RIFORMA ELETTORALE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
5209
post-template-default,single,single-post,postid-5209,single-format-standard,cookies-not-set,stockholm-core-2.4.4,select-child-theme-ver-1.0.0,select-theme-ver-9.11,ajax_fade,page_not_loaded,,qode_menu_,wpb-js-composer js-comp-ver-7.8,vc_responsive

RIFORMA ELETTORALE da IL MANIFESTO

Le macerie nel passaggio di consegne tra l’Avvocato e il Banchiere

L’analisi politica . Ha vinto il blocco di potere di un capitalismo parassitario e speculativo, aggregato intorno alla ”impresa irresponsabile”, sul modello delle autostrade dei BenettonMarco Revelli  06.03.2021

Le dimissioni di Nicola Zingaretti sono l’ultimo passaggio – drammatico – della reazione a catena innescata da Matteo Renzi quando ha dinamitato il governo Conte II. E insieme il segno dello sfacelo di un assetto istituzionale che nasconde le proprie macerie dietro il sorriso enigmatico – e vagamente minaccioso – di Mario Draghi.

Quel passaggio di consegne tra l’Avvocato (del popolo) e il Banchiere (dei potenti) non ha segnato solo un chiarissimo spostamento a destra dell’asse politico. Ha rilasciato anche uno sciame sismico che mina alla base il già precarissimo equilibrio del sistema politico, incrementando la tendenziale liquefazione di tutte lo forze che lo compongono. E può aprire la via ad avventure imprevedibili oggi (si pensi a quel 50% circa di elettori che nei sondaggi figurano come “incerti”, cioè privi di rappresentanza politica).

È stata, quella crisi di governo assurda e insieme logicissima, la vittoria del blocco di potere che costituisce il baricentro di un capitalismo fattosi in quasi un trentennio di declino arrogante e straccione. Un ceto parassitario e speculativo, aggregato com’è intorno a quella che Luciano Gallino aveva chiamato l’”impresa irresponsabile”, immaginata per intenderci sul modello delle autostrade dei Benetton.

Ci stanno dentro gli avvelenatori dell’Ilva, i pessimi manutentori del ponte Morandi, i tradizionali vincitori degli appalti di tutte le “grandi opere” devastatrici del paesaggio, gli immobiliaristi romani e i robber baron del capitalismo delle reti oltre che, sotto, molto sotto, il reticolo pulviscolare dell’economia molecolare padana, galleggiante solo grazie ai bassi salari e all’assenza di resistenza sindacale.

Sono loro i vincitori del 13 febbraio. Loro che avevano incominciato a picconare Giuseppe Conte prima ancora che entrasse a Palazzo Chigi, contestandone (ricordate?) il curriculum, preoccupati che il suo sguardo si posasse un pochino – poco poco, appunto – su quanto sta in basso. Loro che hanno sostenuto l’offensiva di Salvini per svuotare la pur debole spinta anti-establishment dei 5Stelle nella compagine giallo verde (epico il ribaltamento sul Tav Torino-Lione), e poi a lavorare per scavare la terra sotto i piedi a quella giallo-rossa chiedendo, fin dall’inizio della pandemia, di mettere l’economia al di sopra della salute. Sempre loro a usare il capitano di ventura Matteo Renzi nella mattanza finale… Facciamocene una ragione: l’Italia è questa cosa qui, nelle mani di questa gente qui.

In questo senso il gesto di Zingaretti ha un carattere esemplare: come ha scritto ieri Norma Rangeri, costituisce “la più cruda, eloquente rappresentazione” di cos’è oggi il Pd, ma anche di cos’è diventato il Paese. E’ un atto di onestà. O, meglio, di verità. Dà la dignità delle parole a ciò che ognuno di noi vede e ha visto ogni giorno. Pesa come un macigno il termine VERGOGNA, ed è difficile trovare espressione più calzante per i comportamenti di quel gruppo dirigente. E non solo di quello.

Esattamente due anni fa, il 17 marzo del 2019, Zingaretti aveva preso in mano un “partito morto” (così l’ha definito Cecilia D’Elia), svuotato da più di quattro anni di segreteria renziana: e in effetti come sarebbe stato possibile sopravvivere, con un corpo e con un’anima, per un partito che per quasi 1550 giorni si era dato anima e corpo a un simile avventuriero della politica? Tanto più che quel partito senz’anima, o con un’anima fragilissima, era nato, quando con sciagurato azzardo, nel 2008, Walter Veltroni aveva avviato la fusione fredda con la Margherita immaginando di farne il perno di un bipartitismo italiano spirato in culla.

A quel compito da rianimatore di terapia intensiva l’ultimo suo segretario si era applicato con buona volontà, anche se senza brillantissime idee, fino a dover scoprire, alla fine, l’inutilità di quell’accanimento terapeutico di fronte alla coriacea incapacità del partito di rapportarsi alla sofferenza diffusa, lacerante, di buona parte della popolazione o anche solo di includerla nel proprio orizzonte di pensiero.

Per una sorta di astuzia della ragione, che dissemina indizi anche se quasi mai vengono colti da chi dovrebbe, nello stesso giorno degli agguati a Zingaretti l’Istat ha rilasciato gli ultimi dati, terribili, sulla povertà assoluta. Versano in questa condizione, cioè non possono fruire del minimo indispensabile per “una vita dignitosa”, più di 5 milioni e mezzo di persone, quasi un cittadino su dieci. Un milione in più rispetto all’anno scorso, per la metà “operai o assimilati”, cioè titolari di un posto di lavoro che non gli permette comunque di vivere. E non sono stati ancora sbloccati i licenziamenti.

