MELONI E CALENDA, IL NEMICO È SOLO NEL CENTROSINISTRA da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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MELONI E CALENDA, IL NEMICO È SOLO NEL CENTROSINISTRA da IL MANIFESTO

Meloni e Calenda, il nemico è solo nel centrosinistra

Roma Congresso di Azione, la premier attacca Schlein e il padrone di casa si scaglia contro i 5S

Luciana Cimino  30/03/2025

Quando si prova a mettere a proprio agio qualcuno, può essere comodo trovare un nemico in comune di cui sparlare. Questo deve aver pensato Carlo Calenda quando ha ricevuto la conferma della partecipazione della premier Meloni al congresso del suo partito, Azione, a Roma. Ieri il tema è stato la chiamata alle armi (la scarna scenografia ha messo in risalto le bandiere di Ucraina, Georgia, Ue) e Calenda ha voluto offrire alla stampa la sua coalizione dei volenterosi: Pina Picierno, Mario Monti, Paolo Gentiloni, il ministro della Difesa Crosetto, il responsabile organizzazione di FdI Donzelli seduti in prima fila, accolti da Matteo Richetti.

GLI ATTACCHI ai «pacifinti» (un’espressione del leader di Azione mutuata dal lessico della destra) erano attesi ma Calenda, tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte, ha scelto di inveire solo contro il secondo per non mettere in difficoltà la presidente del Consiglio. Cortesie per gli ospiti, soprattutto per quella grazie alla quale ha avuto la massiccia copertura dei media che dal primo mattino affollavano la piccola sala del Rome Life Hotel. Come spesso si fa in questi casi, gli organizzatori avevano preso uno spazio di dimensioni modeste per dare l’effetto pienone.

Ma l’operazione non è del tutto riuscita: i pass della stampa, gialli, erano in evidente soprannumero rispetto a quelli rossi dei delegati e ai pochissimi verdi degli iscritti. Quando la premier (scortata dal suo braccio destro Patrizia Scurti) in tutta fretta e senza sottoporsi ad alcuna domanda dei giornalisti come d’abitudine, ha lasciato l’hotel, ed è toccato quindi a Crosetto intervenire dal palco, la sala ormai era mezza vuota. Ma non importa: la scena di amorosa reciprocità di intenti tra Azione, formalmente all’opposizione, e il governo era già andata in onda. Il discorso dell’ex ministro degli esecutivi Renzi e Gentiloni e quello di Meloni sono stati conformi nello stile e quasi sovrapponibili nei contenuti.

Entrambi sono stati costretti a cominciare giustificandosi di aver mandato l’invito, il primo, e di averlo accettato, la seconda. Così come entrambi sono stati costretti ad abusare della parola «confronto» e a dipingersi nel ruolo di geni incompresi. Se lui va a braccetto con Fdi la colpa è degli alleati: «Non stiamo nel campo largo perché c’è un problema con il Movimento 5S: l’unico modo per averci a che fare è cancellarlo». Se lei è travolta dalla polemiche è perché «l’opposizione è ideologizzata». «Sono contento di avere la presidente del Consiglio perché difendere l’Ucraina, stando al governo non è una cosa né popolare né facile e io voglio riconoscerla», esordisce Calenda. «Ad Azione voglio riconoscere la capacità di essere una forza politica che si confronta nel merito delle cose, che non ha paura di condividere le soluzioni, di metterle a disposizione degli altri e della nazione», risponde lei.

CALENDA, ogni volta che deve esprimere un concetto, premette: «Sono liberale, nessuno più di me» e «sono atlantista, nessuno più di me». La seconda si rifugia nel repertorio di smorfie e battute (la più efficace al padrone di casa: «Ho letto che vengo qui per una scorribanda tra i moderati, ma dopo l’intervento di Carlo porterò io un po’ di moderazione»), prima che un lungo elenco di presunti traguardi della sua legislatura tramortisca la platea. Gli argomenti in cui le posizioni sono comuni sono molti: riforma della giustizia, avversione al green deal, ritorno al nucleare, gestione dei servizi idrici. Sui pochi che li dividono, come le politiche di Trump, il padrone di casa non ha nessuna critica, solo consigli affettuosi: «Se fossi Meloni cercherei di stare aggrappata agli Usa». Meloni si premura di specificare che l’interpretazione data dai giornali alla sua intervista al Financial Times in cui si diceva d’accordo con le parole sugli europei del vicepresidente Usa JD Vance è errata.

MENTRE CORRETTA è quella della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen che ringrazia «per aver ribadito la mia posizione». Poi attacca la segretaria dem: «Schlein dice che gli Stati Uniti non possono essere nostri alleati, vuole che «l’Europa diventi una grande comunità hippie demilitarizzata». «Il bipolarismo non è un destino», commenta soddisfatto Calenda. Nel foyer i delegati sono confusi tra esaltazione e cautela. Nessuno vuole commentare il discorso della premier ma tutti vogliono sottolineare «il coraggio di Carlo». «Sarebbe un fenomenale presidente del Consiglio – dice ai cronisti un ragazzo del gruppo di Azione Under 30 – crediamo in lui» e alza lo sguardo verso il ballatoio. Ma qualcuno sottovoce suggerisce: «Non indicare proprio quelli, sono figuranti».

