Acts of Citizenship, Palgrave Macmillan, 2008.
[3] Si veda il comunicato stampa dei quattro partiti di sinistra che hanno proposto la formazione di un “Nuovo Fronte Popolare ecologico e sociale” del 10 giugno 2024: Per una risposta repubblicana al rischio democratico
[4] G. Bataille, Scritti sul fascismo 1933-34: contro Heidegger, la struttura psicologica del fascismo, Mimesis, 2010.
[5] Olivier Schwartz, Vivons-nous encore dans une société de classes ? Trois remarques sur la société française contemporaine, in La vie des idées, 22 septembre 2009.
[6] W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013.
(Traduzione di Roberto Ciccarelli)
*Ringraziamo Etienne Balibar e il sito Aoc Media per la gentile concessione editoriale
L’articolo è stato pubblicato in francese, in due parti, qui e qui.
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