LAVORO POVERO E IDEOLOGIA DEL MERITO: “LA SCUOLA SCIOPERA” da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LAVORO POVERO E IDEOLOGIA DEL MERITO: “LA SCUOLA SCIOPERA” da IL MANIFESTO e IL FATTO

Lavoro povero e ideologia del merito: la scuola sciopera

Diritti Presidi ieri della Flc Cgil in 40 piazze: «Basta individualismo, culto della nazione e del profitto»

Luciana Cimino, Michele Gambirasi  01/11/2024

«Lunedì spiegherò ai miei studenti perché ho scioperato e perché non era una giornata di festa ma di lotta» dice Rosanna, collaboratrice scolastica, mentre è in presidio sotto al ministero dell’Istruzione (e merito) di viale Trastevere, a Roma. È l’unica della sua scuola ad avere le chiavi del plesso, la sua decisione di non aprire ha permesso di manifestare anche agli insegnanti precari che temevano ritorsioni.

LO SCIOPERO DELLA SCUOLA indetto dalla Flc Cgil con diverse sigle studentesche e di ricercatori universitari, si è articolato in 40 piazze. Da nord a sud docenti, personale amministrativo (Ata) e studenti hanno manifestato per chiedere l’adeguamento dei salari e la stabilizzazione degli oltre 250 mila precari. «Questo numero è frutto della volontà politica – nota Davide – ci stanno mettendo l’uno contro l’altro senza riformare il sistema di reclutamento: dietro questi numeri ci sono 250 mila persone, con storie, famiglie, che non hanno certezze. Questa frammentazione del lavoro pesa su tutti, soprattutto sugli studenti». Alle riforme dell’istruzione in senso classista del ministro Valditara e a quelle che cristallizzano il precariato nella ricerca, volute da Bernini, si è aggiunta la forbice della legge di bilancio «che non prevede risorse aggiuntive per i rinnovi contrattuali 2022 – 2024 e non risolve il problema del potere d’acquisto dei salari a fronte del 18% circa di inflazione – come spiega la Flc Cgil -. A questo si aggiunge l’annoso problema del precariato: un lavoratore su quattro tra Ata e docenti non ha un contratto stabile e questo arreca un danno non solo alle vite dei lavoratori ma anche alla didattica».

«CON LO SCIOPERO vogliamo anche affermare un’idea di scuola democratica, in netta contrapposizione con le riforme regressive e autoritarie di Valditara – ha dichiarato la segretaria generale del sindacato, Gianna Fracassi dalla manifestazione di Milano – ribadiamo la nostra opposizione alla filiera tecnologico-professionale che riduce l’offerta formativa consegnandola ai privati, al liceo made in Italy che risponde a una visione aziendalistica dell’istruzione e all’istituzione di classi “differenziali” per alunni non italofoni. E ribadiamo la preoccupazione per i nuovi strumenti di valutazione basati su criteri selettivi e punitivi e per la revisione delle linee guida dell’educazione civica ispirate all’individualismo e al culto della nazione e del profitto».

A GENOVA HANNO sfilato in corteo anche i ricercatori del Cnr che ha 8mila dipendenti, di cui il 50% precari. «Molti di noi hanno contratti legati a progetti che però non danno contributi previdenziali», racconta Erica Carlig, ricercatrice genovese e precaria da nove anni dopo una laurea, un dottorato e sei anni di borse di studio per un salario iniziale di circa mille euro al mese. «La nostra – dice Assunta da Napoli – non è una battaglia corporativa, siamo qua per denunciare la messa a rischio del diritto allo studio nel nostro Paese».

Se le piazze erano piene, i primi dati parziali parlano di una partecipazione alla protesta di poco superiore al 3%. «Non sono riuscita a scioperare, anche se credo fortemente nelle sue ragioni, perché quest’anno ho avuto una supplenza di poche ore e non potevo permettermi di perdere neanche quella parte di salario», spiega Francesca, insegnante calabrese di sostegno che ogni giorno passa tre ore sul treno, tra andata e ritorno, per raggiungere la scuola che le hanno assegnato ad Anzio. Per lo sciopero la trattenuta dello stipendio oscilla tra i 96 e i 53 euro.

