È ANCORA ATTUALE LA CATEGORIA DELL’IMPERIALISMO E QUALI SONO I PAESI IMPERIALISTI? da PER IL SOCIALISMO DEL XXI SECOLO
E’ ancora attuale la categoria di imperialismo e quali sono i paesi imperialisti?
Domenico Moro 28/10/2024
Il termine di imperialismo è associato ai più importanti imperi del passato come quello romano o quello persiano. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento il termine di imperialismo è stato ripreso per descrivere la nuova realtà mondiale, caratterizzata dalla formazione di diversi imperi facenti riferimento soprattutto agli stati dell’Europa occidentale. Per questo il periodo tra la seconda metà dell’Ottocento e il 1945, quando inizia la decolonizzazione, è stato definito l’età degli imperi. L’impero più vasto era quello britannico, seguito da quello francese, spagnolo, portoghese e olandese, che erano gli imperi più antichi. Tra gli ultimi Paesi a partecipare alla corsa alle colonie ci furono gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania, il Belgio e l’Italia.
L’imperialismo moderno si differenzia da quello antico perché non rappresenta soltanto un espansionismo militare bensì un espansionismo in primo luogo economico, basato sulla conquista di territori da sfruttare e utilizzare economicamente, le colonie. L’imperialismo è una fase dello sviluppo del capitalismo, caratterizzando in modo peculiare l’economia dei Paesi imperialisti. Dal punto di vista globale l’imperialismo è un sistema basato sulla divisione tra un centro metropolitano, i Paesi imperialisti, e una periferia e una semiperiferia, entrambe sfruttate e oppresse dal centro.
Dal momento che dopo il 1945 è iniziato il processo di decolonizzazione e le ex colonie sono divenute stati indipendenti, si può parlare dell’esistenza di un imperialismo ancora oggi? Riteniamo di sì, ma con delle differenze. Quella di imperialismo rimane, quindi, una delle più importanti categorie di interpretazione della realtà. Per analizzare l’imperialismo attuale e definire le novità rispetto a quello della prima metà del Novecento dobbiamo partire da un testo che fu fondamentale nell’interpretazione dell’età degli imperi, “L’imperialismo. Fase suprema del capitalismo” di Lenin.
Lenin scrive l’Imperialismo nel 1916 a due anni dall’inizio della Prima guerra mondiale, che aveva già provocato milioni di morti. Lenin descrive l’imperialismo come la causa dello scoppio della guerra determinata dal conflitto, specialmente tra Inghilterra e Germania, per il controllo imperialista delle colonie. L’imperialismo, per Lenin, non è però soltanto militarismo, è soprattutto una fase del capitalismo, una fase avanzata che si presenta una volta che i singoli Paesi sono arrivati ad un livello di sviluppo capitalisticamente elevato.
Quindi, come detto sopra, il militarismo e l’espansionismo aggressivo così come l’ostilità reciproca tra gli stati imperialisti e la guerra mondiale che ne deriva sono una conseguenza dell’economia capitalistica. Quali sono le caratteristiche dell’economia capitalistica nella fase imperialista? Le principali, secondo Lenin, sono le seguenti cinque:
- la concentrazione della produzione e la centralizzazione del capitale che porta alla creazione di monopoli che sostituiscono la libera concorrenza;
- la fusione di capitale bancario e industriale e il formarsi sulla base di questa fusione del capitale finanziario;
- la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale rispetto all’esportazione di merci;
- il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo;
- la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.
