L’EUROPA È IN CRISI? DRAGHI È TRA I PRIMI RESPONSABILE da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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L’EUROPA È IN CRISI? DRAGHI È TRA I PRIMI RESPONSABILE da IL FATTO e IL MANIFESTO

L’Europa è in crisi? Draghi è tra i primi responsabili

Francesco Sylos Labini  22/03/2025

Durante la sua audizione alla Camera dei deputati, Mario Draghi ha evidenziato come, nel tempo, si sia sacrificata la spesa pubblica comprimendo la domanda interna, trascurando le infrastrutture e riducendo gli investimenti in ricerca, innovazione tecnologica e clima. Ma chi è il soggetto di questo “abbiamo”? Lui stesso, naturalmente, fin dalla famosa lettera scritta insieme all’allora presidente della Bce, Jean-Claude Trichet—una linea poi seguita dal governo Monti.

C’è però un dettaglio cruciale: ricerca e innovazione tecnologica non si improvvisano in pochi mesi o anni, ma richiedono decenni. Lo dimostra l’esempio della Cina, che ha sviluppato la propria capacità industriale in parallelo a un investimento massiccio nella ricerca. Nel 2000, il paese contribuiva solo per il 6% alla produzione manifatturiera globale; nel 2020, questa quota è salita al 30%, con proiezioni che indicano un possibile raggiungimento del 45% entro il 2030. Oggi, la Cina è la principale potenza manifatturiera mondiale e domina settori strategici come l’energia solare e le batterie elettriche, dove la sua quota di produzione supera già l’80%. Negli ultimi vent’anni, la produzione automobilistica cinese è passata dall’1% al 39% del totale globale, mentre l’Europa è scesa dal 35% al 15% e gli Stati Uniti dal 15% al 3%. Le esportazioni di automobili dalla Cina sono cresciute esponenzialmente: da 500.000 unità nel 2016 a 4,7 milioni nel 2024, rendendo la Cina il primo esportatore mondiale e superando il Giappone. Nel settore delle auto elettriche, la cinese BYD si è affermata come il principale produttore, con 2,9 milioni di unità vendute nel 2023, seguita dalla statunitense Tesla con 1,8 milioni. Dietro di loro si trovano sei marchi con vendite comprese tra 400.000 e 500.000 unità, equamente divisi tra aziende cinesi e tedesche. Attualmente, in Cina operano ben 32 produttori di veicoli elettrici.

Nel campo della tecnologia e dell’innovazione, la Cina tuttavia domina sempre più il panorama globale e per questo la sua quota di mercato è destinata a crescere mentre quella delle industrie europee a diminuire. Nel 2021 ha depositato il 37,8% dei brevetti mondiali, contro il 17,8% degli Stati Uniti e il 16% del Giappone. Oggi è leader in 29 settori su 36, tra cui informatica, elettronica e telecomunicazioni, mentre l’Europa gioca un ruolo sempre più marginale. Un caso emblematico è quello dell’intelligenza artificiale: nel gennaio 2025, la società cinese DeepSeek ha rilasciato modelli open-source superiori a GPT-4, scuotendo il settore tecnologico e finanziario occidentale. Non è stato un fulmine a ciel sereno: già nel 2022, la Cina deteneva il 61% dei brevetti nell’IA generativa, contro il 21% degli Stati Uniti e appena il 2% dell’Europa (incluso il Regno Unito).

La marginalità dell’Europa nell’automotive, nella manifattura in generale, nell’innovazione tecnologica e nella ricerca scientifica non è un evento accidentale, dovuto a Trump, Musk o Putin/Xi ma il risultato di decenni di assenza di una politica economica ed industriale sia a livello nazionale che comunitario. Il “mercato”, contrariamente alle aspettative, non ha colmato questa lacuna. Alla base di questo problema c’è anche una costante riduzione dei finanziamenti destinati all’università e alla formazione, che ha rallentato lo sviluppo di ricerche innovative. Infine, come evidenziato dallo stesso Draghi nel suo rapporto di settembre, la guerra in Ucraina e la conseguente perdita dei gasdotti dalla Russia hanno lasciato le imprese europee alle prese con prezzi dell’elettricità 2-3 volte superiori a quelli degli Stati Uniti e con prezzi del gas naturale 4-5 volte più alti.

