IL COLORE DELLA PELLE PER AFFERMARE LA SUPERIORITÀ da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL COLORE DELLA PELLE PER AFFERMARE LA SUPERIORITÀ da IL MANIFESTO

Un’identità a lungo riflessa nello specchio torbido d’oltremare

RAZZISMI. «Noi però gli abbiamo fatto le strade», l’indagine di Francesco Filippi per Bollati Boringhieri. Come i conti non fatti con la memoria coloniale del Paese pesano in modo inquietante sul presente. Nel suo studio pubblicato da Einaudi, la storica Silvana Patriarca racconta le vicende e l’accoglienza riservata ai «figli della guerra» nati da soldati neri e donne italianeGuido Caldiron  03.10.2021

C’è un modo di dire, forse oggi considerato desueto, ma che nella lingua italiana è stato a lungo utilizzato come sinonimo di «confusione» e «baraonda»: si tratta dell’espressione «fare un ambaradan», la cui origine il dizionario Zingarelli fa risalire ad una vicenda accaduta sull’Amba Aradam, il massiccio montuoso dell’Etiopia «presso il quale le truppe italiane sconfissero nel 1936 l’esercito abissino in una cruenta battaglia». Se nel linguaggio corrente quel riferimento si è trasformato in una sorta di ironico sinonimo del caos, in realtà lo scontro che si consumò nel febbraio del 1936 tra gli italiani guidati da Badoglio e i soldati del Negus assunse i contorni di un vero crimine di guerra. Le truppe degli invasori, i nostri connazionali, ebbero infatti ragione dei locali «solo attraverso l’uso di gas» che furono sganciati anche sulle colonne degli etiopi in ritirata, cui si era aggiunta la popolazione in fuga. Bilancio finale: 800 morti italiani e 20mila etiopi, per metà civili.

CONSAPEVOLE, per dirla con Pierre Bourdieu, di come «le parole facciano le cose», nella sua nuova indagine lo storico della mentalità Francesco Filippi sottolinea come sia anche da esempi come quello appena ricordato che si può comprendere quanto poco gli italiani abbiano fatto i conti e preso una salutare distanza dal proprio passato coloniale e dall’immaginario e la cultura che ne accompagnarono lo svolgimento per oltre ottant’anni, dall’acquisizione del porto di Assab nel 1882, fino al 1960 quando il tricolore fu ammainato in Somalia, ultima testimonianza dell’«impero» di Roma che si era estinto con la fine della Seconda guerra mondiale.
Sulla scorta dei suoi lavori precedenti dedicati alla memoria del fascismo e alla sua recente banalizzazione in chiave pop, Filippi indaga in Noi però gli abbiamo fatto le strade (Bollati Boringhieri, pp. 198, euro 12) «bugie, razzismi e amnesie» che ancora avvolgono la vicenda coloniale e soprattutto le ricadute che tutto ciò ha avuto e continua ad avere nella società italiana. Ancora una volta è questa la sfida posta al centro dell’opera dello studioso che ribadisce come affrontare «il passato del Paese in quanto dominatore e invasore» non può che contribuire ad «un approccio cosciente ai problemi dell’alterità oggi: dall’immigrazione al rapporto con le altre culture, dalle norme sul diritto d’asilo a quelle sulla cittadinanza, fino alla quotidiana percezione dell’altro nelle vite di ognuno di noi».

PIÙ CHE DI RICOSTRUIRE le tappe del colonialismo nostrano si tratta perciò di esaminare la percezione comune, diffusa, il portato di lungo corso di quella vicenda: ciò che questa «Africa in Italia» ha sedimentato nel corso di un tempo scandito dall’oblio più che dalla consapevolezza. L’assenza di un riconoscimento e di una sanzione pubblica dei nostri crimini di guerra – la mancata «Norimberga italiana»pesa sulle vicende d’oltremare quanto su quelle interne -, unita al fatto che la stagione delle colonie di Roma si chiuse con la sconfitta del fascismo nel 1945, rendendo più facile attribuire così alla sola dittatura mussoliniana quell’esperienza inauguratasi invece nell’Italia liberale, hanno contribuito al prendere forma di una sorta di versione «in kepì» della vulgata autoassolutoria degli «italiani brava gente», questa volta nella versione dei buoni coloni o colonizzatori. Eppure quella storia, come evocato dal riferimento alla «battaglia» dell’Amba Aradam è fatta di lutti e tragedie, oppressione e violenza.

Qualcosa di molto lontano dalla convinzione a lungo diffusa nel Paese che l’esperienza coloniale abbia rappresentato un mix «tra l’epopea di Lawrence d’Arabia e un’avventura salgariana». Se l’oppressione è stata a lungo celata sotto una patina di retorica all’insegna della presunta missione civilizzatrice svolta dagli italiani e di una visione razzista delle popolazioni dominate, compreso il fantasma del «bel suol d’amore» dove alla conquista territoriale si aggiungeva l’abuso dei corpi delle donne africane -, il fatto che il Paese non si sia dovuto misurare in seguito con la stagione della decolonizzazione sembra aver in qualche modo «congelato» l’immaginario coloniale.

