PER CONTRASTARE TRUMP, SERVE PENSARE LA FINE DEL CAPITALISMO da IL FATTO e ANTIDIPLOMATICO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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PER CONTRASTARE TRUMP, SERVE PENSARE LA FINE DEL CAPITALISMO da IL FATTO e ANTIDIPLOMATICO

Per contrastare Trump, serve pensare la fine del capitalismo

Paolo Cacciari  8 Aprile 2025

Sembra incredibile, noi critici della globalizzazione neoliberista (movimenti sociali, sindacati, politici della sinistra) arriviamo impreparati e afoni nel momento preciso in cui si avvera ciò che avevamo previsto. Vediamo in dettaglio questi accadimenti.

1. La liberalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali ha esasperato gli scompensi non solo tra le bilance commerciali degli Stati, ma nella divisione internazionale del lavoro. E ora assistiamo alla incredibile immagine di Trump che difende l’“economia reale” accompagnato da un operaio e sorretto dai sindacati industriali nazionali!

2. La droga della leva finanziaria utilizzata per assicurare alte rendite e rendimenti azionari doveva prima o poi esaurirsi. E oggi le Borse, giustamente, si sgonfiano. Chi se ne importa – sembra dire il tycoon d’oltreoceano – degli umori dei mercati azionari: i lupi di Wall Street tornino a lavorare! Non sono gli indici delle Borse, ma occupazione e salari ciò che conta.

3. Anche il debito pubblico Usa di 36 mila miliardi di dollari (raddoppiato in 10 anni) non poteva più reggere. Lo paghino i paesi friendly in cambio della “protezione” militare e i paesi creditori in cambio di obbligazioni centenarie (dette “matusalemme”) emesse dalla Federal Reserve. I rendimenti dei capitali possono attendere; il lungotermismo (longtermism), è eticamente giusto e stabilizzante. In realtà lo spregiudicato presidente scommette sul fatto che gli Stati Uniti non sono ancora sfidabili per poter fallire senza tirarsi dietro tutti i suoi creditori. La Cina è pronta a rinunciare ai titoli di Stato americani che ha nei forzieri? India, Emirati arabi, Sud Africa e Brics vari possono permettersi di rinunciare agli scambi commerciali con gli Stati Uniti? L’Europa in che squadra gioca?

4. La crescita industriale sfrenata sta provocando danni ambientali enormi, fino a pregiudicare le stesse condizioni di abitabilità di intere regioni del pianeta. Di fronte a ciò le varie timide, contraddittorie versioni del green deal fin qui pensate dai governi progressisti sono davvero “ridiculous”, per usare un’espressione di Trump. Poco più che fumo negli occhi, incapaci di competere con un apparato industriale (a partire da quello high tech) famelico di energia. Non saranno le Fer (fonti energetiche rinnovabili) a fermare un modello di crescita insostenibile. Senza una completa “green society” (copyright Aldo Bonomi) non ci sarà salvezza per il pianeta. Se gli scambi internazionali calano sarà un bene per la biosfera, come lo è stato il Covid.

5. Infine, la guerra. La posta in gioco è l’accaparramento delle risorse; quelle da comprare (Ucraina, Groenlandia… Africa) e quelle che rimangono ancora da colonizzare: spazio extra-atmosferico, fondali marini profondi, genomi vegetali e animali, mente e comportamenti umani. Trump ha dissotterrato lo spirito selvaggio originario, mercantile, predatorio del capitalismo sciovinista, suprematista, neocoloniale.

Possiamo ancora pensare di poter andare a patti con tale visione del mondo? O, peggio, di voler competere con questi “neofeudatari” (Varoufakis) sul loro terreno di gioco preferito: competizione e crescita dei margini di profitto oligopolistici; moltiplicazione delle merci prodotte e consumate; accumulazione di capitali e loro sempre maggiore remunerazione? È tempo di pensare che la fine del capitalismo (e delle sue presunte comodità) sia meno rischiosa della terza guerra mondiale verso cui stiamo andando incontro.

