GUERRA, PROPAGANDA E CONFORMISMO da IL FATTO
Guerra, propaganda e conformismo
Dal Vietnam a oggi – Non solo l’intervento degli Stati, nei conflitti c’è un modo per silenziare chi dissente: far parlare le élite, principali espressioni dei media. Gli Usa insegnano: così si mantiene il consenso
Noam Chomsky e Nathan J. Robinson 30 Ottobre 2024
Nella sua prefazione inedita alla Fattoria degli animali, George Orwell commentava acutamente il fatto che una censura delle “idee impopolari” può verificarsi anche dove sia diffusa la libertà di parola.
Orwell è oggi celebre per la sua critica al controllo e alla costrizione del pensiero nelle distopie totalitarie. Utili ma meno note sono le sue idee sulle società libere. In tali società, sostiene Orwell, la censura non è imposta dallo Stato. Eppure esiste, ed è efficace nel silenziare chi dissente dall’“ortodossia dominante”. Spiegandone il funzionamento, Orwell menzionava l’interiorizzazione dei valori della sottomissione e del conformismo, e il controllo della stampa da parte di “persone ricche che hanno tutte le ragioni per comportarsi in modo disonesto su certi argomenti importanti”.
L’intuizione di Orwell era corretta. Una società democratica può produrre conformismo intellettuale e soffocare concezioni impopolari. La stampa può essere libera nel senso che il governo politico non vi interferisce. Ma se coloro che possiedono la stampa scelgono di non mettere in luce determinati punti di vista, questi hanno poche possibilità di raggiungere il pubblico. Scelte del genere vengono fatte ogni giorno e possiamo razionalmente attenderci che l’informazione rifletta orientamenti e interessi di chi ne possiede i mezzi. (…)
Gli Stati Uniti sono un Paese parecchio libero quando si tratta di ciò che è legalmente consentito dire. Però i meccanismi descritti da Orwell funzionano tuttora, e danno forma a ciò che viene ascoltato e letto in effetti. Le principali compagnie mediatiche non presentano opinioni identiche, né sostengono senz’altro ogni politica del governo, ma riflettono in maniera affidabile i presupposti e i punti di vista delle élite statunitensi. Contengono critiche e dibattiti vivaci, ma tutti in linea con un certo sistema di assunti e principi; i quali costituiscono un potente consenso d’élite, che i singoli attori hanno interiorizzato per lo più inconsapevolmente.
Uno di questi presupposti non dichiarati, onnipresente nel discorso politico statunitense, è l’idea che gli Stati Uniti abbiano il diritto innato di dominare il mondo. (…) Si prenda l’invasione dell’Iraq. Quando cominciò a produrre un bagno di sangue fuori controllo, nei media statunitensi si diffusero parecchie critiche alla guerra. Ma, come documenta Anthony DiMaggio in un utile studio sulla copertura mediatica della “guerra al terrorismo”, le critiche da parte dei principali commentatori liberali riguardavano la questione se la guerra fosse stata condotta in modo efficace, non innanzitutto la sua legittimità. Bob Herbert del New York Times definì la guerra “mal gestita”, “non sostenibile” e “impossibile da vincere”, priva di ogni “strategia coerente”. Gli editorialisti del Los Angeles Times hanno parlato di “un’occupazione terribilmente maldestra”. (…) Come osserva DiMaggio, queste critiche apparentemente “contrarie alla guerra” sono in realtà critiche a favore della guerra, poiché evidenziano “errori militari correggere i quali contribuirebbe a un’occupazione e a uno sforzo bellico più fluidi”. (…) È lecito ipotizzare che, tentando di raggiungere i propri obiettivi, gli Stati Uniti commettano errori, ma gli obiettivi non sono mai messi in dubbio. Ad esempio, in un editoriale che tracciava un bilancio della guerra del Vietnam dopo la sua conclusione, il New York Times definì in questo modo i termini della discussione: “Alcuni americani credono che la guerra (…) si sarebbe potuta combattere diversamente”, mentre secondo altri “la possibilità di un solido Vietnam del Sud non comunista è sempre stata un mito”. La “lite è ancora in corso” scriveva il quotidiano. Per i falchi potevamo vincere. Per le colombe no. Un dibattito del genere è consentito. Si notino anche qui le parole chiave: “sbagliato”, “inadeguato”, “tragico”, “errore”. Ma che dire di un’altra posizione concepibile: quella secondo cui, tanto per cominciare, gli Stati Uniti non avevano alcun diritto legale o morale di intervenire in Vietnam. (…)