AL PUNTO che quella rappresentazione dell’alterità come «suddita, inferiore, schiava», e comunque non percepita mai come una differenza degna di rispetto, rischia di riemergere oggi. Come spiega Filippi, «entrati nell’immaginario come servi selvaggi e inconsapevoli, i «diversi» sono scomparsi dalla coscienza pubblica del Paese per mezzo secolo, rinchiusi in rappresentazioni imbarazzanti e caricature razziste, per riapparire ora sulla scena come una minaccia, «clandestini”, “invasori”, ma mai “esseri umani”». Non a caso, di fronte ad un mondo globalizzato dove l’immigrazione emerge anche come il risultato di ciò che dei colonizzati fecero un tempo i colonizzatori, il nostro Paese appare incerto, impaurito, pronto a farsi sedurre più di altri dalle sirene dei populismi xenofobi e spesso incapace di guardarsi allo specchio senza i filtri rassicuranti ma mostruosi di identità costruite sulla menzogna.

Quando la cittadinanza è sinonimo di «pelle bianca»

SCAFFALE. «Il colore della Repubblica», l’ultimo volume di Silvana Patriarca per EinaudiGuido Caldiron  03.10.2021

Nel dibattito in corso su temi quali lo ius soli, i diritti di cittadinanza e l’idea stessa di cosa significhi «essere italiani» sembra stagliarsi sovente l’ombra di un convitato di pietra, un non detto che in realtà fa da sfondo a molte discussioni, come hanno in qualche modo suggerito con i loro interventi scrittrici e giornaliste come, tra le altre, Igiaba Scego e Nadeesha Uyangoda. Vale a dire se chi si oppone al riconoscimento di quello che appare in realtà come un dato di fatto per migliaia di giovani nati o cresciuti nel nostro Paese che dell’«italianità» fanno pratica quotidiana in ogni modo, non immagini che essere italiani significhi prima di tutto «essere bianchi».

PROSEGUENDO un itinerario di ricerca sulla costruzione del carattere e dell’identità nazionale la storica Silvana Patriarca, docente alla Fordham University di New York, offre un contributo prezioso all’analisi di questi temi, in una prospettiva che indaga le radici del presente. Il suo Il colore della Repubblica (Einaudi, pp. 230, euro 27, traduzione di Duccio Sacchi) muove da un’innovativa indagine sui «figli della guerra»: quei bambini nati alla fine del conflitto dagli incontri tra soldati alleati non bianchi e donne italiane. Bambini che gli afroamericani chiamavano brown babies e che in Italia venivano indicati con un’espressione già di per sé razzializzante: «mulattini».

Attraverso le storie di questi piccoli dalla pelle nera, il cui numero le incerte stime dell’epoca indicavano tra alcune centinaia e varie migliaia, che una volta rientrati nei Paesi d’origine, prevalentemente gli Stati uniti, i loro padri sarebbero cresciuti con le madri, le nonne o spesso negli orfanotrofi gestiti per lo più da personale religioso, Patriarca mette sotto esame il rapporto che la Repubblica nata dalla sconfitta del fascismo ebbe fin dall’inizio con i temi inerenti «la razza», il colore della pelle e l’identità. Mentre si andava definendo una nuova comunità nazionale che almeno sulla carta si contrapponeva alle idee razziste che avevano accompagnato sia l’esperienza coloniale, fatta propria anche dal fascismo, che le persecuzioni antisemite che avevano visto anche l’Italia offrire il suo terribile contributo alla Shoah, le traiettorie di questi bambini interrogavano in profondità il Paese. E la risposta, come Patriarca illustra attraverso una ricostruzione di vicende poco note, e raramente al centro della ricerca accademica, che incrocia le fonti disponibili nel nostro Paese con quelle statunitensi, le tracce lasciate nell’immaginario, dal cinema alla letteratura, il quadro e il dibattito politico e normativo dell’epoca, è decisamente sconfortante. I bambini con la pelle scura nati dopo il 1945 in Italia «vissero spesso drammaticamente la loro “differenza” e costituirono una fonte di ansia sociale e culturale. Anziché essere considerati normali cittadini, furono definiti “un problema”».

IN UNA SOCIETÀ che sta facendo ora i conti con una profonda trasformazione della propria popolazione, quella che racconta Patriarca non è perciò solo storia passata, ma è anche «una vicenda che parla al presente». Anche perché, come ricorda la storica, ancora oggi è presente «una concezione dell’italianità che non viene in genere discussa pubblicamente, e cioè l’idea che gli italiani sono europei e bianchi».

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