MIGRANTI, COME SE PRINCIPI E DIRITTI NON FOSSERO MAI STATI SCRITTI da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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MIGRANTI, COME SE PRINCIPI E DIRITTI NON FOSSERO MAI STATI SCRITTI da IL MANIFESTO

Migranti, come se principi e diritti non fossero mai stati scritti

IMMIGRAZIONE. È contro la storia pensare di contrastare il diritto all’esodo. Le moltitudini non possono essere fermate, fossero anche solo sospinte dall’illusione di raggiungere una presunta terra promessa

Gaetano Azzariti  28/09/2023

Dice bene la presidente del Consiglio: l’attuale governo sta provando a mutare «il paradigma» in materia di migrazioni. Proponendosi di abbandonare quello costituzionale, che si fonda sul principio di dignità delle persone, per adottare quello securitario, che si preoccupa di difendere i confini da invasioni di persone senza volto che attentano all’identità del paese. Non v’è dubbio che tutte le misure dell’attuale maggioranza di destra vanno in una medesima, coerente direzione.

Impedire le partenze, trattenere chi riesce comunque ad arrivare. Peccato che sia una strategia votata al fallimento.

È contro la storia, infatti, pensare di contrastare il diritto all’esodo. Le moltitudini non possono essere fermate, fossero anche solo sospinte dall’illusione di raggiungere una presunta terra promessa. Straordinaria la testimonianza del film di Garrone per comprendere come non è neppure la carestia o la guerra a muovere i popoli, ma è la volontà di riscatto della propria condizione che porta i migranti a confrontarsi con gli orrori del modo. Una volta in marcia non sarà il deserto a fermare i migranti, figuriamoci se possono farsi impressionare da qualche mese in più in strutture dal nome esoterico come i «Centri di Permanenza e Rimpatrio».

Chi è Giorgia per un migrante?

D’ALTRONDE il paradigma securitario era già stato sperimentato in Italia con la strategia della «chiusura dei porti». Una prova di forza che ha portato solo a violare pressoché tutte le norme di diritto internazionale e quelle costituzionali. Per fortuna lo Stato di diritto e gli obblighi di conformazione al diritto internazionale stanno facendo il loro corso e l’arroganza del potere è ora sotto processo. Assolvendo chi ha difeso i naufraghi e rispettato il diritto del mare (Carola Rackete); sottoponendo a giudizio chi ha ritenuto di potere operare calpestando i diritti umani abusando della sua posizione di potere (Matteo Salvini).

Ma quel che più impressiona nelle politiche migratorie poste in essere dall’attuale Governo è l’assenza di ogni considerazione d’ordine costituzionale e internazionale. Sembra quasi che dignità sociale, diritti inviolabili, doveri di solidarietà, libertà personale non fossero mai stati scritti tra i principi fondamentali della Repubblica, ovvero che non possano essere riferiti agli stranieri.
Se solo si riflettesse su questi sacri principi ci si renderebbe conto della necessità di chiudere i Cpr, altro che estendere il tempo di trattenimento. Quando la Consulta ha ritenuto legittimo il «trattenimento», la cui durata massima era allora di soli venti giorni, prorogabili dal giudice per ulteriori dieci, ha confermato che esso rappresenta pur sempre una misura assoggettata alle garanzie di cui all’articolo 13 della Costituzione, che prevede sia punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà.

Analogamente la Corte di Strasburgo impone l’osservanza di quegli standard minimi fissati dalla Cedu, specificando che non sono ammessi trattamenti disumani e degradanti, che deve assicurarsi la libertà e sicurezza delle persone «trattenute», nonché il rispetto della loro vita privata e familiare. Nessuno di questi presupposti di civiltà sono assicurati nei centri. Per questo dovrebbero essere chiusi e sostituiti eventualmente da altre strutture di accoglienze e altre forme di controllo.

