SE L’UNIVERSITÀ RIPRODUCE LA VIOLENZA COLONIALE da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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SE L’UNIVERSITÀ RIPRODUCE LA VIOLENZA COLONIALE da IL MANIFESTO e IL FATTO

Se l’università riproduce la violenza coloniale

RICERCA CONGIUNTA. La prospettiva critica consiste nell’insistere su un ragionamento politico democratico e non su una logica geopolitica che cerca di preservare lo status quo: la popolazione palestinese araba, musulmana e cristiana è già sotto il controllo diretto e indiretto israeliano, dal fiume al mare. La questione politica è come trasformare i fatti sul terreno in un’elaborazione post-coloniale

Iain Chambers  21/04/2024

L’Università italiana discute e gli studenti giustamente protestano a proposito dei rapporti di ricerca con Israele. Le collaborazioni in campo scientifico spesso trovano sbocco in pratiche militari, ma anche gli studi umanistici più astratti sono inseriti nel tessuto di una società che opera come potenza coloniale in Medio Oriente.

Questo intreccio è ben delineato nel volume recente della studiosa israeliana Maya Wind, Towers of Ivory and Steel. How Israeli Universities Deny Palestinia Freedom (Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane negano la libertà alla Palestina).

ISRAELE continua a sentirsi minacciato nonostante sia una delle principali potenze militari del mondo e continua anche a dichiararsi e vittima della situazione. Tutto questo ha a che fare con una realtà coloniale in cui sia il colonizzato che il colonizzatore vivono relazioni sostenute dalla violenza. Sostenere la parte dominante che continua il suo percorso coloniale non offre, ovviamente, alcuna soluzione al colonizzato, ma nemmeno al colonizzatore che è destinato a vivere in uno stato di eccezione di guerra, con una vita sociale completamente militarizzata. In entrambi i casi ci si trova, come aveva già previsto Hannah Arendt più di 75 anni fa, ben al di là dei parametri di una democrazia che promuove diritti per tutti quelli sotto la sua tutela.

La prospettiva critica consiste proprio nell’insistere su un ragionamento politico democratico e non su una logica geopolitica che cerca di preservare lo status quo. Ciò significa che l’Europa dovrebbe assumersi la responsabilità della tragedia che ha provocato in Medio Oriente nel corso del XX secolo, mentre Israele dovrebbe riconfigurarsi per rispondere a tutti i popoli sotto il suo dominio.

In altre parole, i presupposti per uno Stato democratico in quella striscia di terra sono già nelle mani di Tel Aviv. La popolazione palestinese araba, musulmana e cristiana è già inserita negli apparati statali del suo controllo diretto e indiretto, dal fiume al mare. La questione politica è come trasformare i fatti sul terreno dall’attuale violenza coloniale in un’elaborazione post-coloniale, articolata attraverso prospettive di giustizia.

Mi sembra che l’Europa, che continua in tutti gli ambiti economici e culturali a sostenere lo Stato di Israele così com’è, stia sostenendo un fallimento storico che va contro le sue stesse pretese di democrazia. Sta svelando, ancora una volta, lo stesso dispositivo razziale che aveva giustificato il suo colonialismo planetario: la conservazione della democrazia limitata a un’appartenenza etno-nazionale di una società di ex europei che, a quanto pare, vale più delle richieste di libertà degli arabi autoctoni.

FORSE le istituzioni nazionali ed europee chiamate a deliberare sui rapporti con lo Stato di Israele dovrebbero riflettere più profondamente dal punto di vista storico ed etico in questo momento. Per costruire un percorso capace di mediare tra l’atroce passato dell’Europa scaricato in Medio Oriente e la responsabilità di sostenere futuri orizzonti democratici per tutti e non solo per alcuni, le università e gli istituti di ricerca hanno, come minimo, il compito critico di sostenere un percorso capace di distaccarsi dall’attuale configurazione del potere/sapere.

Se l’università moderna è il luogo del confronto analitico e della ricerca innovativa, non può proporre la mera riproduzione dello status quo politico esistente e il suo senso comune senza perdere la sua stessa finalità critica e la sua missione storica.

