LA CLASSE PARLANTE da LA FIONDA
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LA CLASSE PARLANTE da LA FIONDA

La classe parlante

Michele Agagliate   7 Nov , 2025

Nelle democrazie esauste il popolo non vota più per cambiare la realtà, ma per interpretarla. È la finzione fondativa del nostro tempo, il trucco con cui la politica ha trasformato la partecipazione in spettacolo. La destra parla di sicurezza, la sinistra di diritti, ma in entrambi i casi si tratta di linguaggi sostitutivi, surrogati di un discorso ormai proibito: quello sul lavoro. Il lavoro non è più un tema, è una condanna silenziosa, e la povertà non è più un problema collettivo ma una colpa individuale, una macchia morale da nascondere.

Le classi popolari, un tempo protagoniste di battaglie per la giustizia, oggi marciano per paura. Paura del diverso, del migrante, dell’altro; paura di perdere anche quel poco che resta. La destra ha imparato a parlare la lingua delle viscere: non promette futuro, promette difesa. Offre appartenenza al posto dei diritti, risentimento al posto del salario, identità al posto di giustizia. Ha saputo trasformare la rabbia sociale in patriottismo economico, convincendo il povero che il suo nemico non è chi lo sfrutta, ma chi accetta di essere sfruttato a un prezzo più basso. Così dietro lo slogan “prima gli italiani” si nasconde un vecchio meccanismo industriale: comprimere i salari, dividere i lavoratori, stabilire gerarchie di miseria. L’immigrazione, in questo schema, diventa la scusa perfetta per normalizzare lo sfruttamento. Non serve più nasconderlo: basta cambiare il lessico. Si parla di “emergenza”, di “integrazione”, di “umanità”, ma alla fine tutto converge sullo stesso obiettivo: mantenere basso il costo del lavoro e alto il livello del consenso.

Il capitale, che di ipocrisia vive da secoli, ha capito che la compassione funziona meglio della repressione. Non ha più bisogno di padroni con la frusta, gli bastano ONG con la missione. Il profitto si traveste da solidarietà e il potere indossa il volto buono della beneficenza. Chi lavora dodici ore in un magazzino a quattro euro l’ora non è più un oppresso: è un “nuovo cittadino”. E chi denuncia questa truffa viene immediatamente bollato come “reazionario”, come se la denuncia dello sfruttamento fosse di per sé un atto conservatore.

La sinistra, dal canto suo, non ha capito quasi nulla. Ha scambiato la lotta di classe con l’educazione civica, la trasformazione sociale con la sensibilizzazione, la rappresentanza con la testimonianza. Parla un linguaggio corretto, addomesticato, inoffensivo. Difende simboli che non scaldano e cause che non incidono. Si commuove davanti alle parole ma resta indifferente ai fatti. Ha dimenticato che la dignità non è una questione culturale ma una condizione materiale. Il risultato è un Paese che non sa più chi rappresenta chi. Le classi popolari hanno perso la loro voce e in cambio hanno ottenuto un microfono: parlano, gridano, commentano, ma non contano più. Il potere non ha bisogno di censurare: gli basta stancare. Ha trasformato l’indignazione in intrattenimento, la protesta in contenuto, la sofferenza in statistica.

Intanto la macchina economica continua a girare, producendo precarietà come un tempo si producevano merci. Ogni giorno la confeziona come flessibilità e la vende come opportunità. Ogni lavoratore è diventato un ingranaggio di carne, programmato per durare fino all’esaurimento, istruito a sorridere, a essere motivato, a credere che tutto questo abbia un senso. Ma non c’è nessun senso, c’è solo la necessità. Chi possiede il capitale vive di libertà, chi lo genera vive di regole. È la nuova architettura del mondo: il potere si muove, il lavoro resta fermo. Il capitalista non ha più patria, il lavoratore non ha più rappresentanza. È un mondo senza sinistra e senza popolo, ma con un’infinità di slogan. E tutti, da qualunque parte li si ascolti, dicono la stessa cosa: state buoni.

L’illusione del benessere è la più sofisticata delle dittature moderne. Non serve più opprimere: basta intrattenere. La precarietà, un tempo sinonimo di miseria, è stata ribattezzata “flessibilità”. Il controllo si chiama “software”, la sorveglianza “servizio personalizzato”. E il cittadino medio, placato da una promessa di comfort a basso costo, accetta ogni abuso pur di non perdere la connessione. Il mercato non vende più solo beni: vende interpretazioni della realtà. Ha insegnato alla gente come pensare, cosa desiderare e persino come ribellarsi, purché in modo innocuo, purché dentro la cornice prevista. La libertà di parola è salva, ma la parola non cambia più nulla. Le rivoluzioni non nascono più nelle piazze, ma nelle campagne pubblicitarie, e ogni forma di dissenso viene assorbita, digerita, rivenduta come nuovo prodotto.

La sinistra, travolta da questo meccanismo, ha dimenticato la sua missione originaria: difendere chi lavora, non chi si esprime. Si è borghesizzata nel linguaggio, nei costumi, nei valori. Ha smesso di parlare al popolo per parlare del popolo, come se fosse un oggetto da studiare e non una classe da emancipare. Nei suoi congressi si discute di linguaggi inclusivi, ma nessuno parla dei turni massacranti nei magazzini o delle buste paga che non bastano neppure per l’affitto. È una sinistra che lotta per il diritto di essere ascoltata, non per quello di vivere dignitosamente.