L’ASSENZA di ogni conoscenza della realtà delle migrazioni, che coinvolge persone fragili, nonché l’improvvisazione delle misure che vengono adottate, sono emerse da ultimo nella sconsiderata decisione di prevedere che i migranti in attesa della domanda d’asilo possano evitare il trattenimento versando una cauzione pari a 4.938 euro tramite fideiussione bancaria. Ma con chi pensano di avere a che fare?

Piuttosto, visto che la giustificazione è stata quella di una (evidentemente affrettata) letture della direttiva europea che individua le misure alternative al trattenimento, si dovrebbero considerare le altre ipotesi indicate: quelle che prevedono, in modo meno costrittivo, l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità ovvero quello di dimora in un luogo assegnato. Riflettano sul fatto che – come viene espressamente affermato in quella stessa direttiva – la regola generale è che i richiedenti asilo possono liberamente circolare nel territorio dello Stato o nel luogo loro assegnato.

Con l’ultimo decreto si prevede di raccogliere chiunque – compresi i minori – nelle strutture di assistenza che potranno trattenere il doppio delle persone rispetto alla capienza prevista, sottraendo altri diritti e peggiorando le condizioni di vita. Una polveriera, che produrrà le sue violenze e sarà la ragione di ulteriori inasprimenti. In un regresso all’infinito, sino all’esplosione finale.

La strada da intraprendere è un’altra se si vuole affrontare con serietà e senso di umanità la questione non facile, ma che non può essere semplicemente repressa o rimossa, delle migrazioni al tempo delle moltitudini in marcia. Un cambio di «paradigma» che coinvolga il governo del mondo per accogliere, per redistribuire e per regolare i flussi. In questo conteso all’Italia – Paese di primo approdo – spetterebbe il ruolo di farsi promotore ed interprete di un così ambizioso cambiamento, operando essenzialmente sul piano delle politiche europeo e internazionali.

Un lungo percorso, per nulla facile da intraprendere, ma se si va in direzione opposta si finirà per trovarsi da soli contro i popoli migranti a difesa di confini porosi e con il fucile spianato. Un ben triste destino.

«Io Capitano», inseguendo la vita oltre il mare

VENEZIA 80. Presentato in gara e da oggi in sala «Io Capitano» di Matteo Garrone, i sogni giovani di migrazione. L’ avventura di due adolescenti, il desiderio di scoprire il mondo, la rotta mediterranea tra violenza e ricatti

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Cristina Piccino, VENEZIA  28/0982023

Io Capitano il nuovo film di Matteo Garrone – penultimo titolo italiano in concorso – può essere definito un romanzo di formazione al presente, costruito cioè nel confronto con la realtà del nostro mondo del quale il regista romano prende e mescola i frammenti in una cifra fantastica che si fa trama del reale. Cosa racconta dunque Io Capitano? Di coloro che percorrono la rotta del Mediterraneo, e partono dai loro paesi in cerca di un’altra vita da qualche parte nell’Europa per finire molto spesso in fondo al mare. E se sopravvivono subiscono comunque brutalità di ogni tipo, botte, torture, ricatti, richieste di soldi, stupri, diventano schiavi, sono venduti, uccisi. È quanto la cronaca riporta ogni giorno, persino col rischio di produrre una sorta di «assuefazione», quasi che tutto questo sia il risultato ineluttabile della nostra epoca, e tale riduzione a numeri o statistiche in cui si perdono i singoli vissuti delle persone sembra persino d’aiuto alla politica più reazionaria dei respingimenti e della paura.

Garrone nel confrontarsi con questa materia fa una scelta contraria a quella del film «a tema» mettendo al centro della sua storia due adolescenti che non sono «vittime», non hanno cioè quella «giustificazione» per andare via da guerre, persecuzioni, economie traballanti ma seguono l’impulso incosciente di avventura e curiosità verso il mondo della loro età.