Le fonti ispiratrici di Lenin: Hobson e Hilferding
L’opera di Lenin prende spunto dal lavoro di due economisti. Di questi il primo è John Atkinson Hobson, un liberale di sinistra, che scrive nel 1902 un’opera fondamentale, “L’imperialismo”, in cui analizza in particolare l’imperialismo inglese. L’opera si divide significativamente in due parti: l’economia dell’imperialismo e la politica dell’imperialismo. Ci concentreremo sulla prima parte e in particolare sul capitolo VI, “Le radici economiche dell’imperialismo”, perché come dice Hobson “È inutile attaccare l’imperialismo o il militarismo nella loro manifestazione politica se non si punta l’ascia alla radice economica dell’albero e se le classi che hanno interesse all’imperialismo non vengono private dei redditi eccedenti che cercano questo sfogo.”[i]
Alla base dell’imperialismo Hobson mette la grande concentrazione della ricchezza nelle mani di un piccolo numero di capitani d’industria. L’aumento vertiginoso dei loro redditi – derivati dagli enormi profitti delle loro imprese – non è controbilanciato da un adeguato aumento dei loro consumi. A causa di questo si crea un aumento dei risparmi senza precedenti. Di conseguenza, la capacità produttiva eccede la domanda del mercato interno e le attività manifatturiere diventano sature di capitali. Quindi, il risparmio non trova collocazione né nell’acquisto di merci né nell’investimento in attività produttive industriali all’interno. La sola soluzione potrebbe essere l’esportazione di merci e di capitali verso i mercati esteri. Questo è, però, impossibile, perché nel frattempo i Paesi più sviluppati hanno adottato il protezionismo, difendendo le loro manifatture, specialmente dalla concorrenza inglese, con alti dazi doganali. Quindi, il protezionismo spinge verso l’espansione nei Paesi meno sviluppati e privi di dazi doganali come la Cina, il Pacifico e il Sud America.
Un altro aspetto molto importante nella espansione verso i mercati della periferia è il controllo stretto e diretto degli uomini d’affari sulla politica, il cui appoggio è necessario per intraprendere una politica imperialista. Una spinta ulteriore all’imperialismo è data dallo sviluppo di cartelli, cioè di accordi tra imprese per controllare il mercato interno mediante la definizione di quote di produzione e prezzi stabiliti. I cartelli hanno lo scopo di ovviare alla libera concorrenza tra imprese e alla conseguente sovrapproduzione di merci mediante una regolamentazione dell’attività produttiva all’interno che, però, richiede una compensazione attraverso l’apertura di mercati esteri. L’imperialismo, conclude Hobson, è lo sforzo dei grandi controllori del mercato interno di trovare sbocchi che possano assorbire merci e capitali che essi non sono in grado di vendere o usare in patria.
Hobson non è solo un economista ma è anche un riformatore sociale. Per lui l’imperialismo e il conseguente militarismo possono essere superati mediante la riduzione dell’eccesso di risparmio. Questo è possibile attraverso la redistribuzione della ricchezza. Se il reddito in eccesso dei proprietari venisse drenato verso alti salari o verso la comunità, attraverso una maggiore tassazione dei ricchi, in modo da venire speso anziché risparmiato, non ci sarebbe più bisogno di combattere per impossessarsi di mercati esteri. Le riforme sociali auspicate da Hobson sono di due tipi: quelle condotte dal movimento operaio (salari, pensioni, indennità) e quelle condotte dal socialismo statalista. Per questo, secondo Hobson il movimento sindacale e il socialismo sono nemici naturali dell’imperialismo. La storia del Novecento si incaricherà di smentire gli auspici di Hobson sulla vulnerabilità dell’imperialismo: sia il movimento operaio sia il partito laburista britannici, nella loro parte maggioritaria, appoggeranno il loro imperialismo nazionale, specialmente quando si tratterà di votare per i crediti di guerra nel 1914. Lo stesso Lenin elaborerà la categoria di aristocrazia operaia per indicare quella parte della classe operaia che, beneficiando dei superprofitti imperialisti, costituisce la base sociale del revisionismo socialista.
La seconda opera da cui Lenin trae spunto è il “Capitale finanziario” di Rudolf Hilferding (1910), un marxista austriaco dirigente della socialdemocrazia tedesca. Ci concentreremo sulla parte V, “Per una politica economica del capitale finanziario”, e in particolare sul capitolo XXII, “L’esportazione di capitale e la lotta per lo spazio economico”.
