CHI SEMINA UTOPIA, RACCOGLIE REALTÀ da IL MANIFESTO
Ultimi in Europa per le politiche sull’immigrazione
Di meno e più vecchi. Bisogna avere il coraggio di agire per ripopolare il Mezzogiorno e le aree interne, salvare l’Italia da morte annunciata e contribuire alla salvezza del pianeta minacciato dalla crisi climatica
Pino Ippolito Armino 11.12.2021
L’Istat ci informa che l’età media degli italiani si è innalzata a 45,4 anni e che, dal 2019 al 2020, l’Italia ha perso oltre 400 mila residenti per effetto dell’elevato numero di decessi.
Non compensato dalle nascite; queste ultime, anzi, hanno raggiunto il nuovo minimo storico. Le morti per Covid, precisa l’Istat, hanno soltanto accentuato una dinamica già in corso. Infatti tra gli Stati membri della Ue le percentuali più alte di giovani rispetto alla popolazione totale si trovano in Irlanda (20,5%) e in Francia (18%) mentre l’Italia presenta la più bassa (13,2%). Il numero di anziani (persone di età pari o superiore ai 65 anni) con il 22,8% sul totale, dice che l’Italia registra la percentuale più alta (Eurostat 2019). Il Bel Paese si spopola e invecchia. Anche male.
Il calo demografico non può trovare spiegazione nelle migrazioni perché il saldo netto fra emigrazione e immigrazione è responsabile al più del 10% del totale del decremento complessivo. Neppure la carenza, endemica nel Mezzogiorno, di strutture al servizio delle famiglie, come gli asili nido, può spiegare da sola il fenomeno perché la demografia decrescente interessa tutta la penisola anche se è particolarmente accentuata nel Sud e nelle Isole. C’è, dunque, qualcosa di più profondo che ha a che fare con l’anima di un paese che non crede più in se stesso.
Secondo Eurostat al primo gennaio 2020 i nati all’estero erano oltre 15 milioni in Germania (il 18,1% della popolazione), 8 milioni e mezzo in Francia (12,7%) e quasi 7 milioni in Spagna (14,8%). In Italia erano poco più che 6 milioni, pari al 10,3% della popolazione totale, meno anche rispetto a Grecia (12,6%), Cipro (21,6%) e Malta (23,1%), paesi, come il nostro, di prima frontiera per gli immigrati.
L’Istat ora ci dice che 5,2 milioni di immigrati sono ancora stranieri, non hanno cioè ancora la cittadinanza. Sono distribuiti per genere più o meno come gli italiani (le donne immigrate sono il 51,2% mentre le italiane sono il 51,3%) ma hanno un’età media assai più bassa (34,8 anni). Un milione di loro sono minori.
Ce n’è abbastanza per trarre alcune semplici conclusioni. La prima è che riconoscere il diritto alla cittadinanza servirebbe anche a farci ringiovanire. La seconda è che noi dobbiamo accogliere più immigrati, non tanto per allinearci statisticamente agli altri paesi europei o per salvare le nostre pensioni ma per una ragione ancora più elementare: non estinguerci. Le previsioni dicono che nel 2065 gli italiani potrebbero essere 46 milioni contro i 60 che siamo oggi. Ma non basta. Negli stessi anni vi sarebbe anche uno spostamento del peso della popolazione dal Mezzogiorno al Centro-Nord. L’area più settentrionale del Paese ospiterebbe il 71% della popolazione contro l’attuale 66%. Il Mezzogiorno muore, dunque, anche più velocemente. Le previsioni, però, si possono capovolgere; a questo serve la politica.
Ci sono 3,5 milioni di ettari incolti, molti dei quali nel Mezzogiorno, soprattutto in collina e in montagna. Secondo la Coldiretti siamo primi in Europa per numero di giovani addetti all’agricoltura. Evidentemente non basta. Bisogna avere il coraggio di agire per ripopolare il Mezzogiorno e le aree interne, salvare l’Italia da morte annunciata e contribuire alla salvezza del pianeta minacciato dalla crisi climatica.
