FLUSSI MIGRATORI: COLONIALISMO, PAURE E MURI da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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FLUSSI MIGRATORI: COLONIALISMO, PAURE E MURI da IL MANIFESTO e IL FATTO

Oxfam, una persona su quattro non ha l’acqua

CAMBIAMENTI CLIMATICI E GUERRE. Nel mondo una persona su 4 non ha accesso a fonti d’acqua pulita per bere o lavarsi. Sono i dati diffusi da Oxfam. Un’emergenza che potrebbe precipitare nei prossimi 30 […]

Redazione  16/03/2024

Nel mondo una persona su 4 non ha accesso a fonti d’acqua pulita per bere o lavarsi. Sono i dati diffusi da Oxfam. Un’emergenza che potrebbe precipitare nei prossimi 30 anni colpendo un miliardo di persone in più. Metà della popolazione mondiale (3,5 miliardi di persone) non può contare su servizi igienicosanitari adeguati.

Soprattutto nei Paesi colpiti dalla guerra o dal caos climatico, la mancanza di acqua pulita e igiene moltiplica le vittime, esponendo le popolazioni a epidemie di ogni sorta: ogni giorno oltre mille bambini sotto i 5 anni muoiono per questo.

L’acqua sporca o insicura può essere più letale della violenza diretta: a Gaza quasi 2 milioni di sfollati sono allo stremo; nel nord dell’Etiopia la popolazione dovrà affrontare la carestia se la stagione delle piogge tarderà ancora; in Siria povertà ed epidemie stanno decimando la popolazione, a 13 anni dall’inizio del conflitto e a un anno dal terremoto che ha devastato il nord-ovest del Paese.

Le nostre grinfie sull’Africa nera

NUOVO COLONIALISMO – Il Piano Mattei della premier Meloni non è una gita di anime pie. È il modo tutto occidentale di rapinare ancora il continente ridotto (da noi) alla povertà. Solo il Papa ha una visione

MASSIMO FINI  15 MARZO 2024

Nella ormai famosa intervista alla Tv svizzera, Papa Bergoglio ha detto in termini laici e non religiosi, che negoziare non è peccato.

È curioso, bizzarro, ma indicativo, che la presa di posizione più netta sull’attuale crisi russo-ucraina sia stata presa non da un politico ma da un capo spirituale. Naturalmente il Santo Padre è stato sommerso dalle critiche, politiche e mediatiche, del cosiddetto mondo occidentale.

Nell’ultimo articolo dicevo che noi dovremmo imparare dal diritto latino. Ma dovremmo imparare qualcosa anche da quelle che sprezzantemente chiamiamo “culture inferiori”, in particolare da quella africana.

L’intera storia dell’Africa Nera, naturalmente prima che noi ne ibridassimo e distruggessimo la cultura, le tradizioni, l’economia, non col colonialismo classico, che era in un certo senso ‘romano’ (noi occupavamo e depredavamo, ma gli indigeni continuassero pure a vivere secondo le loro tradizioni e costumi) ma col più recente e devastante colonialismo economico, è caratterizzata dal negoziato. Scrive l’antropologo John Reader (Africa, 2001) parlando del Delta del Niger: “Il rischio di conflitti era altissimo: in termini antropologici il delta interno del Niger avrebbe dovuto essere un ‘focolaio di ostilità interetnica’. Eppure ciò che distingue la regione durante i 1600 anni di storia documentata non è la frequenza dei conflitti, quanto la stabilità di pacifiche relazioni reciproche”. E questo vale, sempre per Reader, per tutta l’Africa Nera. Ma com’è possibile, dirà il lettore, se attualmente l’Africa è attraversata da conflitti particolarmente feroci come quello in Sudan, mentre è ancora nella memoria di tutti il dramma del conflitto tra Tutsi e Hutu? Ma questo è lo stato delle cose “attualmente”, cioè più o meno dell’ultimo mezzo secolo, in cui è stata distrutta la comunità tribale. In questa non comandava il re, che era un simbolo, il meno libero della tribù, un po’ come il re o la regina d’Inghilterra, ma le decisioni venivano prese dalla collettività. È chiaro che se tu alla realtà tribale sostituisci le strutture di uno Stato moderno questo avrà bisogno di eserciti e di polizia con cui schiacciare i sudditi, non tanto diversamente peraltro da quanto avviene nelle moderne democrazie occidentali.