Loretta Napoleoni – La fine del mercantilismo e il nuovo sistema economico che ha in mente Trump

 Loretta Napoleoni  07/04/2025
Liberation Day ha innescato una spirale verso il basso degli indici di borsa mondiale e dato alito a migliaia di economisti, un coro che canta all’unisono. Molti si sono forgiati durante la globalizzazione sotto l’ombrello del neoliberismo ed è quindi logico vedere scatenarsi da parte loro una rivolta di parole contro l’attacco diretto a questo sistema. Ma mettiamo da parte per un momento le loro critiche e concentriamoci sui fatti.

Il crollo dei mercati azionari è determinato dalla paura che il giocattolo si rompa, che gli equilibri commerciali, finanziari e geopolitici cessino di esistere. Ciò significa che a tutti stavano bene, eppure le lamentele nazionali ed internazionali sono state e continuano ad essere molte. Anche le crisi che questo sistema ci ha regalato hanno prodotto pene e sofferenze, in primis l’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, l’avvento dell’oligarchia tecnologica fino al l’inflazione attuale per non parlare della proliferazione delle guerre, tutte naturalmente in luoghi lontani fatta eccezione delle ultime due in Ucraina ed a Gaza. Non è dunque possibile prendere in prestito la frase storica di Wiston Churchill ed affermare che “la globalizzazione è un sistema imperfetto ma è quello migliore che abbiamo”.

Ciò che questi giorni di fuoco e fiamme ci hanno fatto capire è che la globalizzazione altro non è stata che un sistema di mercantilismo travestito da libero mercato che ha scatenato l’avvento o meglio, il ritorno, dell’economia canaglia. E vediamo perchè.

Il crollo degli indici di borsa confermano che l’economia americana era ed è il mercato di sbocco principale, di gran lunga il più significativo al mondo. Il sistema di interdipendenze della catena di produzione della globalizzazione è stato costruito e strutturato per approvvigionare il mercato americano, vedi la produzione della Apple avvenuta a prezzi stracciati in Cina grazie al mercato del lavoro cinese. Grazie all’offshoring ed all’outsourcing i prodotti americani, e susseguentemente anche quelli degli altri paesi industrializzati, sono stati assemblati in Cina ed in altri mercati dove il costo del lavoro era basso e non esisteva una legislazione che garantiva i diritti dei lavoratori, per essere poi venduti a basso prezzo in America e negli altri paesi ricchi. Il crollo dei costi di trasporto e l’abbattimento delle tariffe e barriere doganali ha contribuito al successo di questo sistema.

Si è così creato un circolo simile a quello classico del mercantilismo dove le imprese americane erano in grado di produrre nelle periferie dell’impero economico a prezzi stracciati prodotti che poi rivendevano in a casa propria e nel resto del mondo e così facendo intascavano ingenti profitti. Simile perchè la dipendenza della periferia da questi prodotti era minima per un semplice motivo, non avevano i soldi per acquistarli. Ma man mano che la globalizzazione ha creato ricchezza, però, anche la periferia ha iniziato a domandare tali prodotti.

Il mercato dei falsi è nato così, dalle borse di Gucci fino agli Iphone, la periferia è stata inglobata nel sistema. Questo fenomeno dura da almeno tre decadi ed è stato fonte di ricchezza per il centro dell’impero e per la periferia. Come nel mercantilismo classico, però, questo sistema ha alimentato le diseguaglianze, diseguaglianze relazionate al fatto che il polo produttivo, e cioè le imprese che gestiscono il sistema produttivo sono ubicate negli Stati Uniti e negli altri paesi ricchi. Chi le guida, come l’oligarchia tecnologica, ha potuto godere di un vantaggio comparato mantenuto nel tempo anche grazie alla neutralizzazione della concorrenza straniera. E questo spiega perchè paesi come il Vietnam non hanno mai prodotto il loro smart phone o le loro chip. 