La categoria più importante che Lenin riprende da Hilferding è quella di capitale finanziario. Il capitale finanziario è la nuova forma che assume il capitale all’inizio del Novecento. Essa consiste nella integrazione delle tre tipologie di capitale, quella commerciale, quella bancaria e quella industriale, tutte e tre poste sotto la direzione dell’alta finanza. Il capitale finanziario è, secondo Hilferding, il massimo fattore di accrescimento dell’importanza della vastità dello spazio economico. La concentrazione nelle banche di tutto il capitale monetario porta all’esportazione pianificata di capitale, come esportazione di valore destinato a generare plusvalore all’estero. L’esportazione di capitale all’estero è sia un affrancamento dei limiti del mercato interno sia fattore di attenuazione delle crisi connaturate al capitalismo. Il dominio incontrastato sui nuovi territori coloniali è lo strumento per impedire l’esportazione di capitale da parte di altri Paesi.
Anche secondo Hilferding il protezionismo e i cartelli svolgono un ruolo importante nello sviluppo dell’imperialismo di questo periodo. L’obiettivo di protezionismo e cartelli è la soppressione della concorrenza. C’è maggiore facilità a sopprimere la concorrenza se parti del mercato mondiale vengono incorporate nel mercato nazionale e cioè se si conduce una politica coloniale. In sintesi gli scopi del capitale finanziario sono tre: a) creare un’area economica la più vasta possibile; chiudere quest’area entro barriere doganali; c) fare di quest’area una zona di sfruttamento esclusivo del capitale nazionale imperialista.
Da ciò deriva la reciproca ostilità fra i Paesi europei e l’aspirazione a incorporare mercati stranieri neutrali anziché Paesi ad alto grado di sviluppo capitalistico. Quest’ultima affermazione di Hilferding trova smentita negli obiettivi della Germania guglielmina durante la Prima guerra mondiale che prevedevano la subordinazione e finanche l’annessione di parti del Belgio e della Francia e il progetto di Mitteleuropa come nuova area economica accanto all’America, alla Russia e all’impero britannico [ii], e soprattutto la politica della Germania nazista che aveva come scopo la subordinazione semicoloniale anche dei Paesi sviluppati dell’Europa occidentale conquistati.
La fine del libero scambio e del protezionismo, sempre secondo Hilferding, provoca l’inasprimento delle contraddizioni tra sviluppo del capitalismo tedesco e la relativa ristrettezza della sua area di mercato, determinando una situazione di contrasto tra Inghilterra e Germania che spinge verso una soluzione violenta, come in effetti sarebbe accaduto con la Prima e poi con la Seconda guerra mondiale. Per questo la potenza politica è uno dei fattori dominanti della lotta economica. Da cui l’importanza di sostituire a uno Stato debole, come era nel primo liberismo, uno Stato forte, che sia capace di condurre una politica espansionista e di incorporare nuove colonie. Il dominio sul mondo è la massima aspirazione dello Stato imperialista nazionale e l’espansione incessante è una inderogabile necessità economica.
Oltre che a proposito dello Stato, Hilferding entra anche nel merito di questioni politiche: l’ideologia imperialista è una ideologia della razza o meglio della superiorità delle razze bianche che determina un ideale egemonico oligarchico.
Per concludere questo rapido excursus del pensiero di Hilferding, va rilevato che anche il marxista austriaco pensa a come superare l’imperialismo. Si dimostra, però, scettico verso l’allargamento del mercato interno in un contesto capitalista. Infatti, l’allargamento del mercato interno tramite alti salari determina la caduta del saggio di profitto e quindi il rallentamento del processo di accumulazione da cui deriva da una parte l’ulteriore riduzione del saggio di profitto e dall’altra la spinta del capitale verso le industrie manifatturiere dove la concorrenza è massima e la capacità di cartellizzazione è minima. L’interesse dei capitalisti è, quindi, quello dell’allargamento del mercato ma non di quello interno bensì di quello estero. Quello interno deve rimanere stabile anche attraverso i dazi di cartello, che, alla lunga, danneggiano i lavoratori e indeboliscono i sindacati.