Ora, per non farci mancar nulla, l’Italia con l’appoggio esplicito o implicito della cosiddetta comunità internazionale (Ursula von der Leyen, Ocse, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale) ha messo in piedi il cosiddetto “Piano Mattei”. È evidente che la Comunità internazionale agisce sotto l’impulso di un senso di colpa: dopo aver distrutto l’Africa Nera abbiamo il dovere morale di ricostruirla, soprattutto economicamente. A parte il fatto che per questo Piano non abbiamo consultato i diretti interessati, cioè gli africani, come ha lamentato Moussa Faki, il presidente dell’Unione Africana, l’Inferno, come si sa, è lastricato di buone intenzioni, anche ammesso e nient’affatto concesso che il Piano Mattei abbia buone intenzioni. Giorgia Meloni ha affermato che il Piano Mattei non ha “un approccio predatorio”. Excusatio non petita, accusatio manifesta. Il sottosuolo africano possiede il 30% delle risorse naturali e minerarie necessarie alla transizione energetica globale. E non è certamente un caso che al Piano Mattei sia molto interessata l’Eni, nota confraternita di anime pie (nel 2006 furono rapiti due tecnici Eni nel Delta del Niger perché lo sfruttamento del petrolio andava a tutto vantaggio della società italiana e non al popolo nigeriano. I capi del Mend, Movimento per la liberazione del Delta del Niger, dissero: “Noi non siamo criminali, ma voi ci costringete a esserlo”).

Ma l’Africa Nera non è interessante solo per le sue risorse, ma per il numero dei suoi abitanti, circa 700 milioni escludendo il Sudafrica che fa storia a sé. Insomma si vuol fare degli africani dei forti consumatori.

Consumatori di che non è molto chiaro visto che, come dicono tutti, l’Africa è alla fame. Lo è oggi, non lo era nell’immediato ieri. Ai primi del Novecento, l’Africa era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%) nel 1961. Ma da quando ha cominciato a essere aggredita dall’integrazione economica – prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante – le cose sono precipitate. L’autosufficienza è scesa all’89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere che è successo dopo non sono necessarie statistiche: basta guardare le migrazioni dei subsahariani che, passando dalla pericolosissima Libia di oggi (quando c’era Gheddafi la Libia era un Paese ordinato e nient’affatto pericoloso) e per la Tunisia, dove sono odiati dalla popolazione locale che tende a ricacciarli in mare.

Insomma in Africa Nera non è più questione di povertà ma di fame, della brutale fame. E non sarà certo il blocco navale progettato da Salvini a fermare questa gente.

Ritorniamo ai problemi, ai drammi, dell’agricoltura africana. “In un’economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce n’è bisogno, va dove c’è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale di cereali è destinato all’alimentazione degli animali dei Paesi ricchi. I poveri del Terzo mondo sono costretti a vendere alle bestie occidentali il cibo che potrebbe sfamarli” (Il vizio oscuro dell’Occidente, 2002). È la legge del mercato e del denaro.

L’interesse per l’Africa Nera non è dettato solo da ragioni economiche rapinatorie ma da interessi geopolitici. Si scrive che in Africa sono presenti i russi attraverso la Wagner. I russi non sono mai stati presenti in Africa, non hanno mai avuto interessi coloniali di tipo occidentale (alla Russia interessa ciò che accade nel proprio territorio e in quelli vicini, cioè territori europei o parzialmente asiatici) così come non fu né coloniale né neocoloniale il nazismo, Namibia a parte che, credo non a caso, è oggi il Paese più ordinato e tranquillo dell’Africa Nera. La fantomatica Wagner, che si dice che esista ma nessuno sa dire con precisione dove stia, è un pretesto per addebitare a Putin ciò che di Putin non è. Si dice che la Wagner sia presente in Mali. Le cose non stanno proprio così. Il Mali è diviso in due parti, il Mali del Sud sotto la Francia, non nei modi neocoloniali ma nei modi di un colonialismo in senso stretto scomparso da tempo (da quelle parti si batte una moneta francese, il Franco Cfa) e un Mali del Nord abitato da animisti, tuareg, islamici non radicali. Qualche anno fa alla Francia è venuta la bramosia di occupare anche il Mali del Nord.

Conseguenze: i tuareg si sono salvati perché nomadi, gli animisti sono stati spazzati via e gli islamici, fino ad allora quieti, sono diventati Isis.

All’epoca di un summit organizzato dal primo G7, i sette Paesi africani più poveri con alla testa il Benin organizzarono un contro-summit al grido: “Per favore non aiutateci più!”. Invece di fare le anime belle, con Piani Mattei e simili, dovremmo seguire questa volontà autoctona. “Oh che partenza amara, Meloni cara, Meloni cara”.

