LA FELICITÀ POSSIBILE E IL CAPITALISMO da IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LA FELICITÀ POSSIBILE E IL CAPITALISMO da IL FATTO

La felicità possibile e il capitalismo

LA SUA VISIONE – Per il sociologo, “il progresso tecnologico, arricchito dall’intelligenza artificiale e dall’industria 4.0”, potrebbe liberare l’uomo dalla catena del lavoro come unica ragione di vita. Ad alcune condizioni

PIERO BEVILACQUA  29 SETTEMBRE 2023

Negli ultimi 20 anni, insieme a Luciano Gallino, Domenico De Masi ha dato uno dei contributi più originali al pensiero sociologico contemporaneo. Una rara ragione di vanto della cultura italiana nello scenario internazionale. Il primo edificando un monumento analitico sulle forme che ha assunto il capitale finanziario, il secondo restituendoci un quadro di straordinaria ricchezza delle vicende del lavoro industriale nel 900. Ma rispetto a tanta sociologia, De Masi si è sempre distinto per una vocazione mai smarrita: pensare la propria disciplina come una leva per sollevare la condizione umana, indirizzare il gigantesco potenziale produttivo del capitalismo verso fini di generale emancipazione e benessere collettivo. In questo egli ha fatto propria, arricchendola con decenni di studi e lavori sul campo, la grande lezione di Marx.

Nel suo Il lavoro nel XXI secolo (Einaudi, 2018) De Masi prefigurava ormai come inevitabile che “il progresso tecnologico, arricchito dall’intelligenza artificiale, e dall’industria 4.0 mirerà alla liberazione del lavoro per lasciare all’uomo le attività propriamente ‘umane’ in cui studio, lavoro e tempo libero finiscono per coincidere”. Ma non era un’utopia proiettata nel futuro: “Già oggi basterebbe che tutti i cittadini in grado di lavorare dedicassero un ventesimo del loro tempo di vita per soddisfare i bisogni materiali dell’intera umanità” (La felicità negata, Einaudi, 2022,) Grazie al patrimonio tecnologico di cui disponiamo, noi potremmo consentirci “di coniugare il lavoro per produrre ricchezza, con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria”.

Non è certo un azzardo teorico. De Masi conosceva bene il gigantesco incremento che la produttività del lavoro aveva realizzato nel secondo 900 e nel nuovo millennio.

Ma questa straordinaria potenzialità delle società industriali, che oggi potrebbe offrire all’umanità una ben diversa condizione collettiva, è stata repressa, il corso di una storia possibile è stato deviato. Marx aveva mostrato la capacità del capitale di conculcare queste sue possibilità di emancipazione, denunciando “il paradosso economico che il mezzo più potente per l’accorciamento del tempo di lavoro si trasforma nel mezzo più infallibile per trasformare tutto il tempo della vita dell’operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale” (Il capitale, I, 1867). Il capitalismo non evolve naturalmente verso la liberazione del lavoro, se non è costretto dal conflitto operaio. E infatti ci son voluti due secoli di lotte operaie per portare la giornata lavorativa a una misura tollerabile.

Ma sul finire del 900, questo sentiero “progressista viene deviato e sbarrato. Le rivendicazioni operaie anziché finalizzate all’accorciamento della giornata lavorativa vengono indirizzate a richieste salariali, rese sempre più necessarie da bisogni indotti. Gli operai e le loro donne vengono assorbiti nel lavoro per soddisfare i desideri crescenti inventati dalla società dei consumi. Come ha ricordato Gary Cross, “Il consumismo non costituisce uno stadio inevitabile dello sviluppo industriale, quanto piuttosto una scelta” (Tempo e danaro, il Mulino, 1998 ). Negli Usa questa deviazione ha assunto forme parossistiche. Per soddisfare un consumismo sempre più vorace, la giornata lavorativa si allunga indefinitamente, fino a generare quel fenomeno che negli anni 90 viene definito workaholic, “alcolismo da lavoro”. Gran parte dei sindacati occidentali si lasciano trascinare da questa deriva, che indebolisce gli operai, abbrutisce l’etica pubblica, spinge l’economia al saccheggio delle risorse della Terra. E tuttavia non è stata solo responsabilità del movimento operaio. De Masi ricorda quello che ancora sfugge a molti: “La delocalizzazione ha permesso alle società transnazionali di svincolarsi dalle leggi dello Stato-nazione, di svuotare quest’ultimo di significato per sottometterlo alle leggi dello Stato mondiale del capitale” (Lavorare gratis, lavorare tutti, Rizzoli, 2017). La possibilità che il capitale ha guadagnato negli ultimi decenni di sfuggire al conflitto operaio, trasferendosi altrove, ha spento il potente motore che garantiva il continuo “progresso” delle società industriali, la redistribuzione della ricchezza e del tempo di vita di tutti. Tale depotenziamento del conflitto ha un esito pernicioso sempre più evidente, anche perché, ricorda De Masi, “entro il 2025 robot e software creeranno 13 milioni di posti di lavoro, ma ne distruggeranno 22 milioni. Già oggi sono milioni i posti di lavoro – cassieri, operai, commessi, contabili, centralinisti, bancari, agenti di Borsa – inglobati dai software e dai lettori ottici. Un supermercato, per ogni posto di lavoro che crea, ne distrugge sette” (Una semplice rivoluzione, Rizzoli, 2013) L’automazione sta investendo anche mansioni di natura intellettuale, creando inedite potenzialità di liberazione, ma di fatto imponendo una disoccupazione strutturale. È dalla fine del XX secolo che gli operai, nel timore di rimanere disoccupati, accettano in silenzio l’accelerazione dei ritmi di lavoro, gli straordinari obbligatori, gli incidenti e le morti sul lavoro. Come ha ricordato André Gorz, la disoccupazione è diventata “un’arma per stabilire l’obbedienza e la disciplina nelle imprese”.

Questa mutilazione alla radice del conflitto dà il tono a una intera epoca. La decadenza della politica ha qui le sue origini. Un po’ per scelta, un po’ per necessità, i partiti cessano di rappresentare gli interessi collettivi dei ceti popolari, si autodeprivano della loro forza, trasformandosi in ceto che amministra l’esistente, impegnato a riprodurre se stesso. In un mondo sempre più ricco avanza l’infelicità collettiva.

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