LA RESISTENZA DELL’IO SOCIALE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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LA RESISTENZA DELL’IO SOCIALE da IL MANIFESTO

La resistenza dell’io sociale

«PERFECT DAYS». Si può cambiare il mondo se non si comincia a cambiare se stessi? Oppure si può cambiare il mondo senza cambiare se stessi?

Enzo Scandurra  01/02/2024

L’articolo di Alberto Leiss – una riflessione politica a proposito del film Perfect Days – ci porta a una considerazione che non si può eludere facilmente: in un momento storico come questo caratterizzato da rigurgiti neofascisti e dalle atrocità delle guerre – usando una categoria non politica, dalla vittoria del Male sul Bene -: è un’opzione praticabile quella di chiudersi nella propria felicità personale delle piccole cose che non suoni come rassegnazione? Tentazione che ci tormenta impotenti ogni giorno apprendendo le notizie sempre più drammatiche su dove va il mondo.

Per chi non avesse ancora visto il film di Wim Wenders, il protagonista , per usare le parole di Leiss, «sembra felice del suo lavoro “umile” di chi pulisce – perfettamente però – le toilette pubbliche di Tokyo, e sorride al sole tra le foglie; non è forse la rappresentazione di una rinuncia alla socialità, una resa al mondo così com’è, mentre è troppo sbagliato e bisognerebbe darsi da fare – con gli altri- per cambiarlo?». La domanda può essere così riformulata: si può cambiare il mondo se non si comincia a cambiare se stessi? Oppure si può cambiare il mondo senza cambiare se stessi? A quest’ultima domanda abbiamo già avuto risposta dalla Storia: tutti i capovolgimenti avvenuti con la violenza hanno stabilito un nuovo ordine ma infine sono falliti.

Rispondere alla prima domanda risulta più difficile. Ingrao diceva che non si può essere felici in un’isola separata dagli altri e aggiungeva che lui era diventato comunista non per altruismo o per qualche amore di un’ideologia ma solo perché lo faceva soffrire la sofferenza degli altri, ovvero la sua scelta era dettata da una sorta di ribellione interna, quasi, diceva, «egoistica».

Si dirà che le due domande non sono tra loro contraddittorie: se si vuole cambiare il mondo bisogna partire da se stessi ma sapendo che senza il contributo e la solidarietà con gli altri non cambieremo mai nulla; del resto cambiare se stessi non significa innanzi tutto accogliere gli altri, tutti gli altri? La domanda sembrerebbe non avere senso. Eppure questo sentimento non di rinuncia, ma di «farsi da parte» sembra farsi strada in molti che pure hanno creduto e ancora credono alla urgenza e necessità dell’impegno politico.

L’Italia va invecchiandosi e quelli che sono stati i nostri Maestri in politica sono deceduti o si sono fatti da parte e con loro sono stati messi in cantina anche quei valori che ci avevano guidati: la solidarietà, l’amicizia, la gentilezza, l’amore per la polemica politica, la sobrietà, la speranza riposta nel futuro, la lotta contro le ingiustizie, l’uguaglianza, la dignità del lavoro, l’educazione dei figli, l’amore per la natura e tante altre cose ancora. Quei valori che animarono il periodo del dopoguerra, negli anni Cinquanta, e che hanno dato vita a quella speranzosa stagione rappresentata dal neorealismo nel cinema.

Dove sono finiti quei valori che tanti di noi avevano abbracciato con passione? Non nel Pd corroso dal neo liberismo e dalla globalizzazione mentre alla sua sinistra una babilonia di lingue confonde i propri adepti che invece di trovare comuni obiettivi, confliggono come i polli di Renzo. Non nell’Europa che ha tradito le proprie premesse e che è diventata ormai campo di battaglia di interessi contrastanti (paesi frugali contro paesi cicale), unica intesa comune è quella monetaria e di accettare passivamente il dominio degli Stati uniti che, a proposito di genocidi, a partire dallo sterminio e sottomissione degli indiani americani, ne sono stati moderni precursori.

Dunque da che parte volgere lo sguardo per tentare di intravedere il cambiamento? Forse lo vedranno le giovani generazioni se la catastrofe climatica non interverrà prima a cancellare ogni forma umana vivente. Anche loro, però, che dovrebbero essere incoraggiati nelle loro pratiche di resistenti, subiscono invece la persecuzione ossessiva dei governi, come è accaduto recentemente per i giovani di Ultima Generazione e Extinction Rebellion con la legge “eco-vandali” appena approvata.

