UNA RADICALE ORAZIONE CIVILE CONTRO LA GUERRA da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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UNA RADICALE ORAZIONE CIVILE CONTRO LA GUERRA da IL MANIFESTO

Una radicale orazione civile contro la guerra

Scaffale «Dio non salvi il re» di Raniero La Valle, per Edimedia. Per l’autore va completata ora la scelta che il ’900 ha in parte fatta fra la belva e l’angelo

Roberta De Monticelli  25/10/2024

Alto, teso, visionario, l’ultimo saggio di Raniero La Valle, Dio non salvi il re (Edimedia, pp. 112, euro 9) è una grande orazione civile e insieme una meditazione profetica per la vastità e direi la radicalità spirituale della visione. È proprio questa combinazione mozzafiato di azione e contemplazione a farne l’originalità, un’originalità perpetua come quella di una fonte che sgorga da tanti e tanti anni: c’era ancora il Regno quando a 14 anni La Valle scrisse la sua prima lettera politica.

DA SEMPRE, FORSE, La Valle conosce per esperienza il detto di Simone Weil, che bisogna parlare delle cose eterne per essere attuali e, si può dire, per smuovere le coscienze e muovere all’azione, in tutta la sua rischiosa contingenza, in tutta la sua precaria provvisorietà. Perché cos’altro è in gioco se non le cose ultime, quando si parla di guerra e di pace, non nei romanzi ma nei parlamenti? Eppure i leader politici vigenti ne parlano con tanta aderenza alla feroce forza che «possiede il mondo e fa nomarsi dritto» (Manzoni), che i loro discorsi sono stracci da lustrascarpe quando non sono apologie di reato. E allora i filosofi, gli scienziati, gli scrittori, con poche eccezioni si ritirano a produrre pensieri senza fame e sete di giustizia, a volte divertenti ma sempre diversivi, come se avessero tutti imparato la malinconica lezione di Adelchi: «godi che re non sei». Non c’è luogo ad agire, nel mondo: «non resta/ che far torto o patirlo».

CHI È IL RE CHE DIO non deve salvare? È polemos, la guerra. Questo pensiero con cui un antico filosofo, Eraclito, tese lo specchio al caos feroce e idiota che ancora ribolle in noi dai tempi dell’orda primitiva, è oggi stranamente ridiventato un «conformismo che si espande fino agli editorialisti… agli esperti geopolitici… a quasi tutti i capi di Stato e di governo». L’Europa corre in ordine sparso al riarmo, i documenti strategici del Pentagono sembrano scritti da quel personaggio chaplinano che giocava come un bambino con la sfera del mondo. Ma non c’è da ridere se dicono che nessuna potenza deve né superare né eguagliare quella statunitense.

La supposta sovranità della guerra si traduce in un’idea di politica come sovranità di Uno sul mondo: il potere sovrano finisce per assumere un valore sacrale, l’unilateralismo ridiventa teologia politica. E l’Onu, e l’Ue, nati per estromettere la guerra dalla civiltà, si suicidano. A rigore (si potrebbe pensare) ammettere che la guerra sia il presupposto della politica non comporta necessariamente che la politica debba continuarla, con altri mezzi o con gli stessi: al contrario, si può concepirla come l’arte di spegnere la guerra. Ma certamente non è la «sovranità» (di uno o di alcuni) che aiuterà a questo. È semmai la cessione di sovranità necessaria a una Costituzione per la Terra – alla piena attuazione di una federazione mondiale delle repubbliche, il grandioso progetto di riforma dell’Onu che a lungo La Valle ha condiviso con Luigi Ferrajoli.

Ma La Valle qui va oltre: non, forse, nell’orizzonte della teoria, ma nel pensiero vissuto, sofferto, della storia. Entrambi sentono l’umanità a un bivio: è il sottotitolo del libro di Ferrajoli. Ma per La Valle va completata adesso la scelta che il Novecento ha in parte fatta fra la belva e l’angelo, fra la guerra e la carta dell’Onu, fra la tradizionale idea che esistano guerre «giuste» e il ripudio della guerra come negazione della ragione, dell’etica, del diritto e della politica. Adesso: nelle case, nelle strade, in mezzo alla gente, nell’opera quotidiana di costruire insieme i «Comitati di liberazione dalla guerra» per curare la tendenza al suicidio che ci divora.

È così che si fa quando «la casa brucia», ed è così che la voce di questo profeta si mischia alle altre che oggi assumono la pace «quale ‘criterio’ del politico, al posto del contrasto Amico-Nemico». È in questo «viene l’ora, ed è ora», che fu detto dal Cristo alla Samaritana, che questa voce si fa preghiera. È cogliendo il presente come punto della creazione, che «coinvolgiamo Dio nella nostra tragedia». Non teopolitica ma il contrario: senso del nostro oggi come origine, creazione, attualità. Forse la vera tragedia è che intellettuali e politici piccoli e grandi non l’abbiano capito. E che la Pace, lungi dall’avere un trono, non ha ora nemmeno voce al Parlamento europeo.