L’opinione di Hilferding sul superamento dell’imperialismo si basa, però, non sul liberoscambismo ma sul socialismo. L’imperialismo universalizza la spinta rivoluzionaria insita nel capitalismo, universalizzando i presupposti della vittoria del socialismo. La funzione socializzante del capitale finanziario – l’unificazione del capitale commerciale, bancario e industriale – e il ruolo più forte dello Stato determinano la possibilità per la classe lavoratrice di impadronirsi del capitale mediante la conquista dello Stato. Anche in questo caso la Storia si è incaricata di smentire il determinismo di Hilferding, dal momento che la conquista per via elettorale del potere politico da parte della socialdemocrazia durante la repubblica di Weimar non portò al socialismo ma, alla lunga, al nazismo e alla Seconda guerra mondiale, visto che il dominio del capitale finanziario sullo Stato si mantenne saldo. Non basta, quindi, impadronirsi dello Stato per via elettorale. L’affermazione del socialismo, come ebbe a precisare Lenin, passa necessariamente per la distruzione dello Stato del capitale, caratterizzato da burocrazia e militarismo, e la costruzione dalle basi di uno Stato socialista.
Le differenze e le somiglianze tra l’imperialismo passato e quello attuale
Sono passati più di cento anni da quando Lenin scrisse “L’imperialismo” e nel frattempo il capitalismo è cambiato. Pertanto, ci dobbiamo chiedere se quanto scrisse Lenin è ancora valido. Per rispondere ci dobbiamo chiedere come si caratterizza il capitale oggi, specialmente nella sua dimensione internazionale.
In primo luogo, dobbiamo chiederci se le differenze tra centro e periferia si sono ridotte. A questo proposito va rilevato che la globalizzazione ha coinciso con un’epoca di riequilibrio dello sviluppo a favore di alcuni Paesi della periferia che sono stati definiti come emergenti proprio perché hanno ridotto la distanza che li separava dal centro. Il più importante paese emergente è la Cina, che per decenni ha visto una crescita impetuosa del Pil fino a diventare la seconda economia del globo. Nonostante questo, il livello di disuguaglianza tra il centro e la maggior parte dei Paesi periferici è ancora maggiore di quello che si poteva osservare all’inizio del Novecento. Questo conferma che l’epoca dell’imperialismo è tutt’altro che finita, anche se ci sono Paesi come la Cina e il resto dei Brics (Brasile, Russia, India, Sud Africa) che si sforzano, con risultati differenti, di emanciparsi dalla subalternità al centro imperialista, rappresentato da Usa, Europa occidentale e Giappone.
Per quanto riguarda la forma che l’imperialismo assume essa non è più quella di un tempo. La ragione sta nei mutamenti del mercato e delle imprese. All’inizio del Novecento i mercati su cui il capitale operava erano nazionali e le imprese, anche quelle grandi, erano imprese nazionali. I mercati, inoltre, erano protetti da alti dazi doganali per difendere le industrie locali. Anche le colonie rientravano in questa ottica di difesa doganale, perché erano estensione dei mercati nazionali. Da qui l’esistenza di un imperialismo formale, basato sulla gestione diretta e amministrativa della periferia, che era ridotta allo stato di colonia. Per questo Lenin al punto numero cinque delle caratteristiche dell’imperialismo citava “la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche”. Oggi non esistono più le colonie né una compiuta ripartizione della terra tra le potenze imperialiste, e l’imperialismo è di tipo informale. Non c’è più un dominio diretto amministrativo bensì un dominio indiretto soprattutto finanziario ed economico. L’aspetto militare continua a sussistere ma è declinato in modo diverso, come vedremo successivamente.