Sulla carta e per le borse questo sistema è stato una manna dal cielo. Le magnifiche sette, le sette imprese dell’oligarchia tecnologica hanno sostenuto gli indici di borsa ed agito come un’aspirapolvere dei risparmi globali; tutti i fondi di investimento posseggono enormi pacchetti azionari e per anni hanno scremato la ricchezza creata dall’ascesa dei loro valori distribuendola ai fortunati che potevano permettersi di investire i loro risparmi.  Inizialmente anche chi non apparteneva a questa categoria ne ha goduto, i prezzi di molti prodotti high-tech sono infatti scesi, ma ad un certo punto, ed inevitabilmente, le cose sono cambiate.

Gli Stati Uniti da paese manifatturiero ed agricolo è diventato un esportatore netto di servizi ed un importatore netto di beni di consumo. Una transizione che ha necessariamente meso fuori gioco la classe operaia americana, ormai inutile per il sistema di produzione globalizzato. L’ingresso della tecnologia nel settore dei servizi ha poi sferrato un duro colpo anche ai colletti bianchi, molti dei quali si sono visti escludere dalla classe media. La gig economy, corollario di questo cambiamento, si è nutrita nei paesi ricchi di una vasta forza lavoro ormai disorientata.

A questo punto, il cerchio virtuoso della globalizzazione si è rotto.

Non sappiamo se Trump la pensa così, sappiamo che è sempre stato un vocifero oppositore della globalizzazione, ma forse solo perchè il suo è un mondo immobiliare chiuso tra due oceani – quando si e’ avventurato fuori le cose sono andate male. Sappiamo però che è stato eletto per cambiare il sistema, che chi ha votato per lui era profondamente insoddisfatto a causa dell’impoverimento verificatosi durante la globalizzazione. Che l’imposizione delle tariffe sia una mossa per mantenere il consenso all’interno di questo elettorato? Difficile crederci dal momento che la rottura del giocattolo creerà caos, possibilmente una recessione ed una ristrutturazione dell’ordine geopolitico di lunga durata, quindi fenomeni impopolari.

Piuttosto, e questa è una supposizione, Donald Trump vuole creare un nuovo sistema economico e lo vuole fare e completare in quattro anni, la durata del suo mandato. Questo sistema dovrebbe produrre per gli Stati Uniti altri vent’anni di vantaggi simili a quelli che la globalizzazione ha regalato alle sue oligarchie e la leva è il settore tecnologico, una leva che oggi funziona benissimo ma che tra qualche anno potrebbe non essere così dal momento che paesi come la Cina stanno recuperando velocemente lo svantaggio iniziale. Il tempismo è dunque cruciale.

E’ probabile che dopo le negoziazioni delle prossime settimane con i singoli paesi la tariffa del 10 per cento rimarrà a livello globale. Con quelle entrate Trump conta di ridurre le tasse. Le tariffe costringeranno l’oligarchia tecnologica a riportare in patria l’assemblamento dei prodotti, rimettendo in moto il sistema produttivo americano, e chi pagherà saranno gli azionisti, ma gli indici di borsa si possono permettere un taglio ben maggiore di quello attuale. Tutti coloro che hanno investito subiranno perdite ma chi ha mezzo milione, un milione di dollari o molto di più investiti, ad esempio in Nvidia o in borsa pagherà un prezzo maggiore di chi ne ha solo 50 mila. Se così fosse si scremerebbe una buona parte della ricchezza dai più ricchi, certo è poca cosa di fronte alla magnitudine delle diseguaglianze, ma è pur sempre qualcosa da offrire all’elettorato trumpiano.

La variabile imprevedibile sono i mercati finanziari e l’indicatore da seguire sono i titoli di stato statunitensi, barometro della fiducia del mercato nella politica americana. Venerdì c’era molta domanda e molta calma sul mercato delle obbligazioni di stato mentre sul mercato azionario imperversava l’uragano. Fintantoché la domanda mondiale del debito pubblico statunitense rimane stabile, la ristrutturazione in corso potrebbe funzionare ed aprire un ventaglio di scenari possibili, alcuni anche apocalittici, per l’Europa e per il resto del mondo. Ne sapremo di più la settimana prossima e quella ancora dopo.   

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