COME CONTRASTARE IL “SISTEMA ECONOMICO DOMINANTE” da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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COME CONTRASTARE IL “SISTEMA ECONOMICO DOMINANTE” da IL MANIFESTO

Tre vie maestre per scongiurare il collasso ecologico

Modo di produzione. La propaganda del libero mercato nasconde la realtà di una finanza che domina e sopravanza l’industria, della rendita che vince sul “giusto profitto”. Occorre tagliare gli artigli alla rendita parassitaria, ridurre i prelievi di materie prime, compensare la minor produzione industriale con altri tipi di lavoro

Paolo Cacciari  21.12.2021

Hanno ragione Guido Viale e Tonino Perna. Non c’è logica razionale che giustifichi le scelte delle imprese che operano nel girone infernale del “libero mercato”. Ho calcolato più volte che un elettrodomestico che duri più a lungo (circostanza del tutto realizzabile) farebbe bene ai lavoratori (meno ore di lavoro necessario a pari produttività), ai consumatori (meno spese), all’ambiente naturale (meno impiego di materie prime, meno energia, meno rifiuti) e pure agli imprenditori che potrebbero ottenere gli stessi profitti diminuendo i costi di produzione. E questo vale per tutti i settori produttivi di oggetti e servizi di largo consumo.

Perché allora le industrie non scelgono questa strada preferendo accelerare vertiginosamente il ciclo Denaro-Merce-Denaro? Perché, in realtà, non è l’industria a condurre le danze, ma la finanza. Perché non è il “giusto profitto” che viene cercato, ma il più alto e rapido Roi (Return On Investment), ovvero il tasso di rendimento dei capitali investiti. Per assurdo, questa logica non guida solo i finanziatori (fondi di investimento, gestori del risparmio, banche e strozzini di vario tipo), ma gli stessi amministratori delle imprese che vengono remunerati non in ragione dei risultati produttivi raggiunti, ma in azioni e bonus sul valore di borsa delle imprese.

Vale così anche per i governi degli stati strangolati dai debiti e costretti a cercare sul mercato del denaro sempre nuovi prestiti. Quindi, la prima azione necessaria per far rientrale l’economia in un sentiero di sostenibilità sarebbe quella di liberarla dalla morsa finanziaria. Tagliare gli artigli alle rendite parassitarie, inique e pericolose, come dimostrano le periodiche esplosioni di “bolle” e di crisi di solvibilità che finiscono per mandare a picco quelle imprese meno capitalizzate che operano fuori dai grandi circuiti oligopolistici transnazionali. Le soluzioni normative ci sarebbero tutte: ripubblicizzazione del credito, sovranità monetaria, politica fiscale.

Ma non basta. Per scongiurare il collasso ecologico servono altre due azioni. È necessario ridurre comunque e rapidamente il volume complessivo dei prelievi di materie prime. Ricordo che la produzione di oggetti ha superato le 30 Gigatonnellate all’anno, che è come se ogni persona impiegasse ogni settimana una quantità di cemento, metalli, legno, petrolio e altro pari al proprio peso corporeo (Global human-made mass exceeds all living Biomass, in Nature, vol. 588, 2020). Una follia che compromette gli equilibri ambientali e mette in pericolo lo stesso sviluppo economico, come dimostrano le conseguenze del cambiamento climatico e le stesse pandemie da zoonosi.

Occorre quindi bilanciare la riduzione dello sforzo produttivo della megamacchina industriale compensando la diminuzione del volume complessivo del tempo di lavoro impiegato con forme di attività più utili alla società (oltre che all’ambiente), più soddisfacenti per i lavoratori e le lavoratrici chiamati a svolgerle e comunque remunerate dignitosamente.

Anche qui le soluzioni ci sono tutte: diminuzione e redistribuzione degli orari di lavoro, introduzione di qualche forma di reddito di esistenza incondizionato, massiccia conversione delle attività economiche a favore di quelle a maggiore intensità di lavoro (vedi agroecologia, cura delle persone, manutenzioni, autoproduzioni, recupero dei beni non utilizzati…), messa a disposizione di mezzi di produzione anche a chi non ha capitali a disposizione.

Infine, il terzo e il più difficile cambiamento è di tipo culturale: comprendere che un pianeta rigenerato nei suoi cicli vitali non è solo più bello, ma è anche più ospitale, più sano, più ricco di opportunità, più piacevole da abitare. La “transizione ecologica” è liberazione da una condizione umana stressata e alienata e riconquista di una dimensione di vita piena, pulita, pacifica. Il rispetto della natura non richiede alcun sacrificio, alcuna rinuncia se non a quelle attività che ci fanno ammalare, a quei consumi che inquinano l’aria e le acque, a quelle “comodità” che ci instupidiscono e ci rendono pedine passive di interessi a noi estranei.

