I migranti e i boschi d’Italia
di Piero BEVILACQUA –
Sono tornato di recente in Sila, la Sila Piccola, nel Catanzarese, percorrendo in auto e a piedi i piccoli villaggi che si snodano lungo la statale, Racise, Villaggio Mancuso, Spineto, ecc. e ho fatto una passeggiata lungo il sentiero attrezzato di uno dei tanti immensi boschi di quell’area.
Ancora una volta, ma in questo caso molto più accentuata che nelle escursioni degli anni precedenti, la stessa amara constatazione: una meraviglia della natura e del lavoro umano, uno tesoro di potenzialità economiche abbandonato a se stesso.
In Sila, in pieno luglio, si possono percorrere chilometri di strada e non si incontra anima viva. In compenso, ai bordi della strada, tra le felci che tappezzano il sottobosco, è ancora possibile raccogliere le profumate fragoline, benché più piccole del solito per il gran secco di questa estate, o i lamponi selvatici. Qui, queste piante sono endemiche. E da decenni mi sono sempre inutilmente chiesto come mai non fosse mai fiorita in queste terre la redditizia agricoltura dei piccoli frutti (fragole, mirtilli, lamponi, ribes, more), così come accade ad esempio in alcune campagne del Piemonte o della Valle d’Aosta.
Ma a questa consueta domanda se ne aggiungevano altre: com’era possibile lasciare migliaia e migliaia di ettari di radure senza alcuna coltivazione, senza quasi l’accenno di una qualche forma di allevamento?
La risposta a queste domande si trova andando in giro nei villaggi prima nominati. Per le strade e le piccole piazze pochissimi villeggianti, in grandissima parte anziani, difficilissimo scorgere bambini. I negozi, che vantano prodotti tipici calabresi, hanno in vetrina qualche barattolo di salsa di peperoncino piccante, un po’ di funghi secchi, qualche marmellata e molte cianfrusaglie di quelle che si trovano in tutti i paesi d’Italia. Quasi niente di un territorio potenzialmente così ricco appare sotto forma di prodotto apprezzabile per la sua autenticità e specificità, per il suo legame con una tradizione di rilievo. Il quadro si completa se ci si mette a girare nei villaggi, come ho fatto a Racisi, allontanandomi un po’ dalla nazionale.
Allora si scorgono file di case abbandonate, alcune col tetto sfasciato, altre interamente crollate. Tutto intorno un’area di abbandono, l’ortica che cresce alta ai bordi della strada e qualche pianta di lampone che, a dispetto di tutto, continua a offrire i suoi frutti senza che nessuno li raccolga.
Dunque, se non c’è popolazione, non si produce nulla, le case vanno in rovina, la domanda esterna che potrebbe attivare il circolo non arriva. Così muoiono lentamente le cosiddette aree interne del nostro Paese. Solo che la Sila non è un territorio qualunque. Ed è anche un grande parco nazionale.
Tuttavia, anche qui non manca qualche presidio di resistenza. Ho cenato in quello che è forse rimasto l’unico ristorante di Racisi e ho assaggiato una fetta di lardo che non assaporavo dai tempi della mia infanzia. Un sapore cosi fine ed intenso – sia detto senza nessuna vanteria campanilistica – che fa impallidire al confronto qualunque Lardo di Colonnata. E che è il risultato semplice dell’allevamento domestico del maiale.
Ma in sala c’erano solo quattro clienti ed era sabato.
Ebbene, come mi ha raccontato l’oste-resistente, quel po’ di attività e di economia che si svolge in quei luoghi, sono oggi resi possibili dagli immigrati, dai lavoratori che sono arrivati soprattutto dai Paesi dell’Est. Sono loro che fanno lavori in campagna, riparano case, accudiscono anziani.
E allora com’è possibile che un sindaco – a Castell’Umberto, in Sicilia, paese montano di tremila abitanti – faccia le barricate contro un albergo che ospita cinquanta immigrati, dove ancora non esiste una rete di corrente elettrica? Come possiamo respingere i giovani che arrivano da noi se le nostre campagne si spopolano? Non costituirebbe oggi la più lungimirante forma di investimento, per l’Italia, attrezzare i comuni, fornirli di risorse finanziarie e di uomini, per metterli in condizione di accogliere e organizzare giovani, donne, bambini in grado di far rifiorire in pochi anni economie languenti, restaurare paesi in rovina, ridare vita a territori spesso dotati di spettacolare bellezza?
È per questa strada che la sinistra può sconfiggere la propaganda fondata sulla paura, conquistare i ceti popolari a una visione solidale nei confronti dei migranti, senza dovere annacquare principi e valori nell’eterna campagna elettorale in cui oggi si esaurisce la lotta politica.
Si assiste oggi impotenti e col solito chiacchiericcio agli incendi che devastano i boschi e le campagne di mezza Italia. Nessuno pensa che se queste aree perderanno ancora popolazione, gli incendi degli anni venturi saranno ancora più devastanti e senza rimedio?
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