LA MEMORIA INTROVABILE NELL’INDIFFERENZA DEI “BUONI ITALIANI” da IL MANIFESTO
La memoria introvabile nell’indifferenza dei «buoni italiani»
INDAGINI. «Ma perché siamo ancora fascisti?», il nuovo saggio di Francesco Filippi, per Bollati Boringhieri. Come il nostro Paese si racconta attraverso il proprio sguardo sul passato
Guido Caldiron 02/06/2020
Non era certo un uomo di sinistra, anzi, per certi versi, il suo nome continua a incarnare ancora oggi il mito di una «destra perbene», più immaginata dai suoi presunti adepti che esistita davvero nella storia del Paese. Nondimeno Indro Montanelli è stato a lungo considerato alla stregua di un’istituzione del giornalismo, e c’è chi si spinge a dire anche della cultura, italiane. Proprio per questo le sue dichiarazioni del 1969, rilasciate a Gianni Bisiach nel corso di una puntata dalle trasmissione televisiva L’ora della verità, racchiudono come meglio non si potrebbe il portato complessivo del volume che Francesco Filippi dedica ai conti che gli italiani hanno lasciato ancora problematicamente aperti con il loro passato più oscuro: Ma perché siamo ancora fascisti? (Bollati Boringhieri, pp. 256, euro 12).
AUTORE di una Storia d’Italia in ventidue volumi che nel corso di più decenni avrebbe venduto qualcosa come venti milioni di copie, forse l’«opera storica» più diffusa dopo i manuali scolastici, a più di vent’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e delle imprese coloniali dell’Italia, anche fascista, Montanelli raccontò sorridendo compiaciuto in quell’occasione delle sue «avventure durante la guerra d’Etiopia», bollata come un’azione sciocca e mal organizzata, e del suo «cosiddetto matrimonio» – il termine era di Bisiach – con una ragazza del posto di dodici anni; «Scusatemi, ma in Africa è un’altra cosa. E così l’avevo regolarmente sposata, nel senso che l’avevo comprata dal padre e che mi ha accompagnato insieme alle mogli dei miei ascari…».
All’incredibile racconto di Montanelli, reagisce in studio la giornalista e scrittrice femminista Elvira Banotti che lo incalza domandandogli se si rende conto di aver di fatto violentato una ragazza di dodici anni con la scusa che «in Africa queste cose si fanno», non ricevendo però alcuna risposta. Montanelli non capisce fino in fondo l’accusa che gli viene rivolta – lo stupro e la pedofilia – che più che indignarlo lo stupisce, «perché non è così che ha raccontato, prima di tutto a se stesso, questa parte della propria vita».
L’INCONSAPEVOLEZZA per il proprio ruolo in guerra, la mancanza di autocritica, a tratti lo smarrimento, dimostrati da quello «che all’epoca è uno degli intellettuali più affermati del Paese», offrono a Francesco Filippi, l’occasione per riflettere sull’egual grado di consapevolezza di centinaia di migliaia di italiani che a quelle e ad altre imprese belliche e coloniali dell’Italia fascista avevano partecipato. Fino ad affermare che l’atteggiamento di Montanelli rifletteva probabilmente un sentimento diffuso anche in buona parte della società italiana che all’epoca «non è stata ancora posta, né lo sarà in seguito, di fronte alle responsabilità del proprio operato».
Storico della mentalità e presidente dell’Associazione di Promozione Sociale Deina che organizza viaggi della memoria e percorsi formativi nelle scuole, Filippi prosegue in quest’opera il lavoro intrapreso con Mussolini ha fatto anche cose buone (Bollati Boringhieri – e recensito su queste pagine il 30 marzo 2019). Se in quel caso si trattava di smascherare le molte «idiozie che continuano a circolare sul fascismo» e che hanno contribuito ad annacquare se non addirittura a legittimare agli occhi di una parte dell’opinione pubblica l’eredità del Regime, ora è al modo in cui gli italiani si sono raccontati attraverso il loro sguardo sul passato che il ricercatore volge l’attenzione. Con la consapevolezza che «i conti con la propria storia» sono prima di tutto la misura di una coscienza di sé allo stesso tempo civile, politica e morale.
IN TALE PROSPETTIVA, il piano dell’opera incrocia volutamente la storiografia e la cultura popolare, le querelle accademiche come i dialoghi cinematografici in un itinerario che si snoda dall’immediato secondo dopoguerra ai giorni nostri. Le diverse fasi della storia nazionale, e il loro intrecciarsi con il contesto globale a partire da quello della Guerra fredda e fino alla «seconda Repubblica», l’emergere di più culture antifasciste e di più letture del fenomeno – dalle impostazioni di Croce, Gramsci e Gobetti fino al confronto tra gli storici intorno alle tesi di De Felice e all’analisi della «guerra civile» di Pavone -, sono analizzate anche e soprattutto nel loro possibile impatto su una società dove, al di là di significative e consistenti minoranze, sembra essersi perpetrata una narrazione all’insegna del doppio registro degli italiani «brava gente» o «vittime» delle circostanze, ma di rado significativamente complici di crimini di massa o carnefici tout court.