Nel corso del Settecento e poi nella prima metà dell’Ottocento, gli illuministi si spesero per abbattere il latifondo e la manomorta ecclesiastica che su quello gravava; alla fine dell’ultima guerra la riforma agraria ebbe per obiettivo, attraverso l’imposizione di un limite all’estensione della proprietà privata, quello di affrancare milioni di contadini dal bracciantato per trasformarli in piccoli proprietari.
Oggi si tratta di prendersi cura del territorio per ripopolarlo e renderlo produttivo in senso lato. Come per la riforma agraria viene in soccorso l’art. 44 della Costituzione che assegna alla legge il compito di imporre obblighi, vincoli e anche limiti alla proprietà privata quando questo serva a conseguire il “razionale sfruttamento del suolo” ovvero a stabilire “equi rapporti sociali”. Ecco un compito per la sinistra del XXI secolo. Sottrarre alle manomorte odierne i terreni incolti per riparare l’Italia e rinsanguarla di nuova linfa vitale.
«Comp(h)ost», la materia viva del sottosuolo
Scaffale. Una pubblicazione di Nero che è anche un progetto corale coinvolgendo artisti, antropologi, architetti, filosofi, storici, scrittori, economisti e fisici provenienti da diversi Paesi. Le riflessioni sono partite da una serie di conferenze e laboratori al Castello di Rivoli intorno a Donna Haraway, prima della pandemia
Comp(h)ost è un progetto corale, frutto di un team di curatori ben assortito (Francesca Comisso e Luisa Perlo per il collettivo a.titolo, Marianna Vecellio per il Castello di Rivoli e Lorenzo Gigotti, Valerio Mannucci e Valerio Mattioli per Nero) e di quasi trenta persone coinvolte tra artisti, antropologi, architetti, filosofi, storici, scrittori, economisti e fisici provenienti da diversi Paesi e da differenti esperienze di studio e di ricerca.
TUTTO È INIZIATO nel giugno 2019 quando al Castello di Rivoli sono stati organizzati una serie di laboratori, conferenze e tavole rotonde per discutere sul concetto di compostaggio e su quello di ospitalità. L’idea di partire dal compost viene da Donna Haraway che, nel libro Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto – pubblicato in Italia dalla casa editrice Nero nello stesso anno -, scrive: «Siamo humus, non Homo, non Antropos; siamo compost, non postumani». Mettendo in relazione l’umano non all’antropos ma all’humus, la filosofa pone l’accento sulla materia viva, potenzialmente attiva che l’umano possiede anche in un regno, quello del sottosuolo, dove è negato l’accesso alla vista. Anzi è proprio in questa dimensione, inedita e indefinita, dove vige un principio di trasformazione continua, che bisogna indagare per trovare possibili soluzioni alle emergenze ambientali e sociali.
IL COMPOST È, INFATTI, uno strato di terra disponibile ad accogliere altro e divenire altro: una massa informe che per quanto torbida, frutto di scarti e di detriti, di microorganismi e di particelle organiche, coltiva in sé la vita. Ed è proprio per questo motivo che al concetto di compost è stato affiancato quello di host (ospite), dando al titolo la forma di crasi. Qualche tempo dopo l’avvio dei lavori, proprio l’emergenza pandemica ha interrotto gli incontri. Nei mesi a seguire le discussioni sono proseguite online ed è così che un anno dopo è possibile leggere di questo percorso nel volume Comp(h)ost. Immaginari Interspecie (Nero, pp. 203. euro 19).
Comp(h)ost parla delle emergenze presenti nell’era digitale, neoliberista e avanzata. «L’immaginazione non è il contrario del reale ma la sua leva d’azione», scrive il politologo Sébastien Thiéry e sotto l’egida di questo imperativo etico prepara meticolosamente il dossier di candidatura all’Unesco dell’atto di ospitalità come Patrimonio culturale immateriale dell’umanità.
