LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE E NOI da LA FIONDA
La Rivoluzione d’Ottobre e noi
Alessio Frau 7 Nov , 2025|
Che ne è oggi della Rivoluzione d’ottobre per quella massa diffusa e varia che etichettiamo coi concetti di proletariato, classi subalterne, popolo, classi popolari, sfruttate e sfruttati, ultimi e penultimi? La risposta è tutt’altro che facile né esauribile in poche righe, ma certamente una questione fondamentale e difficilmente aggirabile.
Infatti se l’impresa di Lenin e dei bolscevichi ha avuto un senso, questo non risiede semplicemente nel processo storico determinato che da quell’evento ha preso le mosse, non sta nella mera analisi storica degli effetti e delle cause di quello straordinario avvenimento, ma si fonda sul mito che quella leggendaria impresa ha diffuso nelle sterminate masse lavoratrici occidentali e nelle ancor più sterminate masse contadine dei popoli colonizzati. Un mito di riscatto, che dimostra non solo che il cambiamento è possibile, ma che attraverso un serio lavoro organizzativo, uno studio approfondito delle circostanze e delle situazioni, una costante autocritica e straordinarie capacità di adattamento è possibile replicare quell’evento in qualsiasi parte del mondo, a patto che si riescano a tradurre nei diversi linguaggi nazionali le peculiarità russe. Lenin e il gruppo dirigente bolscevico hanno insomma dimostrato che, come affermò Gramsci a proposto della scienza della politica elaborata da Machiavelli, anche gli ultimi possono apprendere e applicare i metodi dell’arte e della scienza politica che per secoli sono stati appannaggio dei signori e dei potenti.
Il risultato forse più importante ed epocale della Rivoluzione risiede nell’aver appoggiato, finanziato e rappresentato l’imponente processo di decolonizzazione che oggi, a 108 anni di distanza, sta ridisegnando la geografia politica mondiale. Un processo che non soltanto la vecchia Europa stenta a capire, rifugiandosi nella rassicurante dialettica tra l’eurocentrica ideologia liberal-democratica esportatrice di guerre e la reazione più nera dei neocon e delle nuove destre, ma che ha apertamente combattuto e osteggiato finché ha potuto. Oggi le classi popolari e subalterne europee, che sono sempre più articolate e varie dal punto di vista delle nazionalità, delle culture religiose e politiche, pagano a caro prezzo l’incapacità delle classi dirigenti di ripensare il ruolo dell’Europa nel nuovo scenario internazionale. La crisi attuale non dev’essere confusa con le sue clamorose manifestazioni, ma dev’essere compresa come un processo complesso che approfondisce e intensifica il processo che ha condotto alla crisi degli Stati-nazione liberali e monoclasse causata dall’irruzione dirompente delle masse nella scena politica. Oggi non solo le masse sono regolarmente inquadrate nelle strutture statali e sono indispensabili alla riproduzione del sistema economico e istituzionale, ma si assiste all’irruzione nella scena mondiale di popoli che rivendicano la propria sovranità e il proprio diritto di esprimere le proprie istanze nel contesto delle relazioni internazionali e lo fanno senza chiedere il permesso ma fondando organismi propri che fanno concorrenza a quelli a egemonia occidentale e che già si propongono come punto di riferimento per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
Oggi forse più di ieri il monito gramsciano sulla crisi appare più che valido: “mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del « nazionalismo», «del bastare a se stessi» ecc.”[1]. La nuova ondata di nazionalismi ed etnicismi occidentali, che rivendicano un ruolo egemonico mondiale esaltando la propria violenza distruttrice di popoli e culture, non solo condurrà alla rovina economica e finanziaria l’occidente e in particolar modo le lavoratrici e i lavoratori, i gruppi sociali subalterni, ma porterà anche all’immane catastrofe della guerra che minaccia la distruzione stessa del mondo.
In questo contesto, in cui si intravedono le possibilità di sviluppo delle potenzialità creatrici e creative dell’essere umano, l’eredità dell’Ottobre rosso, con la sua simbologia, con le sue contraddizioni tragiche e violente, oggi rappresenta un serbatoio di esperienza dal quale attingere, da rivendicare. Occorre assumere il punto di vista del lungo periodo e pensare la storia delle masse, dei gruppi sociali e dei popoli subalterni come un processo millenario, contraddittorio, oscuro di emersione sulla ribalta della storia e ricomprendere in ciò, relativizzandola e comprendendola affondo, la storia della rivoluzione russa, del bolscevismo e del movimento comunista internazionale.