Altro elemento di differenza è la forte riduzione delle barriere doganali e del protezionismo, che è andata di pari passo con l’eliminazione delle colonie. Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale la potenza egemone, gli Usa, pose le basi per la ricostruzione del mercato mondiale, in cui il flusso delle merci e dei capitali fosse libero. La globalizzazione ha accentuato questo tratto, determinando la crescita del commercio internazionale e il libero spostamento dei capitali e, in particolare, degli investimenti produttivi tra i Paesi del centro e dal centro alla periferia. Anche le imprese sono cambiate. Un tempo la concentrazione e centralizzazione dei capitali determinava la costituzione di monopoli e di cartelli a livello nazionale. Oggi esistono ancora settori monopolistici, ma più spesso prevale l’oligopolio. Le imprese più importanti non operano più soltanto a livello nazionale. Anzi il mercato nazionale spesso è uno dei meno importanti per le imprese. Le imprese contemporanee sono multinazionali, cioè hanno la testa in una Paese e la produzione sparsa in giro per il mondo, o transnazionali con teste, oltre che produzione, sparse per il mondo. Malgrado permanga una tendenza al monopolio e al superamento della concorrenza, l’aspetto dominante è quello della concorrenza, a livello di mercato mondiale, tra imprese multinazionali e transnazionali. Il dominio viene esercitato economicamente dalle multinazionali sui Paesi subalterni dove sono situate produzioni di solito a basso valore aggiunto o da dove vengono importate materie prime a basso costo.
Quello del capitale è un processo dialettico e oscilla tra tendenze verso il protezionismo e verso il liberismo. Infatti, Trump nella sua campagna elettorale ha promesso l’introduzione di nuovi dazi doganali su tutte le merci provenienti dalla Ue e dalla Cina, non risparmiando neanche Canada e Messico. Saranno introdotte tariffe doganali “automatiche” dal 10% al 20% su tutte le merci che entrano negli Usa, con picchi fino al 60% per quelle che arrivano dalla Cina. È significativo che Trump proponga alle imprese che vogliono esportare merci di esportare invece capitale, attraverso la costruzione di impianti produttivi negli Usa. Le parole di Trump stanno a significare una spaccatura all’interno del capitale statunitense, tra settori industriali che necessitano di protezione e settori ancora legati ai vantaggi della globalizzazione. Ma le parole di Trump stanno anche a significare una diversa attitudine verso gli alleati europei, la cui base produttiva, già penalizzata dagli alti costi dell’energia dovuti alla guerra in Ucraina, potrebbe essere ridotta ulteriormente, a favore degli Usa, con il trasferimento di produzioni per poter aggirare i dazi doganali.
Quelle che abbiamo detto sono le differenze principali tra l’imperialismo dell’epoca di Lenin e quello attuale. Tuttavia il testo di Lenin mantiene ancora la sua validità perché gli aspetti più caratterizzanti dell’imperialismo rimangono attuali. Il primo e più importante aspetto sta nel fatto che oggi come cento anni fa il capitale si caratterizza per una sovrapproduzione di merci e una sovraccumulazione di capitale che determina una tendenza alla caduta del saggio di profitto. Per questa ragione sussiste una tendenza delle imprese all’espansione all’estero, sia nei Paesi avanzati, dove ci sono mercati più ricchi, sia nei Paesi periferici, dove il saggio di profitto è più alto. Questa tendenza si esplicita non solo attraverso l’esportazione di merci ma soprattutto, come già rilevato da Hilferding e Lenin, attraverso l’esportazione di capitali che possono assumere due forme: gli investimenti di portafoglio e gli investimenti diretti all’estero. Gli investimenti di portafoglio sono investimenti a breve termine solitamente in strumenti finanziari, gli investimenti diretti esteri (Ide) sono a lungo termine e sono produttivi. Gli Ide sono di due tipi, quelli green field che implicano la costruzione ex novo di stabilimenti industriali e le fusioni e acquisizioni, che mirano a controllare o partecipare imprese estere già esistenti. Gli Ide si dividono a loro volta in investimenti in uscita (outward), da un singolo paese verso l’estero, e quelli in entrata dall’estero (inward) verso un singolo paese.
