L’ILLUSIONE DELL’ELETTO DAL POPOLO da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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L’ILLUSIONE DELL’ELETTO DAL POPOLO da IL MANIFESTO

Francia, via la sinistra ma non basta: la crisi ora si chiama Macron

Francia. «Incontrerò chiunque lavori per il paese»: dopo il niet a Melenchon (celebrato da Confindustria) l’agenda del presidente sembra vuota. «Nessun governo che prolunghi le sue politiche»: persino i socialisti presentano il conto

Anna Maria Merlo, PARIGI  28/08/2024

Oggi Emmanuel Macron riceve il presidente tedesco Franz-Walter Steinmeier per la cerimonia di apertura dei Giochi Paraolimpici a Parigi. Ieri, accanto al taoseach Simon Harris, primo ministro irlandese, il presidente ha affermato che all’Eliseo «la porta è aperta» a «coloro che vogliono lavorare per gli interessi superiori del paese» e «i lavori continuano» per trovare una coalizione che possa governare la Francia, con un parlamento diviso in tre blocchi.

INTANTO MACRON INCASSA l’espressione di sollievo del Medef (la Confindustria francese): il presidente del padronato, Patrick Martin, si è detto «rassicurato» per il niet del presidente all’ipotesi di un governo guidato dalla candidata della sinistra Lucie Castets, sospettata di voler “disfare” tutta la politica pro-business messa in opera negli ultimi sette anni. Il secondo round delle “consultazioni”, ieri, è stato modesto: hanno salito i gradini della cour d’honneur dell’Eliseo i rappresentanti del gruppo Liot (oltremare e territori), che rivelano che ci sarà una decisione sul primo ministro a breve, nel fine settimana, di ritorno dal viaggio in Serbia, venerdì. Poi c’è stato un pranzo con François Bayrou, del MoDem (il gran manitou della coalizione macronista), che ha criticato la centralità del dialogo con i partiti privilegiato da Macron. Oggi dovrebbero presentarsi i Républicains, che hanno già presentato un «patto legislativo» in una ricetta molto maison, senza aperture alle altre forze politiche, nell’illusione di preservare le (poche) chances di Laurent Wauquiez come candidato alle presidenziali del 2027 – l’ossessione di tutti i leader che mina la politica francese.

MISTERO SUGLI INVITI delle consultazioni, nessuna certezza per gli ex presidenti François Hollande e Nicolas Sarkozy, come sulle «personalità che si sono distinte al servizio dello stato» evocate alla vigilia da Macron. Circolano voci su possibili candidati, soprattutto personalità “tecniche” (come Didier Migaud, già presidente della commissione finanza dell’Assemblée Nationale dal 2007 al 2010 e poi primo presidente della Corte dei Conti).

Ma la novità di ieri è stata l’esplosione alla luce del sole della divisione nel Partito socialista. Alla riunione del bureau politico, forzata dall’opposizione interna al segretario Olivier Faure, c’è stata contestazione per il gran rifiuto di partecipare al secondo round delle consultazioni, sulla scia della France Insoumise. Il segretario nazionale e portavoce del Ps, Pierre Jouvet, ha spiegato l’assenza dei socialisti ai cortei convocati dalla France Insoumise per il 7 settembre: «Ci sono altre cose da fare che una manifestazione, l’urgenza è la discussione politica», pur dichiarandosi «inquieto per le scelte di Macron» della vigilia, che ha chiuso la porta a un governo a guida Lucie Castets. Anche se i parlamentari socialisti francesi e l’Ufficio politico del Ps si sono pronunciati a stragrande maggioranza a favore della sfiducia «di qualsiasi governo che prolunghi la politica del presidente Macron». Al contrario Marine Tondellier, leader dei Verdi, ha confermato ieri sera la partecipazione degli ecolo alle manifestazioni, per protestare contro «un simulacro di concertazione» messo in scena da Macron all’Eliseo. Nel Ps, Hélène Geoffroy, sindaca di Vaux-en-Velin (periferia di Lione), e capofila di una corrente di opposizione a Faure, ha avvertito: «Ci sarà rimproverato dagli elettori di non aver provato fino in fondo» a trattare con altre forze politiche per formare una coalizione.

GEOFFROY CHIEDE di «riprendere le discussioni» all’Eliseo, per «cercare ancora una soluzione per un primo ministro socialista o social-democratico che ci permetterebbe di applicare misure immediate di pacificazione del quotidiano degli abitanti delle nostre città». Nicolas Mayer-Rossignol, sindaco di Rouen e capo di un’altra corrente Ps opposta alla direzione Faure, chiede che la «concertazione» continui con l’Eliseo. Si dice «pragmatico», né «nell’oltraggio di Mélenchon», né «al seguito di Macron», ma senza «rifiutare tutto e chiudersi nell’angolo«, perché se non si assumono le responsabilità politiche aperte dal voto del 7 luglio, «la prossima volta sarà il Rassemblement National».