LA PUBBLICAZIONE suggerisce la necessità di ri-scrivere i paradigmi con i quali l’io crea il suo legame con il mondo, tanto che alcuni saggi raccontano del ruolo mitopoietico che la narrazione ancora oggi può assolvere. Come nel caso di Enea, originario di Troia, profugo dopo che la sua città fu distrutta. È a lui, uomo in fuga, discendente da una lontana terra, che gli dei affidano il compito di dare illustri natali al popolo latino. I fogli è come se si disponessero su di un cerchio, per quanto costretti su una linea dal numero delle pagine, ogni inizio coincide con una fine e ogni fine con un inizio, come nella storia di Morgana che, anziana, non teme la morte ma cede la vita a chi verrà.
Il mulino di comunità, utopia tangibile
Reportage. A Castiglione d’Otranto, nella cooperativa dove l’esperienza di fare rete non è uno slogan, ma costruisce un orizzonte possibile
Il paesaggio è lugubre, avvolti nella nebbia gli alberi d’ulivo secolari appaiono come una foresta stregata, rami penzolanti sembrano abnormi mani secche piene di spilli che si allungano per abbracciare il passante, intimorirlo, afferrarlo per stritolarlo dentro il tronco essiccato. Le ore passano e durante la mattinata la foschia si va diradando, ma quel senso di oppressione e di tristezza dovuta al passaggio della xylella rimane incollato alle pupille.
«Negli anni sessanta tutti emigravano, i contadini erano visti come dei braccianti poveri che a malapena riuscivano a mandare avanti la famiglia, un lavoro denigrato, così nei decenni successivi si è assistito allo spopolamento del Salento. Non so se dipenda dall’incuria causata dall’emigrazione, ma probabilmente molto è dipeso dalla monocultura olivare che ha caratterizzato l’intera regione salentina. Se ci fossero stati fasce di terra coltivata a grano o a vite forse, e dico forse, la xylella non sarebbe riuscita a passare tanto velocemente da un campo all’altro», afferma Rocco Butrugno, 43 anni, emigrante ritornato a vivere in Salento, membro dell’Associazione Agriculture, ispirata ai padri del biologico italiano Tullia e Gino Girolomoni, che gestisce la cooperativa Mulino di Comunità di Castiglione d’Otranto.
Il depauperamento della natura va di pari passo con quello umano. Così la fondazione della cooperativa Mulino di Comunità rientra appunto nel progetto di «Agriculture» per combattere l’abbandono del tacco pugliese e la monocultura. Nel 2011 Donato e Giovanna Nuzzo, Rocco Butrugno, Tiziana Colluto, Francesco e Dalila Longo, Donato Surano, Paola Medici … allora studenti o lavoratori in altre regioni d’Italia o all’estero, decidono di ritornare a Castiglione d’Otranto, un paese di circa 1200 abitanti ad appena 7 km dalla più nota località turistica di Tricase, per realizzare un’utopia che poi diventerà il loro slogan: ritornare per rimanere nel territorio e avviare un’attività di imprenditoria sociale che cerca di abbracciare la maggioranza della comunità.
«All’inizio non è stato facile, c’era ritrosia da parte degli anziani, alcuni ci incoraggiavano, ma molti ci guardavano con scetticismo: come era possibile aprire un mulino in un territorio prettamente ricoperto da ulivi e per di più introducendo sementi scomparse da generazioni?», afferma la giovane ventenne Giovanna Nuzzo mentre si affaccenda a riempire di farina gli incarti da un chilo da poter riporre nel negozio del Mulino dopo che un signore sulla settantina le ha appena acquistato le ultime tre confezioni. Molti anziani non capivano perché volessero rimanere in questa terra desolata quando tutti gli altri giovani andavano via.