Nella complessità della situazione attuale ereditare la tradizione del bolscevismo significa, tra le altre cose, ereditarne il mito del primo tentativo riuscito e poi fallito di costruzione di uno Stato operario e contadino. Non un semplice eccitante che infiamma gli animi e le folle, ma la chiara percezione del prestigio emanato da questo primo esperimento, che, per dirla ancora una volta con le parole di Gramsci, è stato “l’elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi […] che […] non ha precedenti in tutta la storia del genere umano che la eguagli in ampiezza e profondità”[2]. Non solo; un mito capace di infondere coraggio, disciplina, metodo di lavoro, che ha permesso di compiere – tra errori e tragedie – un percorso di apprendimento dei metodi dell’arte politica.
Non si tratta dunque di rivendicarne i simboli o di ereditarne un’inutile ortodossia. Si tratta piuttosto di ereditare la passione per la politica, per il lavoro politico, l’unico in grado di mettere insieme e articolare le più disparate forme organizzative, i diversi linguaggi teorici, le più disparate lotte e soggettività che popolano il campo delle classi subalterne.
Si è parlato più volte, in queste colonne, della necessità di un lavoro metapolitico, che sia capace di ricostituire un ambiente culturale dal quale sia possibile la selezione di un gruppo dirigente in grado di affrontare le gravi sfide che ci attendono. Questo è vero, ma è altrettanto necessario valorizzare e prendere sul serio il lavoro politico. È nelle concrete esperienze, nella lotta per diventare ciò che si vuole diventare, nel fuoco del conflitto che si selezionano le energie migliori e che anche le grandi imprese filosofiche assumono un taglio determinato. Pur tenendo ferma la distinzione formale e organizzativa tra filosofia e politica, solo la necessità articolatoria della politica, che è costretta a tenere insieme universale e particolare, unità e molteplicità, identità e differenze, conferisce al lavoro teorico una consistenza materiale e corporea.
Il mito dell’Ottobre è, si potrebbe forse dire, il mito della traducibilità. La credenza, infondata ma necessaria, che le molteplici esperienze teoriche e pratiche, che i diversi linguaggi possano tradursi l’uno nell’altro, assumere la forza necessaria a costruire un mondo diverso.
La fede nell’idea che il grande serbatoio teorico e pratico del femminismo possa diventare, conservando la sua specificità, patrimonio comune dell’umanità in lotta per la propria emancipazione; che le svariate esperienze dei popoli in lotta per l’affermazione della propria sovranità e per la difesa della propria lingua e cultura possa incarnarsi nella lotta per un ordine mondiale democratico e di pace; che il lavoro teorico, pratico e tecnico di tutte e tutti noi possa acquisire un significato complessivo e contribuire all’articolazione – sempre problematica, parziale e in traduzione – di un mondo produttivo, politico e istituzionale capace di tenere insieme ordine e apertura al moto perpetuamente rivoluzionario che è la stessa vita.
Per i gruppi sociali subalterni della vecchia Europa ereditare la rivoluzione d’ottobre, incarnarne il mito, significa allora tornare a interrogarsi complessivamente sul proprio ruolo nazionale e internazionale. Significa non lasciarsi andare al pessimismo, alle sirene del decadentismo autoconsolatorio, ma organizzarsi, riprendere con calma e lucidità il filo del lavoro politico, forti di una molteplicità di traduzioni teoriche e pratiche molto rilevanti. Significa, inoltre, pensare insieme il ruolo internazionale e nazionale, che in Europa assume una mostruosa complessità. Occorre ripensare il ruolo dell’Europa nel mondo che con la sua millenaria cultura può confrontarsi alla pari con le altre millenarie culture su un terreno di pace e collaborazione, abbandonando il ruolo di appendice subalterna degli Stati Uniti, che non trovano altra soluzione che la minaccia di una guerra su larga scala. Occorre riprendere seriamente il processo di federazione dei popoli e delle nazioni europee su basi democratiche e popolari, le cui protagoniste siano realmente le classi popolari, sole davvero interessate all’effettivo rilancio economico, culturale e politico dell’Europa.
[1] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Ed. ciritica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1756.
[2] A. Gramsci, Le opere, La prima antologia di tutti gli scritti, a cura di Antonio Santucci, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 176.
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