Nel Ps, sono maggioranza le voci che rifiutano l’adesione alla protesta di piazza, dopo aver respinto l’idea di chiedere le dimissioni di Macron, avanzata dagli insoumis.

L’EX PRESIDENTE François Hollande ha fatto sapere a Macron che una riforma che introduce il proporzionale potrebbe essere un punto di intesa, favorirebbe lo sganciamento dei socialisti dall’alleanza con la France Insoumise, un obiettivo del presidente. Il ministro degli Interni dimissionario, Gérald Darmanin (che viene dalla destra), ha lanciato un appello al Ps: «Siate responsabili», per una «ampia coalizione», un «accordo su un minimo» per «permettere alla Francia di funzionare».

L’illusione dell’eletto dal popolo

Parigi e noi. Chi può credere, guardando a quello che avviene in Francia, che l’elezione diretta sia sinonimo di «farla finita con i giochi di palazzo» come continua a ripetere Meloni? Il sistema […]

Andrea Fabozzi  28/08/2024

Chi può credere, guardando a quello che avviene in Francia, che l’elezione diretta sia sinonimo di «farla finita con i giochi di palazzo» come continua a ripetere Meloni? Il sistema istituzionale francese non è quello che la destra al governo sta provando a far passare qui da noi, ma ne contiene i difetti. Del resto Meloni e meloniani presentano il loro cosiddetto premierato, creatura sconosciuta al resto del mondo, come una versione attenuata del presidenzialismo: quella sarebbe stata la loro prima scelta se non fossero stati costretti a fare dei compromessi (ma compromessi non ne hanno fatti e il premierato se lo sono votati da soli).

Come prova drammaticamente la Francia e come scopriremo qui da noi – ammesso e non concesso che la riforma costituzionale passi definitivamente – elezione diretta di un capo e parlamentarismo non stanno insieme. A Parigi ha più o meno funzionato fino a che il doppio turno ha assicurato una maggioranza certa e il presidente della Repubblica francese ha compiuto scelte obbligate, così tenendo in secondo piano la sua natura che è quella del giocatore non dell’arbitro. Ora Macron sta giocando, pesantemente, con l’obiettivo evidente di tenere lontana la sinistra dal governo. Anche se per riuscirci dovrà definitivamente far cadere l’inganno in forza del quale si è lungamente presentato come barriera alla destra estrema.

Questo è il vantaggio, tattico, di Mélenchon, che lo sfida a votare insieme a Marine Le Pen la sfiducia a Lucie Castets, e per questo ne pretende l’incarico a prima ministra. D’altra parte anche il capo insoumise ha le sue contraddizioni, perché non è possibile battersi per un ritorno del parlamentarismo e insieme chiudere a ogni mediazione sul programma ed esigere la guida del governo in nome della «vittoria» alle elezioni. In un sistema parlamentare, appunto, chi arriva primo alle elezioni non le ha «vinte» se non mette insieme una maggioranza per governare.

Eppure, per tornare ai paragoni con casa nostra, se criticammo il presidente Napolitano perché nel 2013 non volle dare l’incarico a Bersani al quale mancavano solo pochi voti in una sola camera, a maggior ragione è criticabile Macron tantopiù che in Francia non esiste lo scoglio della fiducia iniziale al governo e non sono mancati, anche recentemente, governi di minoranza. Napolitano aveva una sua agenda non dichiarata (ma riconoscibile e purtroppo realizzata, le larghe intese), Macron ne ha una dichiarata proprio in virtù del diverso sistema istituzionale. Sistema che ha ancora tanti estimatori qui da noi ma che evidentemente non funziona.
Quanto al premierato, non si tratta affatto di una versione soft del semi presidenzialismo, ma di un sistema nuovo, ibrido, che prende il peggio dai sistemi puri.

La cervellotica riforma firmata dal governo che approderà presto alla seconda lettura non esclude affatto l’eventualità che entrambe le camere o una soltanto non siano in sintonia con il capo eletto direttamente. Per escluderlo la riforma avrebbe bisogno di essere accompagnata da una legge elettorale sulla quale permane il mistero, ma talmente maggioritaria da andare certamente a sbattere contro i paletti fissati dalla Corte costituzionale. Anche in quel caso la disciplina sarebbe imponibile solo in partenza, la riforma contemplando ogni possibile sgambetto e ribaltone successivo.

Più che un capo plebiscitato per governare con certezza, la riforma Meloni rischia così di creare la figura dell’eletto dal popolo che può a lungo lamentarsi perché lo ostacolano. In pratica una figura di «prima vittima» che può agevolmente ricordare qualcuno, o qualcuna. E in tutto questo la nostra Costituzione continuerebbe a prevedere la figura di un presidente della Repubblica, a quel punto svuotato di reali funzioni e probabilmente dedito a pettinare i crini dei corazzieri.

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