All’inizio della loro avventura i ragazzi del Mulino di Comunità hanno riscattato in comodato d’uso gratuito 18 ettari di terreno incolto da molti anni, dove hanno piantato il proprio grano per poi ottenere la farina e fare i propri prodotti. Ma i terreni incolti sono tantissimi nel Salento, proprio per la forte emigrazione del secolo scorso. La figura del contadino era considerata di basso profilo e basso livello, la parcellizzazione del territorio era già avvenuta con la dissoluzione del latifondo, i padri suddividevano le terre tra i tanti figli che invece di metterli a frutto andavano via, anche all’estero, alcuni senza fare più ritorno.
Così cominciò ad esserci carenza di manodopera specializzata e che fosse in grado di curare le vaste piantagioni degli ulivi secolari. L’industrializzazione generalizzata del secondo dopoguerra tra le province di Lecce, Bari e Taranto ha completamente spazzato via un’intera generazione, che ha abbandonato non solo fisicamente la propria terra d’origine, ma anche il legame culturale e lavorativo con le generazioni che l’avevano preceduta. Gli stessi anziani dell’epoca spingevano i propri figli a «fuggire dalla terra», si sponsorizzavano altri mestieri ma non quello del contadino o dell’imprenditore agrario.
«Russello», «gentil rosso», «maiorca», «strazza» e «senatore Cappelli» sono alcuni dei grani che Giovanni Pellegrino è riuscito a reperire circa 10 anni fa per reintrodurli di nuovo in Puglia, sì, perché con l’abbandono della terra e la conseguente emigrazione molte varietà erano scomparse quasi completamente. «Erano ormao pochi gli anziani che continuavano a seminare grano ma solo per il consumo familiare e perché credevano nella bontà del prodotto», afferma Giovanni, mentre parla agli altri conviviali dei suoi viaggi in Ecuador, Bolivia, Etiopia durante la semina collettiva organizzata da «Agriculture».
«La biodiversità è un aspetto imprescindibile per noi della cooperativa, per statuto stabiliamo che i vari agricoltori che collaborano con noi non possano coltivare più di 8 ettari con la stessa semente, bisogna diversificare», tiene a puntualizzare Donato Nuzzo, 38 anni, presidente della cooperativa Casa delle Agricolture.
Il percorso non è stato facile, non solo per le parziali ostilità iniziali descritte da Giovanni, ma anche per focalizzare bene l’idea, studiarla e poi implementarla. «Abbiamo comprato i macchinari per macinare il grano in Austria, quella austriaca era l’unica azienda che ci certificasse che le miscele e i collanti della ruota in pietra del mulino fossero tutte naturali. Infatti era importante non solo usare grani antichi, ma anche il processo di molitura doveva seguire delle regole antiche», descrive Donato Nuzzo mentre Damiano, il mugnaio e socio della cooperativa, controlla ogni passaggio della molitura che attraverso l’uso della pietra permette di mantenere basse le temperature durante la lavorazione.
«La grammatura della farina è più grossa rispetto a quella delle farine commerciali, quindi anche la lavorazione deve necessariamente essere diversa impiegando più tempo. Ma il prodotto finale per paste, dolci e pane è di qualità indiscutibilmente superiore rispetto a quelle industriali. Persino le nostre nonne o le signore più anziane inizialmente erano restie a ritornare ad usare un prodotto che richiedesse più forza e impegno. Pensavamo che per loro sarebbe stato più facile conoscendo queste farine fin dal secondo dopoguerra, invece hanno faticato a riutilizzarle», afferma Nuzzo.
Si ritorna a un processo lento, sia di molitura che di lavorazione, seguendo regole che il boom economico degli anni ’60 ha purtroppo cancellato. Tutti concetti che all’inizio della pandemia del Covid-19 sono stati riscoperti. «Al primo lockdown eravamo spiazzati come tutti, ma dopo il primo mese di fermo abbiamo cominciato a riprendere il lavoro, andavamo direttamente dai produttori a prendere il grano perché avevamo i permessi per farlo mentre loro erano bloccati dai divieti imposti dai DPCM», ricorda Nuzzo.