IN PIAZZA IERI ANCHE gli studenti. «Siamo al fianco dei lavoratori della scuola e dell’università e di tutti i settori della conoscenza – spiega Paolo Notarnicola, coordinatore nazionale della Rete degli Studenti Medi – è la prima tappa di un percorso di mobilitazione che ci porterà poi il 15 novembre in piazza in tutto il paese e non ci fermeremo finché non ci saranno risposte dal governo, a partire dalla manovra»

Nei prossimi tre anni spenderemo 40 miliardi di euro in nuove armi

Tagli ma non a tutti – Numeri. Alla tecnologia bellica daremo ogni anno quasi quanto al ministero dell’Università (14 mld), 5 volte più che alla ricerca

Marco Palombi   31 Ottobre 2024

Sul giornale di ieri abbiamo descritto, in un contesto di tagli spesso sanguinosi, l’aumento abnorme di investimenti in nuovi sistemi d’arma deciso da Giancarlo Giorgetti nella manovra (peraltro con una sottostima sul primo triennio che correggeremo più avanti). I soldi del risveglio bellico di Meloni e soci si aggiungono, ovviamente, a fondi già a bilancio con lo stesso fine: solo nei prossimi tre anni, per dire, l’Italia si prepara infatti a spendere in armi la bellezza di 39 miliardi di euro, 13 l’anno in media, circa il 40% della spesa per la “missione difesa” descritta dal bilancio dello Stato (31 miliardi) e lo 0,55% abbondante del Pil. Per capirci sulle dimensioni dello stanziamento, basti dire che contro il dissesto idrogeologico l’anno prossimo dovrebbero essere disponibili circa 1,8 miliardi di euro, che l’intero bilancio del ministero dell’Università è di 14 miliardi, nel quale alla ricerca vengono destinati circa 2,5 miliardi.

Fatto ordine sulle dimensioni della cosa, possiamo tornare ai programmi di spesa in armamenti del governo Meloni. Le grandi fonti di finanziamento di questo fiume di denaro sono tre: due capitoli del bilancio del ministero della Difesa e uno (e mezzo) del ministero delle Imprese. Partiamo dal dicastero di Guido Crosetto e precisamente dal fondo per la “Pianificazione generale delle Forze Armate e approvvigionamenti militari ed infrastrutturali”: per comprare armi è dotato di 6,8 miliardi e spiccioli nel 2025 che diventano 7,3 miliardi nel 2027. Poi c’è un secondo fondo per i “Programmi di ammodernamento e rinnovamento degli armamenti, ricerca, innovazione tecnologica, sperimentazione e procurement militare”: strumento dal nome non agevole che in armi vale 2,3 miliardi l’anno prossimo che salgono a 2,7 nel 2027. In tutto alla Difesa hanno a disposizione 9,1 miliardi nel 2025, 9,6 l’anno dopo e 10 miliardi tra tre anni.

Poi c’è il ricco capitolo intitolato alla “difesa nazionale” nel bilancio del ministero delle Imprese e del Made in Italy di Adolfo Urso, peraltro bersagliato di tagli sui fondi per la transizione verde (4,6 miliardi tolti all’auto elettrica): per l’acquisto di armi è dotato di circa tre miliardi l’anno prossimo e quello dopo, che salgono a quasi 3,3 miliardi nel 2027. Sempre nel bilancio del Mimit vanno però citati, secondo l’Ufficio studi della Camera, anche oltre 330 milioni l’anno dedicati a “Interventi nei settori ad alta tecnologia” che finiscono al settore della difesa. Il totale dei soldi stanziati nel bilancio dello Stato per comprare nuovi sistemi d’arma nel prossimo triennio è dunque 12,5 miliardi nel 2025, 12,9 miliardi nel 2026 e 13,6 miliardi nel 2027.

Queste poste, va tenuto a mente, sono finanziate stabilmente nel bilancio dello Stato: nel nostro caso gli stanziamenti sono già previsti fino al 2039 e il passato ci dice che tendono ad essere aumentati con una certa costanza, figurarsi ora con le gentili raccomandazione dell’Alleanza atlantica e le forniture all’Ucraina che continuano dal 2022. Questa manovra, non a caso, segna un’esplosione della spesa militare che fa uno strano contrasto coi tagli anche considerevoli alle spese di altri settori del bilancio: i nuovi finanziamenti dedicati all’acquisto di sistemi d’arma ammontano a quasi 7,5 miliardi nel triennio (e non 6,5 come erroneamente scritto ieri: 4,5 dal bilancio di Crosetto e tre da quello di Urso), oltre 35 miliardi tra 2025 e 2039.

Il segnale politico è chiarissimo: nel contesto della stretta fiscale imposta dal nuovo Patto di Stabilità Ue si sceglie di togliere soldi alla transizione verde, alla mobilità sostenibile, persino alla cura del territorio e di darli alla difesa. Nei prossimi tre anni l’acquisto di armamenti copre il 90% delle nuove spese in conto capitale decise dalla manovra, il 50% delle nuove spese in generale.

Un’enormità che rischia di essere benedetta se non incentivata dalla Commissione di Ursula von der Leyen: nel report sulla difesa europea, consegnato ieri a Bruxelles dall’ex presidente finlandese Sauli Niinisto, si legge che “bisogna prepararsi agli scenari peggiori” e che il 20% del bilancio europeo andrebbe dedicato “alla sicurezza e alla preparazione alle crisi dell’Ue”, ovviamente “mantenendo e rafforzando la sua capacità di fornire supporto militare all’Ucraina”. Ursula lo ha lodato.

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