Meloni ha un problema: si chiama von der Leyen

Il caso Gli interessi del complesso militare-industriale nel piano di riarmo europeo, il pressing della Ue sul governo, il caos agito dalla Lega, la trappola del debito

Roberto Ciccarelli  30/03/2025

La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen considera il piano di riarmo europeo come «una grande opportunità per l’industria italiana». S’intende quella bellica collegata al giro di affari crescente dell’«aerospazio come Leonardo e imprese navali come Fincantieri». Insieme ai loro indotti, queste imprese da sole costituiranno «un vantaggio dell’economia e della società italiane, ma anche delle infrastrutture al servizio elle persone, come gli ospedali». Non ha specificato, von der Leyen, se saranno quelli organizzati sui campi di battaglia che l’Unione Europea immagina da qui a quattro anni, entro i quali intende spendere gli «800 miliardi di euro» previsti dal piano di riarmo incautamente ribattezzato con l’eufemistico titolo di «Prontezza 2030». Un piano ben lungi dall’essere approvato, avendo sollevato opposizioni per motivi diversi e confliggenti da parte di quasi tutti i paesi membri dell’Ue, tranne la Germania che ha una disponibilità di bilancio e un’agenda politico-economica. E detta i tempi agli altri paesi.

Il disegno di von der Leyen, confermato ieri da un’intervista al Corriere della Sera, è quello di rafforzare, e finanziare, le joint venture già esistenti tra Leonardo e la tedesca Rheinmetall. Così arriveranno in Italia anche gli investimenti stabiliti in base alla riforma costituzionale approvata da un blitz prima che a Berlino si sia formato il nuovo parlamento. Dal complesso militare-industriale che sarà premiato dal non scontato progetto di riarmo dovrebbe infine sgocciolare una crescita economica, invero tutta da dimostrare, per abbreviare le liste di attesa negli ospedali o assumere medici e infermieri. Forse con le donazioni concesse dal buon cuore dei costruttori di cannoni.

Nella patetica costruzione del consenso per la guerra, che continuerà a crescere sui media, ciò che non si dice è che l’Europa delle armi non ha rinunciato al contenimento della spesa sociale imposto dal suo «patto di stabilità e crescita». Tutto il Welfare, senza contare i salari, il lavoro, le istituzioni locali e le relazioni sociali continueranno a non ricevere investimenti che resteranno bloccati dalle regole in vigore. Il rischio è anzi che all’aumentare del giro di affari dell’industria bellica corrisponda una stagnazione sociale e una recessione economica.
È in questa cornice che va inquadrato il caos politico in cui si trova il governo italiano, e la sua maggioranza. L’uscita massiccia fatta ieri da von der Leyen è il sintomo di un’ingenuità di fondo per cui basti un’intervista per accreditare un disegno discutibile, un personale europeo in crisi di credibilità. E, addirittura risolvere un conflitto agito e dalla Lega in maniera opportunistica. Da un lato, sostiene per necessità il contenimento della spesa sociale del patto di stabilità che il suo ministro dell’economia Giorgetti sta gestendo (12 miliardi di euro); dall’altro lato si oppone al piano von der Leyen che ha previsto l’aumento del debito per un paese che non può permetterselo. Tra i 20 e 30 miliardi in armi in più all’anno, si calcola. Un salasso che sarà sanzionato dai «mercati», e dalla stessa Commissione Ue perché viola il patto di stabilità. Se il riarmo di uno dei continenti più armati al mondo è una follia, paradossale è un’istituzione austeritaria come Bruxelles che invita a violare i propri patti per poi punire chi lo fa. Questa è la contraddizione di fondo di cui Salvini non parla quando ribadisce «no totale assoluto, a un solo euro di debito comune per comprare proiettili».

Questa posizione ha un peso sulla presidente del Consiglio Meloni, e sul ministro della difesa Crosetto, che fanno buon viso a cattivo gioco ma non possono negare esiste un problema. Lo si vede dal modo in cui il governo fa melina rispetto agli inviti pressanti di von der Leyen a rovinare il suo consenso e fare gli interessi dell’industria bellica. Ieri Crosetto ha sostenuto che «Salvini la pensa come me che bisogna investire in difesa», anche perché intende per «difesa» l’idea di contrastare le migrazioni con i Cpr in Albania. Un tema, va ricordato, evocato ieri anche da von der Leyen. Dall’altra parte di Fratelli d’Italia e Lega c’è Forza Italia con Alessandro Cattaneo. Ieri ha rivendicato che il piano di riarmo (pardon, «di difesa») è una «chance per l’Italia» e che «la prospettiva europea è l’unica per reggere in un momento complicato».

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