Chi rappresenterà questo bacino di sofferenza sociale nel tempo durissimo che ci aspetta? Chi li sottrarrà al fascino del demagogo di turno che li ammalia e tradisce? O alla dura legge della protezione in cambio di fedeltà, che è la tomba di ogni democrazia.

Per ridare senso alla rappresentanza politica

Riforma elettorale. Un sistema proporzionale è condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per dare la possibilità ai conflitti che attraversano la società di trovare una rappresentanza reale in ParlamentoGaetano Azzariti, Maria Luisa Boccia, Luigi Ferrajoli, Franco Ippolito, Livio Pepino06.03.2021

Si è appena costituito un anomalo governo di “salvezza nazionale” sostenuto dalla grande maggioranza delle forze politiche e si ricomincia, giustamente, a parlare, di riforma della legge elettorale. Non peraltro – come si era promesso nella campagna referendaria per la riduzione del numero dei parlamentari – in senso proporzionale ma insistendo nel riproporre soluzioni maggioritarie, già oggi rivelatesi inadeguate e pericolose.

È necessario e urgente ridare senso a una rappresentanza politica plurale, che pretende il confronto tra prospettive e programmi tra loro diversi. Altrimenti perché votare? È, dunque, tempo di mettere mano alle condizioni per il corretto funzionamento della dialettica democratica e delle istituzioni, gravemente compromesso dalla crisi della rappresentanza che coinvolge entrambi i lati del rapporto: i rappresentati non meno dei rappresentanti.

È alla costruzione di una società strutturata e vitale che si deve lavorare, dando piena dignità e ruolo adeguato all’associazionismo culturale e politico in tutte le sue diverse forme ed espressioni. Se non può farsi affidamento sulla capacità dei partiti di autoriformarsi, non si può neppure confidare sulla spontaneità dei soggetti sociali di farsi autonomamente valere. Senza partiti, o altre forme organizzate, la società civile è condannata a perdere forza ed efficacia politica.

Per perseguire un recupero del rapporto tra rappresentanti e rappresentati e per assicurare un corretto governo delle dinamiche sempre più delicate e conflittuali che attraversano il Paese, la strada da percorrere è un’altra.

Il primo passo è prevedere un sistema elettorale che eviti distorsioni, favorendo artificialmente alcune forze politiche a scapito di altre. Una legge elettorale pienamente proporzionale e che permetta a elettori ed elettrici di scegliere i propri rappresentanti non è la soluzione alla crisi della politica, ma ne rappresenta il presupposto.

L’approvazione di una legge siffatta toglierebbe ogni alibi a coloro che, da decenni ormai, sono stati portati a orientare l’intera propria azione politica al solo fine di governare senza rappresentare. L’ossessione di sapere “il giorno stesso delle elezioni” il nome dell’unico vincitore ha indotto diverse maggioranze parlamentari ad approvare leggi elettorali truccate, le quali alteravano a tal punto i risultati che alla fine è dovuta intervenire la Consulta per riportare un po’ d’ordine.

C’è voluto il giudice delle leggi per ricordare a tutti e tutte come la composizione delle Camere si deve fondare sul principio della rappresentanza democratica, la quale non può subire alcuna «alterazione profonda», poiché è su di essa che «si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente». Ma oggi si ricomincia come se nulla fosse accaduto.

L’essenza del voto nella nostra democrazia costituzionale non è la certezza dell’esito, bensì quello di permettere al popolo di scegliere i/le parlamentari affinché rappresentino, senza vincolo di mandato, la nazione nelle sue molteplici e complesse articolazioni. I partiti e i movimenti a forza di guardare solo a se stessi lo hanno dimenticato. Nessuna delle forze politiche, sempre alla ricerca di alleanze preelettorali insincere, strumentali a vincere ma non a governare, ha più curato con perseveranza e passione le necessarie alleanze sociali. Ma sono queste ultime che danno forza e sostanza all’azione politica dei diversi partiti, che si pongono tra loro in lotta per affermare ciascuno la propria visione del mondo attraverso le regole della democrazia parlamentare.

La retorica mainstream ha ripetuto per anni una palese falsità: bisogna costringere i partiti ad allearsi tra loro prima delle elezioni al fine di assicurare una mitica governabilità evitando la troppo breve durata dei Governi. È un’invenzione che non ha retto alla prova della realtà: è la litigiosità delle coalizioni – formate prima o dopo le elezioni – che ha continuato a rendere deboli i governi e breve la loro durata.

Quel che è mancato, allora, è altro. In Italia i governi sono deboli perché debole è la loro capacità di elaborare coerenti strategie e solidi programmi politici e ideali. Per questo un sistema elettorale proporzionale appare il più idoneo anche per cercare di ottenere il risultato di una maggiore stabilità dell’intera forma di governo.

Un sistema proporzionale è condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per dare la possibilità ai conflitti che attraversano la società di trovare una rappresentanza reale in Parlamento. È poi al Parlamento che compete ‒ per Costituzione e per storia ‒ il compito di definire il compromesso politico e sociale tra forze realmente rappresentative, conferire la fiducia al governo, dare vita a un indirizzo politico condiviso ed espressione della sovranità popolare.

Sappiamo bene che il sistema elettorale non basta e che è necessario un rinnovamento profondo delle forze politiche in direzione delle persone e non del Palazzo, ma senza la sua adozione viene meno anche la speranza del cambiamento.
Per questo occorre aprire nel Paese un’ampia mobilitazione in favore di una riforma del sistema elettorale in senso autenticamente proporzionale.

No Comments

Post a Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.