Pensiamoci bene; ci sono tre capitoli di spesa che il sistema economico dominante non riduce mai: le spese militari (il bastone), la pubblicità (la carota) e la farmaceutica (le pillole per farci credere di curare i mali della società).

Perché Allison perde e Josephine vince

 

Salvatore Cingari  21.12.2021

Il vincolo della dedizione per accrescere di 12 euro un già di per sé inadeguato aumento allo stipendio dei docenti di scuola, segnala lo spirito del tempo di cui è interprete il governo. In un noto articolo del 2006 sull’Unità, Bruno Trentin aveva denunciato la natura autoritaria della premialità meritocratica, in quanto legata all’arbitrario giudizio del datore di lavoro spesso condizionato dalla condotta più o meno remissiva verso l’azienda e ingeneratore di disparità rispetto alla simmetria prodotta dai contratti: il merito, cioè, contro il diritto e anche contro la stessa competenza, dato che all’oggettività dei livelli stabiliti in base a determinate qualifiche, vengono sostituite valutazioni soggettive disegualizzanti. La premialità – aggiungiamo alle tesi di Trentin – introduce anche un clima competitivo che anziché spingere a migliori performance, in realtà peggiora il clima lavorativo e la sicurezza psichica, con conseguenze anche antieconomiche.

Ma oltre a ciò l’idea della dedizione rimanda ad un senso comune diffuso, secondo cui l’impiegato pubblico e il docente di scuola lavorano poco e male e che dunque non meritino cospicui aumenti di stipendio a pioggia. In realtà negli ultimi anni, con i processi di aziendalizzazione delle strutture pubbliche, anche i docenti di scuola sono caricati di svariati incarichi imposti dalla governance, che sostanzialmente riempiono i loro pomeriggi a fronte di stipendi rimasti fissati al fondo delle classifiche europee, rispetto a cui lo scatto-qualità di 12 euro assume una luce grottesca, soprattutto considerandone la qualificazione, non di rado arricchita da dottorati e pubblicazioni. Si tratta dei tanti soggetti, in ultima analisi, sempre più sfruttati dalla società di mercato.

Ma i media mainstream continuano a veicolare l’idea che i problemi economici e sociali dipendano da un eccesso di spesa pubblica e dall’insipienza e lassismo degli impiegati dello Stato. Non da un territorio desertificato dalle delocalizzazioni; non dalle rendite finanziarie che hanno sempre più moltiplicato la ricchezza di pochi, mentre veniva raccontata la favola delle maggiori opportunità per tutti (The wolf of Wall street); non da patrimoni privati, in Italia, più alti che ovunque o quasi, sempre più invulnerabili a meccanismi redistributivi (vedi l’ennesima prossima riduzione di aliquota con la legge di bilancio); non dalle stellari retribuzioni e dai superbonus dei grandi manager pubblici e privati, che han fatto decuplicare la distanza reddituale fra dirigenti e impiegati dagli anni Ottanta ad oggi.

La gioia degli avvocati per i premi ottenuti assistendo la Gkn per la sua chiusura e l’esubero di 430 operai, è lo specchio di una società fondata sull’impresa e non più sul lavoro, come vorrebbe la Costituzione. E nel post dello studio legale non si esaltava oltre al “lavoro di squadra” e alla “passione” proprio quella “dedizione” che si vorrebbe incentivare nei docenti e che non è deontologia bensì aziendalismo?

Ma la lotta di classe all’inverso che le élites economiche stanno da tempo vincendo contro il ceto medio, sempre più proletarizzato, si rivolge anche verso chi è ancora più debole. Il reddito di cittadinanza è ben lungi dal modello “universalistico”, eppure anche così esso è considerato un furto perpetrato a danno dei soggetti produttivi a vantaggio di quelli improduttivi. I fisiologici episodi di irregolarità nella percezione del reddito vengono continuamente enfatizzati per screditare l’istituto e, con esso, ogni velleità redistributiva.

È molto istruttivo in questo senso un romanzo di Johnatan Coe, Numero undici, il sequel del celebre La famiglia Whisham. Uno degli episodi più eclatanti del romanzo è quello in cui Josephine Whisham, la giovane rampolla di una schiatta di miliardari spietati, spregiudicati e al di sopra della legge, per far carriera decide di denunciare su un tabloid conservatore Allison Doubleday, lesbica, nera, invalida e figlia di una madre single in difficoltà economica (lo stereotipo inglese del “parassita” aiutato dal governo “progressista”).

Nonostante le condizioni di disagio, Allison era stata una studentessa seria e appassionata che aveva maturato anche una sensibilità e il talento di un’artista: ma avendo illegalmente assommato il sussidio governativo con le poche centinaia di euro ricavate dalla vendita dei suoi primi quadri, finiva arrestata dopo l’articolo di Josephine lanciata verso una folgorante carriera.

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