Gli investimenti sono stati sostenuti, e i mutui sono ancora in corso anche perché sono passati solo 5 anni dall’apertura del Mulino. Le sovvenzioni della regione Puglia come le collette dei privati sono stati sicuramente un aiuto non indifferente. Il percorso è ancora agli inizi: l’acquisto dello stabile, dei macchinari e le spese per la ristrutturazione che ha visto il rifacimento di intonaci con strati di canapa e calce per incappottare la struttura e non permettere infiltrazioni. Una di queste pareti vede un murales dei due graffitisti napoletani Cyop e Kaf che tramite un passaparola sono voluti andare ad omaggiare i ragazzi di Castiglione per la loro avventura sociale. La coesione del gruppo, lo spirito di amicizia e corporativo, la giovane età dei protagonisti mandano avanti il progetto e il sogno.
«Per noi è importante fare rete, con tutti i contadini e le persone con le quali lavoriamo. Non è una mera questione di produzione e di guadagno, anche se sono importanti. Il Mulino di Comunità serve a spingere la gente a vedere il lavoro da un altro punto di vista», continua Donato Nuzzo. È una condizione qualitativa della vita, la lentezza è stata denigrata da un certo tipo di progresso galoppante che ha estirpato radici e legame con il territorio come il Covid-19 ha fatto notare. «Le nostre farine una volta macinate vanno lasciate riposare per circa 15 giorni in modo da sviluppare tutte quelle proprietà organolettiche e nutrizionali che poi verranno trasmesse quasi integre ai prodotti a cui vengono destinate. Inoltre, facciamo anche l’abbattimento dei grani a -20° prima della lavorazione per 72 ore, questo permette che il grano non abbia germi e batteri che possano inficiare sulla scadenza e sulla qualità del prodotto nel tempo», puntualizza Nuzzo.
«È un processo che consigliamo anche ai nostri soci perché lo svecciatoio del grano, operazione alla quale sono responsabile, pulisce i chicchi da paglia, pietrisco e baccelli di pisello selvatico. Però se il grano presenta delle imperfezioni come parassiti e batteri non visibili a occhio nudo allora suggeriamo l’abbattimento che comunque rimane a discrezione del socio. Infatti questi possono benissimo usare la polvere di diatomee che è una polvere di roccia naturale ma che personalmente non preferisco perché lascia un leggero odore sul raccolto mentre l’abbattimento non è invasivo», precisa Francesco Longo, 24 anni.
Normalmente chi emigra per studiare emigra per non tornare, ma chi è che rimane? Quali qualità umane e lavorative si perdono? Il percorso inverso dei ragazzi di «Agriculture» e di altri come loro insegna che un ritorno che non sia solo vacanziero è possibile. Credere nelle proprie idee, avere una forza di volontà ferrea sono caratteristiche che hanno evitato che una grande multinazionale italiana mettesse le proprie mani sul Mulino di Comunità imponendo le proprie regole in cambio di una sponsorizzazione sostanziale.
«Nel salentino è stato proposto di mettere pannelli solari di due metri e mezzo di altezza sui terreni incolti o dove gli ulivi secolari sono ormai morti, quindi sotto i pannelli solari implementare coltivazione di carciofi che avrebbero dato lavoro per due anni a ragazzi autistici, assurdo! Dopo i due anni dove dovrebbero andare a lavorare?», puntualizza Tiziana Colluto, addetta alla comunicazione dell’associazione di «Agriculture» e giornalista per il Fatto Quotidiano e Telerama. Proprio qui nascerà la sfida nel prossimo futuro: riuscire a contenere le pressioni e gli interventi a gamba tesa di aziende che potrebbero vedere di cattivo occhio l’allargarsi del raggio di azione del Mulino di Comunità. Infatti sono molti agricoltori della zona che chiedono una collaborazione con il Mulino per la semina dei loro campi, i soci hanno inoltre una riduzione del 5% sulla macinatura del grano secondo i patti di filiera.