Così il popolo ha smesso di fidarsi. Non perché sia ignorante, ma perché è stanco di chi lo guarda dall’alto fingendo di difenderlo. La gente non è meno intelligente, è solo meno rappresentata. E questo è il vuoto che la destra populista ha saputo colmare con slogan semplici, brutali, ma efficaci. Ha sostituito la complessità con la rabbia, la rabbia con l’identità, e ha vinto per sfinimento. Ma la vittoria non è politica, è psicologica: ha convinto milioni di persone che l’ingiustizia è naturale, che la competizione è destino, che la solidarietà è debolezza. Ha disattivato il pensiero critico sostituendolo con un riflesso condizionato: chi è povero se l’è cercata, chi è diverso è pericoloso, chi protesta è ingrato. È la nuova trinità dell’ordine neoliberale: sicurezza, merito, paura.

La sinistra ha reagito come una nobildonna scandalizzata dalla volgarità della plebe. Ha preferito giudicare invece di capire. Non ha visto che dietro ogni voto “sbagliato” c’è una vita stanca, un reddito che non basta, una frustrazione che cerca voce. Ha risposto con ironia, moralismo e superiorità intellettuale, e ha perso tutto. Perché il popolo può sopportare la povertà, ma non il disprezzo.

Oggi non esiste più una classe dirigente, ma una classe parlante: quella che vive di parole, di convegni, di dichiarazioni, mentre il potere vero si muove altrove. Parla di diritti ma non li esercita, di lavoro ma non lavora, di uguaglianza ma vive nel privilegio. È la borghesia progressista dei salotti e dei festival, dei talk show e dei bonus cultura, quella che piange per Gaza e poi investe in armi, che si indigna per i migranti e poi assume in nero la colf. Una generazione di buone coscienze che vuole cambiare il mondo, purché nessuno tocchi il suo conto corrente.

Nel frattempo, i poveri non chiedono più nulla. Non credono nella giustizia, ma nel colpo di fortuna. La lotta di classe è diventata un gratta e vinci. Ogni sconfitta personale viene raccontata come un fallimento individuale, mai come il sintomo di un sistema costruito per escludere. La vergogna ha sostituito l’indignazione, e il silenzio è diventato una forma di adattamento.

Nel XXI secolo non servono più catene per dominare: basta il debito. Il precario è un servo volontario, un cittadino a credito che non può permettersi di disobbedire. È l’economia della paura, in cui il salario non serve più a vivere ma a non morire. E tutto questo accade con il consenso generale, con l’approvazione mediatica, con la benedizione delle democrazie.

La società, intanto, continua a recitare la parte dell’innocente. Finge di non sapere che ogni progresso economico è costruito su uno sfruttamento invisibile, che ogni comfort occidentale ha un prezzo pagato altrove, da altri. Ci scandalizziamo per la schiavitù nei libri di storia, ma indossiamo le sue versioni moderne ogni mattina. Il mondo non è più diviso tra ricchi e poveri, ma tra chi può scegliere e chi non può permetterselo. Eppure tutti credono di essere liberi.

La libertà, del resto, è diventata una parola di marketing. Si vende insieme agli smartphone, ai voli low cost, alle promozioni “soddisfatti o rimborsati”. Un tempo significava autodeterminazione, oggi significa “accetta i termini e condizioni”. Non esiste più il cittadino, ma il consumatore con diritto di reso. L’unico dovere è restare produttivi, l’unico peccato è smettere di funzionare.

Le democrazie liberali si vantano di non avere ideologie, ma ne hanno una sola: la crescita. È una religione secolare che promette salvezza attraverso il PIL e redenzione attraverso la produttività. La politica è ridotta a gestione aziendale, la morale a probabilità, la vita a performance. Il capitalismo non chiede fedeltà, chiede partecipazione: basta continuare a comprare, a lavorare, a sorridere davanti alla telecamera del badge.

I media, nel frattempo, non informano: addestrano. Non dicono cosa pensare, ma come sentirsi. La paura è diventata un palinsesto, la superficialità un linguaggio. Viviamo in un flusso costante di emozioni pronte all’uso, confezionate per impedire la riflessione. La velocità è la nuova censura: non serve più nascondere la verità, basta renderla noiosa.

Mentre il potere si smaterializza, il popolo si virtualizza. La politica è diventata uno spettacolo di ombre, dove i protagonisti cambiano ma il copione resta lo stesso. I leader si fingono outsider, i tecnocrati si fingono umani, i cittadini si fingono spettatori disinteressati. Tutti mentono, ma nessuno se ne accorge, perché la menzogna è diventata un bene comune. La destra difende la nazione ma vende il Paese, la sinistra difende i diritti ma dimentica i doveri sociali, e il centro difende sé stesso, che è l’unica cosa che sa fare. Il risultato è un sistema che non rappresenta, ma simula la rappresentanza: una democrazia di facciata con l’anima in outsourcing.

Anche la cultura, un tempo critica, è diventata un marchio. Ogni pensatore ha il suo podcast, ogni idea la sua copertina, ogni dissenso la sua linea di merchandising. La ribellione è un settore redditizio, l’indignazione un genere letterario. Viviamo in un’epoca in cui tutto si può dire, purché non cambi nulla.

Una società che non distingue più tra progresso e dipendenza è già al tramonto. E noi siamo quel tramonto: illuminati a LED, iperconnessi, stanchi. Un Paese che scambia la luce per vita e la connessione per libertà. Forse non è più questione di cambiare il mondo. Forse, semplicemente, bisogna smettere di accettarlo.

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