“NEL NOME DELLA MADRE” da IL MANIFESTO
Quelle terre desolate dalla dimenticanza
POESIA. «Nel nome della madre», di Aimara Garlaschelli per Einaudi. Quasi una preghiera laica verso chi vive sul proprio corpo le miserie del nostro tempo, spesso morendone. Un poemetto la cui ambizione sembra quella di contenere «tutto», intendendo la vita che si esprime nell’incanto come nella disperazione, nei suoi tagli di luce e di buio
Niccolò Nisivoccia 27/12/2022
Sono le loro le voci del nostro tempo: sono le voci di tutti gli uomini e di tutte le donne, e dei loro figli, che attraversano le terre e poi i mari in cerca di altre terre, diverse da quelle da cui provengono, e di altri orizzonti. Nessuna parola potrebbe raccontare più della loro il tempo in cui viviamo, il suo enorme squallore; e niente lo rappresenta, nella sua impermanenza e nella sua fragilità, quanto lo rappresentano i loro corpi, naufraghi in mezzo al mare o stesi sulle rive – com’era steso su una spiaggia di Bodrum, in Turchia il corpo morto di Alan Kurdî, che aveva solo tre anni. Era il 2015, e lo ricordiamo bene; eppure ce ne siamo anche dimenticati, ce ne dimentichiamo tutti i giorni.
SI TRATTA DI DARE UNA VOCE, allora, a queste voci e a questi corpi; di dargliene più di quanta non gliene diamo, perché gliene diamo troppo poca. Si tratta di rinnovare il senso della vita giorno dopo giorno, e di darvi un senso nuovo. Si tratta di trasformare i simboli in storie concrete, incarnate, e di restituire a ciascuna voce, a ciascun corpo, un nome e un cognome oltre che un volto. Deve farlo la politica, in primo luogo, e questo è certo; ma devono farlo anche l’arte e la letteratura, alle quali non meno che alla politica spetta il compito di interpretare la realtà e di provare a trasformarla, anche attraverso l’utopia. Come ha fatto ora Aimara Garlaschelli in un breve ma densissimo poemetto, Nel nome della madre, edito recentemente da Einaudi (pp. 42, euro 8).
Era reduce da poco dalla traduzione della Terra desolata di T. S. Eliot, Aimara Garlaschelli, e non è un caso – se è vero, come sottolinea la stessa quarta di copertina, che La terra desolata qui risuona e risulta evocata non solo nella struttura formale, quanto soprattutto nelle intenzioni da cui l’opera sembra mossa; se è vero, cioè, che l’evocazione non deriva solo dal fatto che identico è il numero complessivo dei versi, ma anche da una comune aspirazione a «contenere tutto» (come nota appunto la quarta di copertina). Sì: Nel nome del madre è un’opera la cui ambizione sembra in effetti quella di contenere «tutto», se per «tutto» intendiamo la vita che si esprime nell’incanto come nella disperazione, nei suoi tagli di luce come in quelli di buio, nel pianto di gioia come in quello di morte. Il «dolce ricordo del seno», il «fiorire dell’iride/ al buio, dopo il pianto», le «nuvole leggere/ a salire e velare la valle», i «cieli dipinti/ con costellazioni di fiori», l’acqua del mare come acqua maternale: sono questi gli incanti, i tagli di luce, i pianti di gioia.
MA SOTTO questi stessi cieli vediamo anche la vita che s’infrange nella «furia impetuosa delle correnti», come «gli scafi rovesciati tra le onde»; le madri perdere i figli, «oltrepassata la soglia del tempo» (perché il tempo perde il proprio senso, quando i figli non sopravvivano alle madri); il futuro trasformarsi semplicemente in sogno mancato, non realizzato. Sotto uno stesso cielo accadono ossimori, per quanto possiamo pensare che non ci riguardino, e la vita e la morte si contraddicono di continuo.
Sembra quasi una preghiera laica, Nel nome della madre, nella quale il Tu cui i versi si rivolgono non è un Dio collocato in un altrove, bensì è l’insieme di tutti coloro che ora e qui vivono sul proprio corpo le miserie del nostro tempo, spesso morendone; e nella quale l’Io, a sua volta, dovrebbe corrispondere all’Io di tutti noi – se solo fossimo capaci di rendere più onore ai sogni e agli incanti, e se solo sapessimo riconoscere il dolore degli Altri, anche quando è lontano dai nostri occhi e dalle nostre orecchie. E se solo fossimo capaci di ascoltarlo, e di accoglierlo.
FORSE È QUESTO che vuol dire Aimara Garlaschelli quando, in alcuni versi decisivi del suo poemetto, scrive: «Se tu non sai dove sei/ io dovrei esserti casa/ assegnare un tempo e un luogo/ perché l’esserci sia vero/ ma dove sono, ogni cosa è Uno». Essere casa gli uni per gli altri, dentro uno stesso tempo: è come se parlasse a nome di tutti, Nel nome della madre, e come se a nome di tutti volesse chiedere perdono per tutto ciò di cui ancora non siamo stati né siamo capaci – e chissà se mai lo saremo.
No Comments