OGNI PROFEZIA è visione del presente e della storia insieme. E questa, che pure ribadisce la passione e la fede di una vita, vede un Israele che «si converte», con l’intero Occidente, all’universalismo cui non bastarono i Lumi. «La salvezza viene dai giudei», aveva detto il Nazareno alla Samaritana, in una libera conversazione in cui ethnos e religio si sciolgono in una luce di «spirito e verità». Non è solo la guerra russo-ucraina che deciderà il bivio fra salvezza e fine dell’umano. «Invece la vera carica esplosiva che minaccia la storia – e per la quale ne va della continuazione della civiltà e della vita sulla terra – è la crisi israeliana: è lì il crinale apocalittico della storia di cui parlava La Pira». Non è il solo omaggio di La Valle agli «amici e maestri» del suo lungo viaggio, alla sua cara gente che se ne è andata. Forse è davvero il momento di ascoltarlo.

Insieme per ripudiare la guerra

La cacciata In Italia con il Movimento nonviolento e Rete pace e disarmo attiviste e attivisti palestinesi obiettori di coscienza

Filippo Zingone  25/10/2024

Grazie all’associazione Movimento nonviolento, nel quadro della campagna Obiezione alla guerra, che ha l’obiettivo di ottenere il riconoscimento dello status di rifugiati per tutti gli obiettori di coscienza nel mondo, sono stati invitati in Italia per un tour – partito da Milano e che finirà sabato a Bari – due attivisti e obiettori di coscienza israeliani dell’associazione Mesarvot: Sofia Orr e Daniel Mizrahi, e due attiviste palestinesi, Aisha Amer e Tarteel Al Junaidi, dell’organizzazione internazionale Community Peacemakers Teams. Dopo l’arrivo a Milano mercoledì 16 ottobre i quattro giovani attiviste e attivisti (la più piccola è Orr di 19 anni e la più grande Al Junaidi di 29) sono stati protagonisti di molti incontri con la società civile, con particolare riguardo ai giovani, portando la loro testimonianza di resistenza e collaborazione nelle scuole e nelle università.

IERI, A ROMA, sono stati ascoltati la mattina dalla Commissione permanente per i Diritti umani e nel pomeriggio hanno parlato a una conferenza stampa a Montecitorio, alla presenza dei deputati dell’intergruppo parlamentare per la pace in Palestina e Israele Laura Boldrini, Stefania Ascari e Francesco Mari, insieme ad Alfio Nicotra della rete Pace e disarmo.
Le loro storie hanno colpito i presenti nella sala stampa della Camera. Come quella di Sofia Orr, che dopo essersi rifiutata di fare il servizio militare, obbligatorio in Israele, è stata messa in una prigione militare per 85 giorni. La decisione di diventare un’obiettrice di coscienza è arrivata dopo che la giovane si è domandata cosa, con il suo corpo, avrebbe avallato e aiutato prestandolo al servizio militare. Ma la sua decisione è stata volutamente pubblica e alla luce del sole perché, come ha detto: «Volevo resistere attivamente, cercando di raggiungere i media sia nazionali che internazionali e cercando di portare la voce e la sofferenza del popolo palestinese nella società israeliana».

Una resistenza che si lega a quella che viene fatta dall’altra parte del muro di più di 700 chilometri che divide Israele dalla Cisgiordania occupata. La resistenza raccontata da Tarteel Al Junaidi, che vive a Hebron nel sud della Cisgiordania. Una città che, dice l’attivista «se la vedi, capisci veramente cosa vuol dire occupazione». Check point a ogni angolo, attacchi e minacce da parte di militari e coloni, che vivono in colonie dentro la città vecchia, edifici israeliani cinti da reti e filo spinato in mezzo a case palestinesi. Ma la realtà che vive Al Junaidi, dice lei stessa «è quella che vivono tutti i palestinesi in tutti i territori occupati». E «le nostre voci non vengono ascoltate. Per questo penso che ogni palestinese nasce attivista:perché vuole raccontare come vive, vuole testimoniare la negazione dei diritti che subiamo».

UN PUNTO su cui tutti gli attivisti si sono più volte spesi è quello per cui senza l’eliminazione della radice della violenza è inutile parlare di pace: «Penso che la violenza che vediamo ora sia il prodotto di un sistema di disuguaglianza. Nel momento in cui israeliani e palestinesi avranno gli stessi diritti la violenza non avrà più scopo di esistere» ha dichiarato al manifesto Daniel Mizrahi. Che interrogato sulle possibili collaborazioni e azioni congiunte tra palestinesi e israeliani contro l’occupazione ha detto che «Israele ha creato una separazione sistematica. Vogliono separare le persone così da non dare la possibilità di creare connessioni rendendo difficilissimo, ancora di più dopo il 7 ottobre, lavorare insieme per la pace e la giustizia». Un punto su cui anche Al Junaidi si trova d’accordo quando dice che «i palestinesi non conoscono gli israeliani se non come soldati o coloni».

MA DOMANDANDO in che modo si può raggiungere l’uguaglianza tra palestinesi e israeliani, la risposta che ha dato Mizrahi, come tutti gli altri attivisti, è: «La pressione internazionale sul governo di Israele. Ma una pressione vera, e il perseguimento del diritto internazionale che renda realmente punibili i responsabili dei crimini di guerra e contro l’umanità che stiamo vedendo».

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