PER UN’ANTROPOLOGIA DELLA CULTURA DI DESTRA da IL MANIFESTO e IL FATTO
Per un’antropologia della cultura di destra
NOVECENTO. Il nuovo saggio di Francesco Germinario per ombre corte. Nella critica agli intellettuali, a partire dal 1789, le radici di una Kulturkampf che continua anche oggi. Al centro dell’analisi, il nebuloso territorio che costituisce il luogo di incontro, e scontro, tra la concezione illuministica del sapere e la militanza reazionaria. Una costruzione ideologica che ha realizzato la propria sopravvivenza nel tempo trasformandosi da idea dell’autoconservazione dei pochi a richiamo per i tanti che si sentono smarriti
Claudio Vercelli 09/08/2023
Senz’altro tra i maggiori conoscitori sia del pensiero come anche dell’antropologia culturale della destra radicale, in Italia al pari dell’Europa, Francesco Germinario, studioso di filosofia politica così come di storia contemporanea, ha al suo attivo una produzione bibliografica invidiabile. Non solo, si intende, per il numero di testi che ha licenziato nel tempo ma anche, e soprattutto, per la loro qualità. Fa specie che l’accademia italiana non abbia saputo raccogliere il lavoro certosino dello studioso. Tutto ciò, in fondo, non sorprende. Tuttavia, tanto per capirci, il punto non è questo, rimandando semmai alla qualità delle sue ricerche. Delle quali possiamo ancora parlare, peraltro, poiché l’autore ha dato recentemente alle stampe un altro libro, “Gente malfida”. La critica agli intellettuali nella cultura di destra (1789-1925), (ombre corte, pp. 127, euro 13) che, in qualche modo, raccoglie molte delle indicazioni già emerse nelle precedenti opere. Andiamo quindi per singoli passi, affinché ci si possa intendere sull’imprescindibilità della ricerca di Germinario. La quale va ben oltre il trascinarsi di una certa pedagogia antirazzista che, a conti fatti, ad oggi sconta molti dei suoi limiti oggettivi. I campi di applicazione dell’autore sono infatti molteplici. La loro delimitazione, tuttavia, è data dai mutevoli confini dettati dalla destra illiberale, reazionaria e antidemocratica in età contemporanea. A partire dal rigetto dei processi rivoluzionari.
DA QUESTO PUNTO di vista, le sue riflessioni (che comprendono la lunga traiettoria che, dall’Ottocento, ovvero dalla controrivoluzione francese, passando per il sindacalismo rivoluzionario, portano agli anni a noi più prossimi, e non solo ad essi) richiamano ripetutamente i costrutti ideologici che sorreggono l’antisemitismo moderno, le culture della destra eversiva (mai liquidate da Germinario con una loro facile banalizzazione), i quadri intellettuali che fanno da architrave di un pensiero al medesimo tempo reazionario (quindi regressivo) e sociale, cioè rivolto alle collettività nazionali in quanto tali. In questo complesso calderone ricadono, quanto meno per estensione, anche i figliocci dell’ultimo Movimento sociale italiano, ossia del partito legale del neofascismo peninsulare (così in Da Salò al governo. Immaginario e cultura politica della destra italiana, Bollati Boringhieri, 2005).
IL PUNTO DI SUTURA tra i diversi passaggi, nella ricerca dello studioso, è quel nebuloso territorio che costituisce il luogo di incontro, e scontro, tra intelligenza e azione. Ovvero, tra intellettualità intesa illuministicamente come professione di un esercizio tanto speculativo quanto emancipatorio (se non si pensa bene non si potrà agire altrettanto correttamente) e militanza reazionaria (l’aggregazione di individui convinti che la propria collocazione e sicurezza sociale riposi nel ritorno alle gerarchie dell’Ancien Régime). Non a caso, del suo percorso la destra non ha mai avversato gli «ordini», ossia le unioni ossidate di omologhi, di compartecipi, di sodali. Anzi, semmai di ciò si è fatta scudo per promuovere, dalla Rivoluzione francese in poi, la necessità di restaurare un sistema di relazioni naturali (ossia corrispondenti a quanto confusamente intendiamo con il nome di «natura», ovvero tutto ciò che non costituirebbe un prodotto sociale) che è solo la pietosa mimetizzazione delle diseguaglianze che gli uomini costruiscono nel tempo, per poi giustificarle secondo criteri metafisici. Quindi, consegnandole ad un’epoca senza storia.