Questo combinato disposto ha avuto un effetto devastante sulla manifattura europea, compromettendone la competitività e portando a crisi industriali, chiusure di impianti e licenziamenti, che nel medio-periodo porterà ad un declino economico e sociale. Mentre il dibattito pubblico si avvita su un’idea di Europa sempre più astratta, le scelte concrete di cui dovremmo discutere sono ben altre. La soluzione proposta? Convertire l’industria automobilistica europea alla produzione di armi. L’incapacità di competere sul mercato viene così compensata dalle commesse statali, giustificate dalla necessità di difesa. Così, i motori elettrici delle auto più avanzate vengono rimpiazzati dai motori diesel dei carri armati, mentre il dibattito sul cambiamento climatico scompare dalla scena. Tuttavia, questa è solo una soluzione temporanea, a vantaggio esclusivo delle grandi industrie del comparto militare. Non risolverà né il problema della competitività nell’innovazione tecnologica, né quello della difesa, ma rischia invece di esacerbare le tensioni sociali.

Debito, il terzo tavolo della geopolitica

Marco Bertorello, Danilo Corradi  22/03/2025

L’economia occidentale cresce poco per ragioni strutturali e l’ondata sovranista sembra sempre più una risposta di ripiego che ambisce a scaricare le difficoltà verso altri, piuttosto che risolverle. La crescita dei debiti pubblici è stata in questi anni una rappresentazione plastica di questa difficoltà, in larga parte spiegabile come espressione di un supporto diretto o indiretto alla sfera finanziaria e produttiva. Nel mondo i debiti sovrani restano un problema centrale e crescente: nel 2025 nei paesi Ocse si arriverà all’85% del rapporto debito/Pil, 10 punti in più del 2019 e il doppio del 2007. Anche il costo del debito è in crescita: negli Stati Uniti va in interessi il 4.7% del Pil (era il 4.4% nel 2023), nei paesi Ocse il 3.3%.

Per alcuni analisti il debito pubblico statunitense sarebbe la principale ragione delle aggressive e inedite scelte di Trump. Gli Usa dagli anni Settanta hanno una bilancia commerciale in cronico disavanzo. Importano più di quanto esportano. Questo fa sì che per compensare il flusso di dollari che esce dal paese ci debbano essere flussi finanziari in entrata che sostengano la posizione debitoria degli Usa. Grazie a un incontestabile primato militare, tecnologico e finanziario il dollaro è la principale moneta di scambio internazionale. Ciò rende più facili politiche di espansione monetaria e più appetibile l’acquisto di titoli finanziari e di debito a stelle e strisce da paesi terzi, tra i quali diversi competitor, come la Cina. Questi squilibri si accumulano da tempo e sono espressione di un indebolimento del paese.

La nuova amministrazione prova a contenerli con politiche autocentrate: dazi, rilocazione industriale, riduzione della funzione di potenza egemone che risale al secondo dopoguerra. Ma non basta, non fosse altro perché gli effetti si possono misurare in tempi dilatati. Perciò tra gli obiettivi delle politiche di stop and go trumpiane fa capolino la proposta di una sorta di ristrutturazione del debito nazionale mediante formule di congelamento dei titoli di Stato per periodi lunghissimi (un secolo?).

Tale espediente darebbe un vantaggio immediato. Sarebbe rivolto, imposto o minacciato, ad alleati storici come l’Europa, ma anche a paesi emergenti che gravitano sotto la propria sfera d’influenza. Cioè rientrerebbe in quelle politiche di ricostruzione di alleanze basate sul divide et impera. Si potrebbe ipotizzare il debito come un terzo tavolo, dopo quello militare e commerciale, su cui ridefinire le geometrie mondiali. Alcuni paesi non vogliono essere vittime di dazi insopportabili? Oppure non vogliono essere abbandonati al proprio destino in termini di difesa militare? Allora, in cambio, devono accettare il congelamento degli interessi sui titoli di Stato di Washington o comunque condizioni favorevoli agli Usa sul piano del finanziamento del debito.

Un’operazione, quella della ristrutturazione del debito pubblico detenuto all’estero, non senza problemi. Se dovesse crearsi un clima di scontro sul debito sul modello dei dazi, chi acquisterebbe nuovi titoli di debito statunitensi? Se la domanda dovesse scendere salirebbero immediatamente i tassi aumentando il costo del debito. Storicamente si può ovviare a questa difficoltà imponendo il finanziamento dei deficit ad acquirenti interni, alla banca centrale o riducendo a zero (o quasi) il deficit pubblico. Sarà complesso per Trump perseguire simili scenari evitando turbolenze finanziarie.

La ristrutturazione così pensata, inoltre, non sarebbe certo guidata da pulsioni di giustizia sociale e redistribuzione della ricchezza, ma da un conflitto tra capitalismi che preserva banche e finanza proprie a discapito di quelle altrui. Servirebbero proposte alternative che prevedano una riduzione forzata dei costi del debito non in un singolo paese, ma attraverso una strategia redistributiva internazionale che rompa con quella centralità della finanza che caratterizza l’attuale capitalismo, magari per intravedere un nuovo modello.

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