Carmelo e Andrea Marzo, 47 e 75 anni, possiedono una piccola azienda agricola vinicola a Presicce dove hanno preso in comodato d’uso 12 ettari di terreno i cui proprietari di terza generazione vivono all’estero e non hanno modo di seguire le proprietà ereditate. Hanno intenzione di avviare una collaborazione duratura con il gruppo del Mulino di Comunità per piantare già dal 2021. «L’idea di fondo di Agriculture è molto affascinante e rispecchia anche i nostri valori, per questo vogliamo arrivare a una collaborazione con la cooperativa. Anche noi abbiamo iniziato a diversificare piantando un agrumeto su 4 ettari, e ora vogliamo tentare la carta del grano e sono sicuro che sarà vincente», afferma Carmelo. Suo padre Andrea ha vissuto in Svizzera per 19 anni, con i risparmi esteri nel tempo era riuscito ad acquistare dei terreni a Presicce che poi sono diventati l’azienda vinicola di famiglia. Ora suo nipote omonimo di 19 anni ha intrapreso gli studi di agraria, vuole cimentarsi con l’agricoltura e non ha nessuna intenzione di andarsene. Gli occhi di Andrea si inumidiscono, pensa a quando era giovane, a quando era stato costretto a fuggire per vivere, pensa che tutto quello che ha costruito al su ritorno non andrà in fumo attraverso l’emigrazione ma ci sarà qualcun altro a cui passare le redini.
«Con i patti di filiera attraverso gli agricoltori coinvolti si arriva a circa 45 ettari di terreno seminato, calcolando i piccoli coltivatori che vengono da noi solo per la molitura arriviamo a quasi 100 ettari», snocciola alcune statistiche Donato Nuzzo. Fare rete non significa solo produrre, ma anche socializzare, comunicare, partecipare. Ecco che allora l’associazione di Agriculture organizza corsi per bambini in cui devono «impastare» la terra, manipolarla, sentirne il profumo attraverso il gioco. I bambini schiamazzano impastando palle di fango, le dita lo modellano a forma di conca per mettere alcuni semi di piante che cresceranno e verranno trapiantati nel terreno, poi le sfere vengono adornate con rami, foglie secche, pigne e ritagli di cespugli. Le risa infantili inondano la Casa delle Agriculture. Il giorno seguente è prevista la semina collettiva con le famiglie che vede coinvolti i più piccoli insieme agli anziani che invece di essere abbandonati nei centri commerciali sono coinvolti in un processo di sviluppo e apprendimento per i più piccoli. Un’intera giornata in cui possono imparare dall’esperienza delle generazioni precedenti, trascorrere del tempo insieme, ascoltare. Lo slogan visibile sull’edificio dell’associazione riecheggia tutta la giornata: «Chi semina utopia, raccoglie realtà». Si crea comunità, partecipazione, senso d’unione, utilità individuale e coinvolgimento.
Molti dei soci del Mulino di Comunità con le loro famiglie partecipano spontaneamente alle iniziative dell’associazione fuori dal solito contesto lavorativo.
La risposta all’economia dominante e speculativa può essere data solo dall’azione maggioritaria della collettività, cosciente che nessun cambiamento al sistema può essere apportato senza la partecipazione individuale o del proprio nucleo familiare. Abbandonando questa prospettiva comune molto probabilmente tutto rimarrà così, e i cimiteri di ulivi saranno solo rimpiazzati ciclicamente da qualche altra piantagione. La «restanza» non è un aspetto così semplice e quando l’utopia prende piede le energie si sprigionano, proprio come diceva Galeano: «L’utopia è là nell’orizzonte. Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino 10 passi e l’orizzonte corre 10 passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai. A che serve l’utopia? Serve per continuare a camminare».
No Comments