CIÒ CHE EMERGE dalle ricerche di Germinario è soprattutto il riscontro che le destre illiberali, antidemocratiche, nativiste, suprematiste e restaurazioniste hanno, come comune denominatore, l’orrore per il riscontro che il transitare del tempo si dà, invece, non come scorrimento circolare bensì – soprattutto – in quanto processo di mutamento. Si tratta, in quest’ultimo caso, di una questione strategica: vogliamo credere nell’umanità come aggregato destinato a rimanere sempre uguale a sé, diviso in ceppi immodificabili, oppure – invece – nel suo essere prodotto di una serie di mutamenti che si verificano nel tempo? La polemica anti-intellettuale della destra radicale si inserisce, a pieno titolo, dentro questa logica di scorrimento delle passioni collettive. Intercettando malumori, angosce come anche vane speranze che nessuna illusione di «modernità» potrà mai risolvere in sé.
Poiché nei libri di Germinario ciò che ricorre non è solo la denuncia della polemica reazionaria contro lo spirito dei tempi correnti quanto l’analisi della sua capacità di attrarre, dare un senso ed organizzare, nel passato così come nel presente, il disagio dei molti. In questo quadro ermeneutico e cognitivo, incredibilmente complesso ,si inseriscono anche le molteplici riflessioni dell’autore sull’avversione contro il «fantasma» degli ebrei (ad esempio, Costruire la razza nemica. La formazione dell’immaginario antisemita tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, Utet, 2010, cosi come Antisemitismo. Un’ideologia del Novecento, Jaca Book, 2013, ed ancora L’antisemitismo come teoria politica rivoluzionaria, Edizioni Una città, 2020; Una cultura della catastrofe. Materiali per un’interpretazione dell’antisemitismo, Asterios, 2020; Dalla razza biologica alla razza culturale. L’antisemitismo contemporaneo, Asterios, 2020).
Poiché Germinario ci parla di «essenze», ossia di quelle finzioni per le quali molti credono che esista un qualcosa che, per il fatto stesso di essere nominato, assuma una fisionomia materiale, ancorché nel riscontro dei dati di fatto, del tutto fittizia. La fisionomia, per capirci, della minaccia. L’antisemitismo diventa allora un banco di prova di tutto quel che è inteso come disagio della modernità al pari di un propellente per la politica reazionaria (Fascismo e antisemitismo. Progetto razziale e ideologia totalitaria, Laterza, 2009 così come Argomenti per lo sterminio. L’antisemitismo e i suoi stereotipi nella cultura europea (1850-1920), Einaudi, 2011).
L’insieme del lavoro dello studioso, infatti, è un complesso impegno per restituirci l’intelaiatura di una storia culturale che non si risolva esclusivamente in quella dei cosiddetti «vincitori», tralasciando tuttavia le facile retoriche sui «vinti» (a tale riguardo si veda L’altra memoria. L’estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollari Boringhieri, 1999). Aderendo agli scavi dello storico che è anche antropologo del pensiero, l’essere di destra, in questo caso, non coincide quindi in alcun modo con una postura occasionale bensì in un profondo, complesso ed articolato atteggiamento, di lungo periodo. Che, in quanto tale, risponde agli stravolgimenti dell’età industriale.
Per non scomparire dall’orizzonte, la destra ha dovuto trovare un terreno di mediazione, che gli garantisse la sopravvivenza nel tempo trasformandosi da pensiero di autoconservazione dei pochi a richiamo per i tanti smarriti. Lo ha trovato in un impianto mitografico che, alcuni decenni fa, poteva ancora sembrare residuale mentre oggi, in quanto terreno di coltura della rivincita, fatto proprio da una società delusa e disposta in senso illiberale, reazionario e quindi populista, risulta invece elettoralmente premiante (Tradizione, Mito, Storia. La cultura politica della destra radicale e i suoi teorici, Carocci, 2014).