Ci concentreremo sullo stock degli Ide outward perché rappresenta meglio la permanenza della tendenza alla prevalenza dell’esportazione di capitale. In primo luogo bisogna notare che i Paesi centrali della metropoli imperialista, in particolare quelli del G7 (Usa, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Canada, Giappone), presentano uno stock di Ide outward in percentuale sul loro Pil molto più alto di quello dei Paesi emergenti dei Brics e soprattutto rispetto ai Paesi periferici. Inoltre presentano uno stock di Ide outward maggiore di quello degli stock in entrata, con l’eccezione di Usa e Regno Unito, che, dato il loro carattere di centri economici e finanziari mondiali, attraggono numerosi capitali dall’estero. Per quanto riguarda il 2023, tra i Paesi del G7 citiamo gli Usa con Ide outward pari al 34,49% sul Pil e Ide inward pari al 46,87% sul Pil, la Francia con il 53,87% e il 33,35%, la Germania con il 48,85% e il 25,29% e il Giappone con il 50,92% e il 5,89%. Per quanto riguarda i Brics, lo stock di Ide outward è più basso in percentuale sul Pil non solo rispetto al G7 ma anche rispetto agli Ide inward, con l’eccezione del Sud Africa che è sede di importanti multinazionali anglosassoni. Il più importante fra i Brics, la Cina, ha uno stock di Ide outward sul Pil del 16,4% e del 20,60% inward, la Russia del 13,02% e del 14,05%, il Brasile del 17,08% e del 46,57%. A titolo di esempio di un paese periferico, citiamo la Tunisia, fortemente partecipata dal capitale francese e italiano, con uno stock di Ide outward del 2,88% e inward del 79,07%[iii].
Un altro aspetto che viene confermato rispetto all’analisi di Lenin è il parassitismo come caratteristica specifica dell’imperialismo. I Paesi imperialisti tendono a importare molto più di quanto esportano, avendo trasferito una parte consistente delle loro industrie e manifatture nei Paesi periferici ed emergenti. Ciò significa che questi Paesi producono meno di quanto consumano. I debiti commerciali dei più importanti Paesi imperialisti del G7 sono molto alti (con l’eccezione della Germania e, in minore misura, dell’Italia, che presentano dei surplus commerciali), nonostante le valute imperialiste (dollaro, euro, sterlina e yen) siano sopravvalutate e permettano di acquistare dalla periferia a prezzi bassi e di vendere alla periferia a prezzi alti. Inoltre, i debiti commerciali si combinano con debiti pubblici molto alti. Nel 2023 la Francia ha fatto registrare un debito commerciale di 137,6 miliardi di dollari[iv] e un debito pubblico del 110% sul Pil, il Regno Unito di 270,5 miliardi e del 100% e il Giappone di 68,5 miliardi e del 250%. Ma il paese imperialista che presenta in massimo grado il carattere parassitario sono gli Stati Uniti, che hanno un doppio debito enorme. Il loro debito commerciale nel 2023 ha raggiunto i 1.152 miliardi di dollari, mentre il debito pubblico si è attestato sui 30 trilioni di dollari, pari al 122,3% sul Pil. Gli Usa sostengono il loro doppio debito grazie al dollaro, il loro “esorbitante privilegio”, come lo definì Giscard d’Estaing, un politico francese. Il dollaro è moneta di scambio commerciale e di riserva mondiale, pertanto tutti gli altri Paesi del mondo, specialmente quelli che hanno grandi surplus commerciali, tendono ad acquistare titoli di stato in dollari, finanziando così l’economia statunitense. Da quando, nel 1971, il dollaro non è più convertibile in oro, gli Usa finanziano il loro debito commerciale semplicemente stampando dollari. Inoltre, il ruolo egemonico del dollaro fa sì che la politica monetaria del paese emettitore, cioè gli Usa, determini anche l’orientamento della politica monetaria di tutto il mondo. Su una scala più piccola, la Francia ha fatto qualcosa di simile: si è sostenuta fino a ora grazie al Franco Cfa, che, agganciato all’euro, drena risorse e ricchezze dalle ex colonie francesi dell’Africa. Ma sono gli Usa, come imperialismo egemone, ad aver fatto della loro valuta strumento di pressione globale per forzare gli altri stati a seguire le loro direttive tanto che potremmo definire il loro imperialismo come “imperialismo valutario”.