Julian E. Zelizer, professore di Storia e relazioni pubbliche all’Università di Princeton, esprime la concezione dominante in politica estera quando scrive che “l’unica costante” della nostra storia è che, “nella gestione della sicurezza nazionale, i presidenti incorrono spesso in sviste, errori di calcolo e persino cantonate madornali”. Sviste. Errori di calcolo. Cantonate. I fini non vengono messi in discussione. Solo i mezzi per raggiungerli, magari avventati. Controversie altrettanto confinate alla tattica, che presuppongono la legittimità del potere globale degli Usa, si trovano ripercorrendo tutta la storia delle guerre statunitensi. (…) Il “colombismo” liberale – mettere in dubbio le tattiche ma non gli obiettivi – si riscontrava sulla stampa negli anni Ottanta, quando gli usa sostenevano i Contras e questi terrorizzavano il Nicaragua. Il Washington Post, ad esempio, criticò il sostegno ai Contras per motivi tattici. Che il Nicaragua fosse una minaccia di tipo sovietico e questo rendesse necessario un conflitto era “un dato di fatto”. Facendo eco all’amministrazione Reagan, il comitato editoriale del giornale considerava i sandinisti “una grave minaccia alla pace civile e alla democrazia del Nicaragua e alla stabilità e alla sicurezza della regione”, concordando sulla necessità di “contenere (…) la spinta aggressiva dei sandinisti”; riteneva tuttavia che “la forza dei Contras non sia uno strumento utile”. Non era il “miglior modo disponibile” per indebolire il governo nicaraguense. La legittimità del nostro uso della forza non veniva affatto messa in discussione. E la guerra in Afghanistan ha suscitato tra i critici liberali lo stesso genere di preoccupazioni. (…)
Quando finisce una guerra, negli Stati Uniti non si ha nessun esame di coscienza nazionale, tranne che per verificare se quella guerra sia stata o meno un abbaglio. Come abbiamo visto, la narrazione comune della guerra del Vietnam è ben rappresentata da Ken Burns, secondo cui essa fu “iniziata in buona fede da persone perbene a seguito di fatali malintesi, un’eccessiva fiducia nei mezzi dell’America ed errori di calcolo della Guerra fredda”. Mentre in Iraq la carneficina si aggravava, Nicholas Kristof scriveva sul New York Times che “gli iracheni stanno pagando un prezzo tremendo per le giuste intenzioni dei conservatori, che in buona fede volevano liberarli”.
Come osservano due massmediologi statunitensi, Adam Johnson e Nima Shirazi, i media caratterizzano retrospettivamente l’uso della forza da parte degli Stati Uniti come “spiacevole, imperfetto, sbagliato, ma in ultima analisi il sottoprodotto accidentale di un impero nobile e giusto che, per lo più, aveva buone intenzioni”. Come i due studiosi mostrano, una volta che le nostre guerre diventano impopolari, “si sviluppa una fucina artigianale di erudizione e pseudostoria”, volta ad affermare l’idea che “si sia trattato di un incidente, di un errore, di un malfunzionamento dei servizi segreti, che li muoveva la preoccupazione per la libertà e la democrazia”. Johnson e Shirazi paragonano la situazione a un avvocato che cerchi di far condannare un cliente per omicidio colposo invece che per omicidio di primo grado, un omicidio colposo necessario perché, nella mitologia statunitense, gli Stati nemici sono “i cattivi dei film di James Bond”, autori di ogni malvagità, mentre noi siamo gli innocenti benefattori. Molte questioni e interrogativi cruciali non vengono neppure sollevati. Afghanistan e Iraq sono praticamente scomparsi dai radar. Quando leggiamo che gli Stati Uniti hanno condotto un attacco con i droni in Iraq, non ci viene detto che il governo iracheno si oppone vigorosamente alle violazioni della sua sovranità, e la faccenda non suscita nessun dibattito. Dei Paesi che subiscono gli effetti a lungo termine dei nostri “interventi”, da Haiti al Laos, si tratta superficialmente o per nulla. Le “nonpersone” di tutto il mondo potrebbero anche non esistere.
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