Ritornando al film di Wenders, non è inutile ozio riflettere su quel messaggio di un io-sociale, come forma ultima e disperata di impegno politico. Poi, forse, come diceva Yourcenar, arriverà il momento in cui le parole dimenticate di umanità, giustizia e libertà ritroveranno il senso che noi abbiamo tentato di darle, ma per arrivare a quel momento bisognerà ancora lottare, ancora e per molto.

I nostri giorni imperfetti

IN UNA PAROLA . La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss

Alberto Leiss  23/01/2024

Fa discutere il film di Wim Wenders, Perfect days (ne ha parlato su queste pagine Cristina Piccino…). È già qualcosa in tempi di sonnambulismo, di volgarità, e di violenze diffuse. Si argomenta tra amici e amiche a sinistra. Il protagonista che sembra felice del suo lavoro “umile” di chi pulisce – perfettamente però – le toilette pubbliche di Tokyo, e sorride al sole tra le foglie, non è forse la rappresentazione di una rinuncia alla socialità, una resa al mondo così com’è, mentre è troppo sbagliato e bisognerebbe darsi da fare – con gli altri – per cambiarlo?

A me è piaciuto e ha suggerito una lettura diversa. Razionalizzo sensazioni che immagini e musiche – e gli asciutti dialoghi – mi hanno comunicato intensamente. Hirayama, il protagonista, parla soprattutto a noi uomini. Si capisce che ha alle spalle una vita diversa e probabilmente sbagliata. Non è un “io” asociale. Il suo mestiere è rivolto al benessere comune, una società di corpi reali, intravisti nelle necessità più “basse”, in luoghi che forse contraddittoriamente vogliono nobilitarle esteticamente. È amato dalla nipote in fuga da una situazione familiare che prevede il macchinone con l’autista. Ha una intensa comunicazione erotica con la cuoca (e brava cantante) che lo ricambia con porzioni più generose. Quando la sorprende abbracciata con l’ex marito si ritira forse soffrendo, ma senza competere con l’ “avversario”.

Il quale si rivela anch’egli un maschio desideroso di finire al meglio la propria vita – sbagliata anche la sua? – spezzata dalla malattia. Giocheranno a calpestarsi le ombre. Ascolta cassette a nastro degli anni in cui si sognava – e si praticava con risultati anche discutibili – la rivoluzione, preferisce scattare fotografie con una macchinetta non digitale, annaffia e accarezza ogni mattina le piccole piantine che conserva in uno spazio speciale della sua piccola abitazione. Non è un’idea del tempo su cui meditare? È giusto gettare via tutto quello che l’”innovazione” giudica superato e rimuove?

Che cosa è meglio conservare per arricchire un presente che è l’unica dimensione che davvero abitiamo? La felicità di Hirayama non è una cosa semplice ed è ricca di tristezza e malinconia, come dicono le ultime sequenze del suo volto non sempre sorridente, con il canto bellissimo di Nina Simone. Lui però la cerca la felicità, e fa i conti col proprio desiderio. Qui e ora, non in un futuro paradiso terrestre, magari proiettato in un parto accelerato della storia, più o meno disastroso. Insomma, direi che suggerisce all’agire di noi uomini una via della cura di sé, degli altri e altre, e del mondo, che facciamo molta fatica a pensare e a agire. E si può cambiare in meglio il mondo se non si comincia dal provare a cambiare se stessi? Non so se fosse intenzione del regista, e magari parla anche il suo inconscio.

Ma dalla creatività artistica oggi vengono ogni tanto segnali assai più interessanti del poco che offre un dibattito politico rinsecchito e rancoroso. Non bisognerebbe lasciar cadere la discussione pubblica, per quanto sghemba, sul “patriarcato” che più o meno morto o morente ancora imperversa. Ho visto a Roma una edizione del Flauto magico di Mozart dove il regista Michieletto ha ridotto l’uomo-uccello Papageno e la sua bella Papagena a bidelli di una scuola grigia e polverosa, la Regina della Notte quasi una signorotta borghese un po’ isterica, che prende psicofarmaci. Ma la musica di Mozart, e con lei la magnifica Regina, hanno come sempre trionfato sulle promesse di giustizia e felicità dell’illuminista misogino Sarastro, come sappiamo tragicamente contraddette dalla storia. Sono passati tre secoli. Che si aspetta ancora?

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