GLI INDIOS, IL NO AL RDC E I CAPRICCI DEI RE da IL FATTO
Gli indios, il no al Rdc e i capricci dei re
CARTA STRACCIA – Il Reddito risponde – come il salario minimo – al dettato costituzionale che prescrive il compimento della dignità delle persone. Le “spiegazioni” di Meloni & C. sono soltanto giochetti
LUCA SOMMI 17 AGOSTO 2023
Il potere politico nasce per contrastare il potere economico, questo si sa. Nelle società pre-politiche i ricchi decidevano tutto e i poveri subivano, anche questo si sa. La politica nasce, dunque, per aiutare chi non ce la fa, il suo fine ultimo – e sicuramente il più nobile – è appunto quello di cancellare le diseguaglianze sociali, le sperequazioni che la vita cinicamente ci propone. Però questo non sembra ancora chiaro a tutti. E dire che questi princìpi sono delineati in modo netto nella nostra bella, bellissima Costituzione – forse davvero “la più bella del mondo”: l’art. 3, a titolo di esempio, è forse uno dei più belli dell’intera Carta. Perché? Perché nonostante la nostra Costituzione sia una norma dispositiva, ossia dispone i princìpi fondanti della Repubblica, nel suo terzo articolo contiene un’esortazione esplicita, quasi un obbligo a “fare qualcosa”. Nel suo passaggio fondamentale, infatti, recita così: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Sembra una poesia, un lusso democratico: rimuovere gli ostacoli che impediscano lo sviluppo della persona. E che cos’è, ad esempio, il Reddito di cittadinanza se non questo? Un ammortizzatore sociale straordinario che va a dare corpo al precetto costituzionale rivolto a chi, in un momento meno fortunato della sua vita, si trova in difficoltà tale da non poter dare significato alle proprie ambizioni, alla propria dignità. Un articolo che idealmente si lega all’art. 36 della Carta, che dice: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.” È “larga” la nostra Carta, dice – si badi bene – che la retribuzione deve garantire un’esistenza dignitosa non solo al lavoratore, ma anche alla sua famiglia. A proposito di salario minimo nel nostro Paese ci son contratti collettivi (i cosiddetti contratti fiduciari in primis), pattuiti tra le parti sociali (quindi non i cosiddetti “pirata”) che stabiliscono una retribuzione di circa 5 euro lordi all’ora: non serve citare l’inflazione odierna né il carovita di questi gironi per dirci che 5 euro lordi all’ora sono una contrattazione che è di fatto fuori dal dettato costituzionale. E che, evidentemente, laddove non arriva la contrattazione collettiva deve necessariamente arrivare quella Repubblica (lo Stato) citata, anzi quasi additata, dalla Costituzione. In Germania, ormai lo sanno anche i sassi, il salario minimo stabilito per legge c’è dal 2015, venne fissato a 8,50 euro dal governo Merkel. Poi è diventato di 9,82 euro all’ora e nel 2022 il governo tedesco lo ha alzato prima a 10,45 euro, poi a 12 euro (e forse arriverà a quasi 13 euro a gennaio 2025). È tutto questo, si badi, senza nessun conflitto con la contrattazione collettiva: il tetto minimo non è un incentivo al ribasso ma solo, direbbe monsieur Lapalisse, un tetto minimo sotto al quale non si può andare, anche di fronte a un sindacato diciamo distratto. Il problema vero – e che la maggioranza di Governo non può dire – è che il salario minimo è una battaglia di Giuseppe Conte e del M5S in prima istanza – era uno dei punti sui quali iniziò a cadere il Governo Draghi n.d.r. – e poi in seguito anche meritoriamente del Pd targato Elly Schlein, quindi non si può fare, pena dar ragione alle opposizioni. Però il combinato disposto di ridimensionamento del Reddito di cittadinanza e il no al salario minimo aumenteranno il bacino di povertà in Italia, già sufficientemente ampio, mentre sull’altra sponda del fiume si condonano ai ricchi le “distrazioni” fiscali e si consente loro addirittura di riportare i capitali che hanno all’estero. Una guerra tra poveri e ricchi fuori tempo massimo, che riporta a cronache antiche. Una ce la racconta Montaigne nei suoi Saggi. Nel 1562 a Rouen, in Francia, il filosofo incontra gli indios brasiliani della colonia francese di Rio de Janeiro, appena stati al cospetto di re Carlo IX, allora dodicenne. E chiede loro cosa fosse la cosa più sorprendente che avessero visto – Montaigne ribalta la prospettiva: non più noi che giudichiamo le società tribali, ma loro che analizzano noi (modalità Lettere persiane di Montesquieu, per intenderci). Questi risposero con saggezza disarmante: la cosa più strana per loro, indigeni quasi primitivi, era che tutti prendessero ordini da un fanciullo, soldati compresi. Non comprendevano per quale mistero tutti fossero asserviti a un bambino. Ma la cosa davvero incredibile agli occhi degli indios era un’altra: girando per la città avevano notato che era abitata per metà da uomini “ben pasciuti e satolli di ogni bene” e per l’altra metà da persone senza cibo, emaciate, prive di tutto, che mendicavano per le stesse strade camminate dai primi. Gli indios, figli di una società evidentemente fanciulla rispetto alla nostra, capivano che quella diseguaglianza – oggi diremmo tra ricchi e poveri, appunto – non era concepibile. Anzi, si stupivano del fatto che i poveri “non si avventassero alla gola di quelli, né incendiassero le loro dimore”. Montaigne racconta questo episodio per rimarcare quanto anche un “mondo bambino”, o forse proprio per questo – perché ancora puro – sostenesse la giustizia sociale e l’uguaglianza come valori assoluti. Non erano di sinistra gli indios, erano solo nella giustezza della cose. Se in Italia sono circa 4 milioni i lavoratori e le lavoratrici che guadagnano meno di 9 euro all’ora perché non arrivare a quella soglia per tutti, con o senza contratti collettivi? Perché, dice il governo, si rischierebbe un gioco al ribasso. Prendiamo a prestito le parole di Gramsci per rispondere: “Sgambetti logici per apparire nel vero, che falsano scientemente i fatti per apparire i trionfatori, che per ubriacarsi della vittoria di un istante sono insinceri o affrettati”. E poi ci si chiede perché Gramsci sia ancora attuale, o perché lo sia ancora Marx: perché fissavano la dignità minima dell’esistenza collettiva. È il contratto sociale di Rousseau, che in soldoni – per dirla a grana grossa – ci dice che facendoci comunità sostituiamo i diritti alla forza (del più forte, del più ricco). Oppure ha ancora ragione Marx, per buona pace dei neoliberisti, quando in Miseria della filosofia scriveva: “Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà morale e fisica viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore.” Delle due una: o ha ragione Marx o ha torto Meloni. Scegliete voi.
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