Dissenso su Israele, il sociologo W. Streeck: “I tedeschi imparino dagli studenti italiani”

DI CARLO DI FOGGIA  20 APRILE 2024

“Tutto può succedere ormai in questo Paese”. Più che deluso, Wolfgang Streeck sembra spaventato dal dibattito in Germania su quel che accade in Medio Oriente. Il grande sociologo tedesco si accalora quando gli si chiede della decisione delle autorità di vietare l’attività politica all’ex ministro greco Varoufakis che doveva collegarsi in video al “congresso palestinese”, interrotto dalla polizia. “È inaccettabile – dice – potrebbe violare la legge europea sulla libertà di parola. Come cittadino, sono scioccato dalla codardia del nostro governo, che ha paura di persone che non fanno altro che esprimere un punto di vista dissenziente. In una democrazia è essenziale che tutte le parti siano ascoltate affinché le persone possano formarsi un’opinione informata: audiatur et altera pars, dicevano i latini”.

Varoufakis ha criticato “la complicità della Germania nel genocidio a Gaza”. Che tipo di società sta diventando quella tedesca se la polizia vieta parole così?

È la domanda giusta da porsi. Forse una società gestita dall’intimidazione, certo non una democrazia. Il governo sta dicendo alla generazione più giovane, che sta acquisendo posizioni di responsabilità, di non parlare apertamente di ciò che tutti vedono: l’uccisione di massa a Gaza. “Stai zitto o ne subirai le conseguenze”, è il messaggio che dà loro. Questo avrà conseguenze su come si comporteranno in futuro.

Nel ’69 Ernest Mandel, noto economista marxista, fu bandito con l’accusa di essere antisemita, ma il divieto fu revocato dopo le proteste. Che oggi però non si vedono, né nei partiti né sui media.

In questo Paese, adesso, può succedere di tutto: si trova in una condizione di panico morale e politico, di totale confusione; insegna ai suoi cittadini a reprimere i sentimenti umani più elementari di fronte ai bambini affamati di Gaza. Ci sono migliaia di orfani e genitori che hanno perso i loro figli e cosa fanno i media, il Bundestag, i tribunali e la polizia? Discutono di sottili dettagli legali: se si tratti effettivamente di un genocidio ai sensi del diritto internazionale o se gli somigli soltanto. Nel qual caso, evidentemente, può essere accettabile.

In Europa si vietano le manifestazioni per la Palestina. In Italia le proteste studentesche vengono represse. Qualcosa di simile si è visto con la guerra in Ucraina. C’è il rischio di limitare il pensiero critico o formare persone incapaci di esercitarlo?

È un rischio molto reale. Dipenderà dagli studenti, compresi quelli non tedeschi: devono dimostrare che questa repressione non funziona. Negli Usa si stanno già facendo sentire, e in modo molto efficace. Quando di recente sono stato a Milano per una conferenza all’università, c’erano ovunque segnali contro le uccisioni di massa dei palestinesi. Abbiamo bisogno della stessa cosa qui in Germania, in modo visibile e dirompente.

Israele rischia di trascinare i Paesi europei (e non solo) in una escalation, ma dai sondaggi i suoi cittadini non sembrano favorevoli alle sue politiche.

I sondaggi sono condizionabili, ma i politici a volte tendono a considerarli in chiave elettorale. Speriamo che li spaventino abbastanza da costringerli a fermare gli israeliani.

Germania e Ue vengono da due anni di crisi legati alla guerra in Ucraina…

Sono in una condizione precaria. Gli Usa spingono la Germania a essere il loro guardiano eurasiatico per colmare il vuoto che lasciano nel sostegno a Kiev con il loro ritiro. Ma questo ruolo Berlino non può ricoprirlo, per ragioni materiali e politiche e lo stesso vale per l’Ue, troppo divisa per poter essere un attore di rilievo internazionale. Chi comanderebbe un esercito europeo, Von der Leyen? Siamo seri. È ora che pensino a una vera strategia per Ucraina e Russia, senza limitarsi ad attuare, a livello locale, quella globale statunitense, che peraltro cambia continuamente perché gli Usa rischiano molto meno dal caos europeo.

Le sanzioni al suo primo fornitore di gas, le politiche migratorie repressive, il superamento degli aiuti di Stato, il modello europeo sta entrando in una crisi irreversibile?

Ci sono molte crisi in corso, anche intrecciate tra loro. Avranno, tutte insieme, un impatto irreversibile? Credo che senza restituire potere agli Stati membri, in uno spirito di sussidiarietà, l’Ue prima o poi si disgregherà a causa di conflitti e contraddizioni interne. Abbiamo bisogno che gli Stati siano reattivi nei confronti dei cittadini e possano essere ritenuti responsabili delle loro decisioni e azioni. Solo gli Stati nazionali democratici possono svolgere questa funzione. Hanno bisogno di essere rivitalizzati.

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