Dunque, la caratteristica che l’imperialismo contemporaneo condivide con quello dell’inizio del Novecento è di essere caratterizzato non dalla libertà ma dal dominio, che si basa non solo sulla coercizione economica ma anche sulla forza militare. Gli Usa hanno le Forze Armate di gran lunga più potenti del mondo, che gli permettono di controllare con “proiezioni di forza” ogni angolo del pianeta. In particolare gli Usa, grazie alle loro 11 portaerei nucleari, detengono il controllo dei mari, su cui viaggiano la maggior parte delle merci e sui cui fondali corrono i cavi del 99% delle comunicazioni digitali tra le quali quelle di internet. Inoltre, gli Usa dispongono di oltre 700 basi militari sparse per il mondo, che rappresentano la versione americana delle colonie, permettendo il controllo strategico del globo. Nel 2023 la spesa militare statunitense ammontava a 916 miliardi di dollari, oltre tre volte quella della Cina (296 miliardi) e nove volte quella della Russia (109 miliardi)[v]. La spesa militare dell’imperialismo occidentale (USA, Regno Unito, Ue) ammonta a 3,5 volte quella di Cina e Russia insieme. Una tale forza non è rimasta inutilizzata nei decenni che sono seguiti alla fine della Seconda guerra mondiale. Gli Usa, da soli o con la collaborazione di altri stati imperialisti minori, hanno intrapreso una lunga serie di colpi di stato e di guerre illegali, cioè senza autorizzazione dell’Onu, dall’Iran nel 1953 alla Siria nel 2014-2015, passando per Cuba, Vietnam, Serbia, Afghanistan, Iraq, Ucraina e altri stati che non accettavano l’egemonia statunitense. Gli Usa di fatto sono un paese in una condizione di guerra quasi permanente. È confermata, quindi, la tendenza dell’imperialismo, già evidenziata da Hilferding e Lenin, al dominio e ad usare la forza come strumento per risolvere le dispute.
Esiste oggi il conflitto inter-imperialista e la Russia e la Cina possono essere definite imperialiste?
La questione dell’uso della forza rimanda a un’altra caratteristica dell’imperialismo: l’esistenza di rivalità tra stati imperialistici che sfociano in guerre inter-imperialiste come furono la Prima e, con alcune differenze, la Seconda guerra mondiale. Lenin evidenziava che il capitalismo è caratterizzato dalla crescita ineguale dei vari Paesi. Paesi capitalistici più maturi ed egemoni, come il Regno Unito, si trovavano ad affrontare un declino economico e la crescita impetuosa di concorrenti industriali come la Germania e gli Usa. Di conseguenza, i rapporti di forza economici cambiano e si trovano in contraddizione con quelli politici che, su spinta delle potenze imperialiste emergenti, devono essere modificati. Dal momento che il vecchio egemone rifiuta tale modifica, scoppia la guerra che per l’appunto è inter-imperialista, cioè tra stati imperialisti per il dominio mondiale sui mercati delle merci e delle materie prime.