Motivo per cui ancora oggi un film sul possibile ritorno di Hitler nella Germania contemporanea – Lui è tornato, tratto dal romanzo di Timur Vermes – è in grado di suscitare un ampio dibattito in quel Paese dove una simile prospettiva è inimmaginabile, mentre l’omologo italiano, Sono tornato, su un Mussolini catapultato dalla macchina del tempo nell’Italia odierna, non suscita alcuna riflessione o sincero allarme visto che non il fascismo, ma la sua aperta banalizzazione e un certo repertorio retorico che sembra ispirarvisi, non hanno mai davvero abbandonato la scena. Tornando anzi in primo piano in epoca di crisi.
IL TITOLO PROVOCATORIO dell’opera di Filippi, quell’«essere ancora fascisti» che in realtà va tradotto nel non essere mai diventati «convintamente antifascisti», interroga perciò quel tentativo di «mantenere pulita la memoria del Paese» non affrontando fino in fondo i crimini che il fascismo ha commesso anche grazie alla connivenza degli italiani, che ha finito per rendere per certi versi «invisibili» quegli stessi crimini, affogati nel mare di indifferenza che gli ha riservato una parte della nostra società. Probabilmente la più consistente.
I conti con il fascismo, oltre le fake news e l’autoassoluzione degli italiani
«MUSSOLINI HA FATTO ANCHE COSE BUONE» DI FRANCESCO FILIPPI
GUIDO CALDIRON ━ ITALIA 30/03/2019
Marc Bloch descriveva in questi termini la genesi e il ricorrente successo delle notizie false, ciò che oggi, almeno in parte, potremmo far rientrare entro la categoria delle fake news: «probabilmente nascono spesso da osservazioni individuali inesatte o da testimonianze inesatte, o da testimonianze imprecise, ma questo accidente originario non è tutto; in realtà da solo non spiega niente. L’errore si propaga, si amplia, vive infine a una sola condizione: trovare nella società in cui si diffonde un terreno di coltura favorevole». «In esso – aggiungeva il celebre storico – gli uomini esprimono inconsapevolmente i propri pregiudizi, gli odi, le paure, le proprie forti emozioni. (…) Solo grandi stati d’animo collettivi hanno il potere di trasformare in leggenda una cattiva percezione».
È dalla consapevolezza di quanto radicato e pervasivo possa essere questo elemento che muove Francesco Filippi, storico della mentalità e presidente dell’Associazione di Promozione Sociale Deina che organizza viaggi della memoria e percorsi formativi nelle scuole, nel suo Mussolini ha fatto anche cose buone (Bollati Boringhieri, pp.132, euro 12). In quella che si presenta come una sorta di guida, a tratti giustamente ironica ma rigorosissima nella sostanza, tesa a smascherare le molte «idiozie che continuano a circolare sul fascismo», Filippi passa in rassegna quelli che lungi dall’apparire come innocenti luoghi comuni, hanno contribuito in realtà a sedimentare presso una fetta non secondaria dell’opinione pubblica del nostro paese una visione che quando non si tinge dei colori della nostalgia appare consolatoria o autoassolutoria.
Dal presunto «primato morale» di un condottiero dalle mani pulite, passando per il ruolo di edificatore dello stato sociale totalitario, «economista» e «costruttore», capace di guidare in prima persona la campagne di bonifica delle paludi, fino allo «statista» e al capo militare «umanitario» e perfino al politico che avrebbe offerto alle donne «un nuovo ruolo nel paese», la figura di Benito Mussolini è passata al vaglio della ricerca storica e delle fonti d’archivio per essere infine ricondotta alla sua dimensione reale, ripulita dal belletto della propaganda di regime, dalle omissioni e i travisamenti operati dalla censura dell’epoca come delle falsificazioni interessate del dopoguerra. Come il Ventennio e il suo epilogo repubblichino, l’immagine del duce appare perciò finalmente nitida in quel misto di ferocia e miserabilità che scandì, dall’ascesa alla caduta, la stessa terribile epopea del fascismo.
Sintetizzando in un testo agile, e di facile e piacevole consultazione, il ricco lavoro storiografico che ha già demolito da tempo le ricostruzioni di comodo sulla presunta «positività» di taluni aspetti dell’esperienza fascista e della guida di Mussolini, il volume di Filippi coglie però anche un’urgenza frutto del contesto attuale. Trasformare la vicenda storica del fascismo in una sorta di «fiaba», quasi «un racconto mitico di felicità perduta» non attiene più soltanto alle mire della destra neofascista, e dei suoi eredi politici, desiderosi di nuova legittimità, quanto piuttosto al desiderio diffuso degli italiani «brava gente» di assolversi quanto al passato per meglio illudersi quanto al presente. «Pensare a un ipotetico passato positivo lascia una speranza nell’animo di chi è scontento del proprio presente. – spiega non a caso Filippi – In un momento di velocità e valori fluidi, avere un posto sicuro e tranquillo in cui rifugiarsi è rinfrancante, anche se questo posto è una memoria falsa. Costruire balle sul passato serve anche, nel caso di Mussolini, a mettere in piedi un racconto dell’oggi efficace e semplice, una prospettiva a cui tendere».
Più che il ritorno del duce – come suggeriva ironicamente il film Sono tornato -, d’attualità nel nostro paese sembra essere la ricerca dell’«uomo forte», del leader carismatico cui affidarsi per lenire le proprie paure o dar corpo al proprio rancore. In questo senso, «la base di un possibile futuro totalitario passa anche dalla riabilitazione del passato totalitario». Da qui la necessità di fare i conti una volta per tutte con le bugie sul fascismo «buono».
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