LA POLEMICA contro gli intellettuali alla quale fa riferimento il suo ultimo volume, si inscrive in questa agenda, non solo politica ma soprattutto culturale. Come tale, l’avvertenza di Germinario è quella che ci ammonisce sul fatto che si debba avere consapevolezza del fatto che tutta la destra radicale, da circa duecento anni almeno, stia portando avanti un Kulturkampf complesso. Come tale, da prendersi sul serio, in quanto sfida per nulla occasionale. Non solo politica bensì intellettuale se non addirittura cognitiva. Tale in quanto chiama in causa le categorie con le quali si interpreta il tempo corrente. Poiché sposta l’asse della discussione collettiva dal governo del mutamento (quindi dall’intervento nei processi di accumulazione delle ricchezze, così come in quelli che rimandano alla loro redistribuzione sociale) alla lotta senza quartiere tra entità statiche, le «razze», che risolvono una volta per sempre il conflitto tra capitale e lavoro in una guerra etno-nazionalista. La tentazione persistente è ancora una volta quella di intendere le destre radicali come una sorta di residuo del passato. Non è così. Semmai sono residuali quanti ragionano in tali termini.
La retorica anti-Rdc è guerra di classe
100 ANNI DI PROPAGANDA MESCHINA – La strategia del governo è evidente: disciplinare il lavoro e favorire il capitale. Ma l’idea che non farcela sia una colpa morale riesce a controllare le persone anche meglio…
CLARA MATTEI 9 AGOSTO 2023
Lo Stato italiano e i suoi rappresentanti stanno operando una feroce guerra di classe contro i propri cittadini. Bisogna dirlo forte e chiaro, e bisogna dirlo in molti, per smascherare la profonda meschinità della narrativa dominante che non fa altro che nascondere come funziona la nostra economia.
Invece di puntare il dito contro i cosiddetti fannulloni che sino ad ora hanno preso il Reddito di cittadinanza, puntiamo piuttosto il dito su coloro che vivono di ricchezza accumulata, ovvero coloro che il capitalismo dell’austerità continua a favorire. I dati sono eclatanti e incontrovertibili. Il rapporto Oxfam mostra che in Italia lo 0,1% più ricco detiene una ricchezza pari al 60% più povero. Se negli ultimi 10 anni il numero dei minori in povertà assoluta è triplicato (quasi uno su 7), in quegli stessi anni il numero di miliardari è sestuplicato, raggiungendo il numero di 64, con in testa Giovanni Ferrero che detiene un patrimonio di quasi 40 miliardi di dollari.
Diciamolo forte e chiaro: l’idea che si debbano tagliare i sussidi alle famiglie povere perché si tratta di un danno all’erario che costa troppo allo Stato è pura falsità. Come tutti i lettori di questo giornale sanno bene, i soldi ci sono eccome, ma solo per le persone “giuste”. Le briciole risparmiate dalla falcidia del reddito di cittadinanza (attorno a un miliardo di euro), scompaiono nell’abisso della nostra smisurata spesa militare e nei soldi che il fisco non vede mai perché lo Stato ha smesso di tassare i grandi redditi, le eredità e le corporations. Vorrei ricordare a tutti che nel 1974 vi erano 32 aliquote, e l’ultimo scaglione a partire dall’equivalente di 258 mila euro pagava il 72% di tasse, oggi di aliquote ne abbiamo 4 (e presto tre secondo la delega fiscale) e tutti quelli sopra i 50 mila euro pagano il 43% di tasse. Mentre ci curiamo in ospedali fatiscenti, studiamo in classi pollaio e facciamo file chilometriche per rinnovare la carta d’identità, i forzieri di Leonardo, produttore di armi, traboccano dei soldi nelle nostre tasse.
La preoccupazione per il pareggio di bilancio e i danni all’erario sono soltanto pretesti per un obiettivo molto più importante: mantenere saldo il rapporto di forza tra capitale e lavoro, tutto a favore del primo. La fine del reddito di cittadinanza e il diniego del salario minimo rendono evidente che la preoccupazione principale del nostro governo dell’austerità è quella di mantenere alto il tasso di sfruttamento nel nostro Paese. Togliere i sussidi, infatti, ci rende più propensi alla coercizione economica tipica del capitalismo: quella di vendere la nostra capacità di lavorare per un bassissimo salario al fine di assicurarci la sopravvivenza. Con la cancellazione del Reddito di cittadinanza, vedremo presto moltiplicarsi il numero delle famiglie in povertà assoluta (che sono ora più di un milione), ma vedremo anche ingrossare l’esercito di persone in competizione per lavori da fame. D’altra parte, come ha spiegato lo stesso presidente di Confindustria, il sussidio faceva concorrenza ai salari di mercato.