Flussi migratori, paure e muri che l’economia non giustifica

IMMIGRAZIONE. Se ci chiedessero di menzionare il sentimento politico più potente della nostra epoca, nostro malgrado probabilmente citeremmo il terrore collettivo suscitato dagli immigrati. La diffusione di questa paura è tale […]

Emiliano Brancaccio   16/03/2024

Se ci chiedessero di menzionare il sentimento politico più potente della nostra epoca, nostro malgrado probabilmente citeremmo il terrore collettivo suscitato dagli immigrati. La diffusione di questa paura è tale da aver determinato uno dei mutamenti politici più visibili di questo secolo: una stretta progressiva all’immigrazione regolare. L’indice Demig, a cura dell’International Migration Institute di Amsterdam, segnala sempre più ricorrenti restrizioni nelle politiche migratorie. Dal 2008, dei 36 paesi appartenenti all’Ocse ben 32 hanno irrigidito le procedure di immigrazione legale: tra questi c’è l’Italia, assieme a Francia, Germania, Regno unito, Stati uniti e altri.

Eppure, quanto già fatto non sembra bastare. La destra reazionaria insiste con i vincoli burocratici, i muri di filo spinato e i blocchi navali. E anche tra i partiti cosiddetti liberali si avverte uno spostamento sempre più accentuato verso le politiche anti-immigrazione. Se a giugno liberali e reazionari raggiungeranno un’intesa sul governo europeo, sarà certamente intorno a una lotta ancor più serrata contro lo straniero entrante. Per le sinistre si tratta invece del tema più spinoso, quello su cui è più facile perdere consensi. Uno dei motivi è che la paura degli immigrati ha fatto breccia anche tra le lavoratrici e i lavoratori nativi.

Gli immigrati sono infatti visti come una minaccia «economica», che accresce l’esercito di disoccupati, spinge verso condizioni di lavoro peggiori e salari più bassi, crea pressione sugli affitti, e così via. Queste tesi appaiono ormai talmente consolidate che non mancano sedicenti leader «di sinistra» pronti a incorporarle nei loro programmi.

Le cose, tuttavia, stanno davvero in questi termini? La ricerca scientifica prevalente dice di no. Nei contributi del premio Nobel David Card e di altri esperti in tema, la tesi che l’immigrazione deteriori le condizioni di vita dei lavoratori nativi trova crescenti smentite. I dati indicano che i migranti si recano soprattutto lì dove c’è una forte esigenza di manodopera da parte delle imprese, il che spiega per quale ragione il loro arrivo non risulta correlato a una crescita della disoccupazione. Questo significa pure che gli immigrati vanno soprattutto dove la pressione sui salari non è al ribasso ma al rialzo, il che aiuta a capire perché nemmeno l’idea che l’immigrazione riduca le retribuzioni trova riscontri empirici adeguati. Persino George Borjas – l’economista che venne citato da Donald Trump per difendere il muro di separazione col Messico – porta risultati tutt’altro che univoci, molti dei quali segnalano che l’immigrazione può esser correlata a crescita e benessere dei lavoratori nativi.

Insomma, se guardiamo i dati scopriamo che le politiche di respingimento dei migranti, giustificate con l’intenzione di difendere le condizioni economiche dei nativi, non sono supportate dall’evidenza scientifica.

C’è invece una diversa evidenza che emerge chiaramente dalle ricerche in materia. È quella secondo cui i danni principali alla classe lavoratrice non provengono dai flussi migratori di persone ma derivano piuttosto dai flussi internazionali di capitali. I veri guai, cioè, vengono dal fatto che l’attuale libertà di circolazione dei capitali consente ai grandi possessori di ricchezza di spostare a piacimento i loro denari da un luogo all’altro del mondo, alla continua ricerca di alti profitti, bassi salari e nuove opportunità di sfruttamento del lavoro.

Altro che minaccia migratoria, dunque. Il vero problema, come sempre, sta dal lato del capitale e delle sue scorribande. Anziché inseguire le destre sull’arresto dei migranti, allora, le sinistre potrebbero recuperare la bandiera alternativa dell’arresto dei movimenti internazionali di capitali. Per adesso, tuttavia, di questa opzione non si parla. Le destre continuano a prosperare agitando il mistificante spauracchio dell’immigrazione, mentre sui veri guasti del capitale resta la congiura del silenzio.

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