L’EUROPA IN MANO A CIECHI CHE GUIDANO ALTRI CIECHI da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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L’EUROPA IN MANO A CIECHI CHE GUIDANO ALTRI CIECHI da IL FATTO e IL MANIFESTO

L’Europa in mano a ciechi che guidano altri ciechi

Simona Ruffino  14 Marzo 2025

Il bias di disconferma è un fenomeno cognitivo che spinge le persone a mettere in dubbio o a ignorare informazioni che contraddicono le proprie convinzioni preesistenti. Questo bias tende a manifestarsi quando gli individui sono esposti a dati o argomentazioni che potrebbero minare le loro credenze fondamentali, portandoli a cercare difetti nelle prove contrarie piuttosto che prenderle in considerazione in modo obiettivo. Il bias di disconferma ha conseguenze significative poiché può ostacolare il dialogo, la risoluzione dei problemi e il processo decisionale basato sui fatti. Il bias è un errore sistemico del pensiero, è il muro che si presenta di fronte a noi ostacolando la nostra razionalità e va a braccetto con le euristiche, che sono scorciatoie di ragionamento, le quali ci inducono a imboccare la strada più ovvia, ma sbagliata.

Questo è quello che, secondo me, sta succedendo in Europa a proposito della proposta del piano ReArm Europe presentato da Ursula von der Leyen. Sembra improvvisamente che i valori della pace, della convivenza e tutti i valori fondanti dell’Europa siano stati oscurati da una nube di pericolo percepito il quale ha sortito l’effetto atavico di lotta, proprio come accadeva ai nostri antenati milioni di anni fa.

Mi è parso interessante analizzare che questa risposta istintiva – amigdala e dopamina lavorano senza incontrare ostacoli – sia arrivata solo quando Donald Trump ha iniziato a minacciare l’Europa di abbandonarla, di sfidarla, di punirla. Non dopo tre anni di conflitto e migliaia di morti. Non mentre le istituzioni democratiche in Europa e nel mondo si andavano sgretolando come terra arida, ma solo quando la grande potenza americana ci ha voltato le spalle perché “è arrivato un nuovo sceriffo in città”.

Nonostante esperti e organizzazioni internazionali urlino l’importanza della diplomazia e del controllo degli armamenti, i Paesi europei si stanno lasciando accecare dalla loro stessa paura, colpevoli di ignorare dati e strategie alternative che promuoverebbero la sicurezza globale. Come nella tela di Bruegel che raffigura la parabola dei ciechi da Matteo 15:14 “Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso”. Abbiamo messo in soffitta la diplomazia (assai poco utile agli interessi economici di tutti gli attori che occupano la scena) e adesso corriamo a riarmarci a discapito della crescita, del welfare, della ricerca, dello sviluppo. A discapito della civiltà. Tutto questo appare agghiacciante e lo sa molto bene anche il nostro presidente del Consiglio, la quale ha proposto astutamente un cambio di naming all’intera operazione proponendo al suo interno la parola Difesa (Defend Europe), perché si sa, la percezione è tutto e orienta i consensi e le pubbliche opinioni. Funziona come ci ha suggerito Orwell in 1984: il ministero della Guerra è il ministero della Pace.

Tornando al bias di disconferma è quello che in un contesto mondiale elettrico e incerto come il nostro fa sì che l’Europa sia incapace di scrollarsi di dosso la percezione della sua vulnerabilità, precipitandosi verso il riarmo, ignorando la voce della ragione e del dialogo. È un tango pericoloso di diffidenza, dove ogni mossa di un Paese è percepita come una minaccia dagli altri, portando a una spirale di tensioni e risorse mal distribuite. Ce lo ha insegnato la Game theory nel “dilemma del prigioniero” il quale esemplifica la situazione in cui due o più soggetti, pur avendo convenienza ad accordarsi per godere di vantaggi reciproci, scelgono di non farlo in quanto non sono in grado di controllare il rispetto dell’accordo da parte della controparte. Così eccoci qui, vittime di una miopia collettiva, perché ci sentiamo disconfermati nel nostro ruolo geo-politico, nella nostra identità, nella nostra forza. La verità? L’Europa potrebbe focalizzarsi su strategie di pace e cooperazione piuttosto che sulla gara per il potere militare. Il fallimento nel riconoscere le implicazioni di questo bias non è solo una questione di economia mal spesa, ma un passo verso un’escalation inutile di tensioni. La rincorsa agli armamenti è più di una semplice accumulazione di arsenali; è lo specchio di un’incapacità collettiva di considerare strade diverse. È ora di usare la razionalità, abbracciare nuove prospettive e sfidare quelle convinzioni che ci tengono intrappolati nel passato.