Certo la casa di Seydou a Dakar è un po’ cadente ma anche se dormono tutti assieme in una stanza piccola lui e le sue sorelline sono felici. Le ragazzine lo adorano, e così la mamma, lui va a scuola, fa rap con gli amici e le amiche, suona alle feste dove la madre e le ragazzine ballano scatenate. Lo stesso vale per suo cugino, Moussa, eppure i due ragazzi hanno deciso di tentare il mare. Lavorano da mesi nei cantieri per mettere via i soldi, Seydou pensa così di aiutare la madre visto che il papà è morto, e forse crede al cugino quando gli dice che con la sua musica lì in Europa diventerà famoso e i «bianchi gli chiederanno l’autografo».

Poco importa se parlando con chi ci ha provato gli viene detto che non è come pensano, che la strada sarà piena di morti, che quanto vedono in tv non è vero, l’Europa non è il paradiso. Seydou e Moussa fantasticano altri orizzonti come tanti e tante adolescenti ovunque, come quando anche noi avevamo le tessere ferroviarie per girare ogni paese. Perché negargli questa possibilità di partire e di tornare? Seydou ha pure molti dubbi, si sente in colpa, se ne andrà di nascosto, senza dirlo all’amatissima madre sapendo che lei non vuole e che potrà essere per sempre. E però: esiste «per sempre» a sedici anni?
Inizia così il loro on the road: attraverso l’Africa verso il mare, da Dakar arrivano in Mali, poi Niger, Libia, la «rotta» ha la sua mappa che segna passaggi radicali a ogni confine mentre l’eccitazione dell’inizio si trasforma presto in panico, dolore e violenza. Non è come gli avevano promesso portandogli via tutti i risparmi, gli uomini che li guidano vogliono solo finire in fretta. Loro sono pacchi, merci da vendere e da comprare che passano di mano in mano senza poter difendersi.

https://www.youtube.com/embed/HJjKgyGLxX0?feature=oembed LA MATERIA è delicata, si rischia la retorica o di banalizzare, nel caso di Garrone – che ha scritto la sceneggiatura insieme a Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri – il rischio è ancora più alto perché ha scelto di posizionarsi al di là del mare, in quello spazio che rimane di solito «fuoricampo». Il suo punto di vista è quello di chi compie questo «viaggio» escludendo invece noi occidentali – non sentiremo mai la parola «migranti» pronunciata da un poliziotto o un attivista o da un qualsiasi un cittadino europeo. Per fondarlo sceglie una un immagine fiabesca, che ne garantisce la verità e insieme si fa cifra politica. I suoi paesaggi potenti e di bellezza, escludono l’esotismo o la fascinazione di chi filma i luoghi lontani perché ci vengono restituiti dagli occhi di Seydou, e dalle sue emozioni. Rispecchiano la gioia che si fa nostalgia come a Dakar, diventano visione trasognata sulla sabbia bollente che echeggia i moniti di chi lo aveva avvertito, si fanno desiderio sciamanico del ragazzo di volare a casa fuori dalla cella libica fino alla madre.

IL SUO COMING OF AGE – magnifico Seydou Farr così come Moustapha Fall che interpreta il cugino – ricorda quello di Pinocchio nel ventre della Balena dove impara per necessità a cavarsela, a trovare un modo di sopravvivenza, a resistere anche alla solitudine e alla paura. Quel mondo che scopre – e noi spettatori insieme a lui – non ha nulla di ciò che aveva immaginato nei sogni eppure lui che era il più dubbioso diventerà il più ostinato; a quel punto vuole solo andare avanti, continuando a improvvisare in ogni circostanza, anche la più assurda e terribile, a cercare in quelle fratture la sua resistenza. Garrone non ce lo mostra mai come una vittima, Seydou è un combattente, qualcuno che non vuole farsi intrappolare, portare via tutto, sentimenti, empatia. E in questo movimento del suo protagonista Io Capitano è anche un film sulla cura e sulla solidarietà, la lotta di quel giovane uomo che non dimentica gli altri – il cugino, i suoi occasionali compagni di strada – e che non cede al cinismo, dovrebbe oggi più che mai essere anche la nostra.

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