Dall’alto dei loro privilegi gran parte dei nostri parlamentari descrivono un mondo fiabesco, in cui chiunque potrebbe trovare un lavoro ben pagato se solo smettesse di scaldare il divano. Ebbene, non potrebbe esserci una visione più falsa. Nel suo istruttivo libro Le Grandi Dimissioni (Einaudi 2022), Francesca Coin provvede a un bagno di realtà con un documentatissimo affresco delle condizioni di lavoro del Belpaese: una normalità lavorativa segnata dalla precarietà, dall’insicurezza e dall’insoddisfazione, nella quale il desiderio di cambiare è scoraggiato esclusivamente dalla paura di non trovare un altro posto. Tanto più che siamo agli ultimi posti in Europa per retribuzioni: per Eurostat, i salari lordi medi dei 10 contratti nazionali dei lavori meno pagati sono a 7,79 euro l’ora, che poi sono decurtati del 30% tra imposte fiscali e contributi previdenziali. Anche i dati Istat parlano chiaro: “Nel 2022, il 20,1% delle persone residenti in Italia risulta a rischio di povertà (circa 11 milioni e 800mila individui) avendo avuto, nell’anno precedente l’indagine, un reddito netto inferiore al 60% di quello mediano (11.155 euro)”.
La fiaba del “basta impegnarsi” non è certo solo l’inganno dei nostri governanti del momento: in realtà è la radice ideologica stessa dei modelli economici che guidano le politiche pubbliche da quasi cent’anni. Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx studiavano il capitalismo tramite la lente della classe e del conflitto tra le classi. A sostituirla è arrivato uno sguardo che ha espulso il concetto stesso di capitalismo (per non parlare di quello di classe), riducendo tutta la realtà sociale a una complessa interazione tra “individui” in armonia, in cui il motore della crescita non è il lavoratore ma l’imprenditore. Mentre il paradigma precedente teorizzava il lavoro come fonte del profitto e interpretava lo sfruttamento come trappola strutturale del capitalismo, gli economisti ortodossi dipingono i rapporti lavorativi come scambi alla pari tra individui alla pari, una strada verso la prosperità per tutti coloro che giocano bene le proprie carte nel libero mercato. Questi economisti hanno spacciato la società di mercato come un luogo in cui tutti, se sufficientemente razionali e virtuosi, possono prosperare. Una tale visione apparentemente emancipatoria è di fatto tra le più classiste, poiché presuppone che le gerarchie sociali siano il riflesso del merito: i ricchi hanno diritto ai loro privilegi, i poveri meritano di esserlo. E così i profitti dei risparmiatori-imprenditori sono il prodotto della loro virtù, che ne determina la capacità di firmare le buste paga degli operai e di “mandare avanti” l’economia. Nessun’arma potrebbe essere altrettanto potente di questo approccio teorico nel privare i lavoratori di consapevolezza del loro potere e nel giustificare la crescita illimitata del profitto privato. Il messaggio è talmente persuasivo che per anni quasi tutti lo abbiamo interiorizzato: se ci sforziamo abbastanza, ognuno di noi può diventare ricco, chi non “fattura” può biasimare soltanto se stesso!
Eppure: quanto può durare la capacità persuasiva di questa fiaba, soprattutto se ci guardiamo in giro e capiamo che l’ascesa sociale è un miraggio lontano? Certamente, la mancanza di serie proteste dopo i fatidici sms dell’Inps è sintomatico del “successo” dell’austerità nel creare senso di vergogna e silenziare le classi lavoratrici. Ma i tempi potrebbero sempre cambiare e magari stanno già cambiando. Come ci racconta Coin, non soltanto negli Usa, ma anche in Italia molti lavoratori decidono di dimettersi: nel terzo trimestre del 2022 il 3,2% di loro ha lasciato volontariamente il posto. Si tratta di una forte protesta, non ancora organizzata, ai rapporti di sfruttamento imperante, stimolata forse anche dall’esistenza di un reddito di cittadinanza. Le classi dirigenti sono, però, sempre all’erta contro fenomeni che possano mettere in pericolo lo sfruttamento come base della crescita economica: è proprio nei momenti di possibile contestazione che l’austerità fa capolino per disciplinare la gente comune. Eliminare qualsiasi “intralcio”, dal salario minimo ai sussidi, che rischi di abbassare l’asticella dello sfruttamento va poi a braccetto con le politiche monetarie della Bce: l’aumento senza sosta dei tassi di interesse del denaro, si sa, tende a far crescere la disoccupazione, a soffocare così la capacità contrattuale dei lavoratori e a costringerli a chinare il capo. È il momento di vedere queste politiche economiche per quello che sono: una spietata guerra dei pochi contro i molti che va fermata.
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