*Esperta di neuromarketing, è autrice di “Non tutto è come appare. Contro la cultura della manipolazione” di Simona Ruffino, edito da Apogeo.

Il nichilismo di Trump, i dazi e la lotta di classe

Trumpnomics La sua “distruzione creatrice” è una riduzione totale del valore d’uso d’ogni cosa, materiale ed immateriale, al valore di scambio: pace in Ucraina, Palestina, spazio e moneta

Alfonso Gianni  14/03/2025

Se la guerra mondiale con armi più o meno convenzionali è ancora a pezzetti, che però tendono a congiungersi in un diabolico puzzle, quella dei dazi è già in essere. Procede con strappi, improvvisi dietrofront, ricatti ma è certamente il pezzo forte della Trumpnomics. Il suo effetto immediato è creare pesanti turbolenze e sbandamenti in primo luogo per l’economia Usa, oltre che per quella internazionale, ove le previsioni sono ancora più cupe. Tanto che l’autorevole Wall Street Journal – ma anche The Economist concorda – l’ha definita «la guerra commerciale più stupida della storia». Ma non è proprio così.

In realtà le guerre commerciali sono guerre di classe. Gli effetti dei dazi contrapposti porteranno ad una perdita di reddito per le classi inferiori, oltre che per i paesi del Global South. Nella fase montante della globalizzazione, nella quale la Cina era la fabbrica del mondo, gli Stati uniti potevano acquistare prodotti cinesi a basso costo e di modesta qualità, da vendere alle classi lavoratrici pur lasciando modesto il loro tenore di vita. Ma ora che la Cina compete sui rami alti dello sviluppo tecnologico (dagli autoveicoli con motori elettrici all’intelligenza artificiale) tale sistema non può più essere replicato.

La crisi del processo di globalizzazione ha generato il ritorno al protezionismo – e Trump ne è il sacerdote più che il profeta – visto che la competitività sulla qualità e l’innovazione dei prodotti rimane un mantra della (falsa) ideologia del capitalismo.
Chi comanda ora non si accontenta più di avere vinto la lotta di classe, come disse Warren Buffet, ma vuole stravincere, con la brutalità di chi minaccia “guai ai vinti!”. E così la «distruzione creatrice» di Schumpeter affonda nella furia nichilista di chi tiene in mano le leve del potere politico ed economico.

Il nichilismo dall’alto di Trump si basa su una riduzione totale del valore d’uso di ogni cosa, materiale ed immateriale, al valore di scambio. La pace in Ucraina diventa così lo sfruttamento delle terre rare. Quella in Palestina, la costruzione di un luogo di villeggiatura di eccellenza, cacciando – salvo ripensamenti – il popolo palestinese in un improbabile altrove. L’esplorazione dell’universo è strumento di arricchimento esclusivo per Elon Musk, calpestando il Trattato internazionale del 1967 per cui invece avrebbe dovuto essere «appannaggio dell’intera umanità».

La moneta stessa non è più – come scriveva Charles Kindelberger – quel particolarissimo bene comune che perciò deve essere protetto dalla speculazione privata, ma strumento in mano al Presidente degli Usa, non solo impegnato in uno scontro con la Fed, che ha già comportato l’amputazione di sue importanti funzioni, quale la vigilanza bancaria, ma anche nella costruzione di un futuro radioso per le criptovalute, tramite la World Liberty Financial, società saldamente in mano a The Donald e ai suoi rampolli.

Quando Donald Trump spavaldamente afferma di non temere la recessione (che gli analisti chiamano Trumpcession) perché al massimo si tratterebbe di un inevitabile periodo di transizione verso il rilancio dell’economia, non fa altro che tradurre nel suo linguaggio il disegno contenuto in un documento elaborato nel novembre del 2024 dal suo consigliere economico, Stephen Miran, per evitare la bancarotta minacciata da un crescente debito pubblico.

Infatti diversi analisti parlano di una recessione o almeno di una crisi pilotata ai fini di rallentare l’economia, giungere ad una svalutazione del dollaro per rilanciare le esportazioni, ridurre il disavanzo della bilancia commerciale, costringere la Fed ad una riduzione dei tassi di interesse.

In sostanza se la Trumpnomics riuscisse a fare scendere l’inflazione e i tassi di interesse – osserva un importante manager del colosso finanziario giapponese Nomura – sarebbe più facile mettere in atto una politica economica basata sui tagli fiscali e sulla deregolamentazione. Esattamente ciò che vogliono le èlite economico-finanziarie e ciò che ha promesso Trump in campagna elettorale. Un disegno che non può essere contrastato solo entro i confini degli Stati uniti, ma a livello internazionale. Per questo sono decisivi i passi che compiranno i Brics e la ripresa della lotta di classe nei paesi a capitalismo maturo.

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