Oggi, non siamo davanti alla prospettiva di una guerra inter-imperialista e i vecchi stati imperialisti, gli Usa, l’Europa Occidentale, a partire dalla Francia e dalla Germania, e il Giappone appaiono interdipendenti e connessi dal punto di vista economico e uniti dal punto di vista militare nella Nato. Ciò non vuol dire che siamo davanti alla formazione di quell’ultra-imperialismo, cioè di quella alleanza e spartizione del mondo tra capitali, che il teorico socialdemocratico Karl Kautsky, aveva teorizzato più di un secolo fa e contro cui Lenin aveva polemizzato aspramente. Le contraddizioni tra imperialismi permangono, ad esempio se pensiamo all’interscambio commerciale tra Usa e Ue, e possono persino allargarsi se Trump introdurrà dazi e indebolirà la Nato. Anche la concorrenza tra imperialismi per la conquista di materie prime e di mercati di sbocco alle merci, ad esempio in Africa, permane, come si osserva dal rinnovato interesse degli Usa per il continente nero, dove la Francia, invece, subisce dei seri rovesci nelle sue ex colonie.
Ci sono, però, dei fattori che, per il momento, impediscono alle contraddizioni inter-imperialistiche di sfociare in conflitto aperto. La prima è che il capitale europeo è strettamente integrato con il capitale statunitense riguardo al quale è sostanzialmente subalterno, dipendendo per la difesa, la tecnologia, e per numerose materie prime. La seconda è che la Ue non è un superstato ma una formazione inter-governativa in cui i singoli Stati sono autonomi dal punto di vista delle politiche fiscali e militari. Anche su questo versante ci sono delle tendenze contrarie che spingono verso l’integrazione militare e della politica estera ma i risultati sono ancora molto di là da venire. Inoltre, la Ue, non dispone della deterrenza nucleare né di un seggio con diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, con l’eccezione della Francia che, però, è restia a metterli in comune con gli altri Stati della Ue. Infine, ed è la ragione principale, l’Ue ha perso molte posizioni a livello economico a favore degli emergenti e della Cina in particolare, all’incirca come gli Stati Uniti. Infatti, mentre il Pil della Cina, tra 2000 e 2023 è balzato dal 3,6% del Pil mondiale al 16,9%, gli Usa sono scesi dal 30,3% al 26% e la Ue dal 21,5% al 17,5%[vi]. Per tutte queste ragioni ci troviamo davanti a una realtà che possiamo definire “imperialismo occidentale” che, malgrado le contraddizioni interne, si presenta unito. Unito, sì ma contro chi?
Se non è in atto, oggi, una conflittualità esplicita inter-imperialistica tra le vecchie potenze cioè tra Usa, Europa occidentale e Giappone, ci sono altri tipi di contraddizioni tra Paesi e aree mondiali e queste sono di natura inter-imperialistica? Se esiste un imperialismo occidentale esiste anche un imperialismo orientale contrapposto a esso? Questo nuovo imperialismo, se esistesse, dovrebbe fondarsi sulla Russia e soprattutto sulla Cina, attorno alle quali si stanno formando delle alleanze come i Brics+, che, però, prima di tutto sono alleanze economiche e poi politiche. Non esiste al momento alcuna alleanza militare che coinvolga Russia, Cina e altri Paesi. L’Organizzazione di Shangai per la cooperazione (Sco), che prevede una qualche forma di cooperazione sui temi della difesa, non può essere neanche lontanamente paragonata alla Nato. La contraddizione tra i Brics e l’imperialismo occidentale esiste senza alcun dubbio, ma non riguarda solo i Brics bensì quello che i mass media chiamano Global South, il Sud globale, che si contrappone all’ordine mondiale per come è stato definito dagli occidentali. Ad esempio, un fattore di contestazione molto importante da parte del Sud Globale è l’egemonia del dollaro. I Paesi del Sud Globale, inoltre, chiedono la riforma delle istituzioni sorte con gli accordi di Bretton Woods, stabiliti nel 1945 e alla base dell’egemonia Usa e occidentale, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, la cui governance riflette gli equilibri di potere ed economici post-bellici e non quelli odierni.
La contraddizione tra imperialismo occidentale e Russia, Cina e altri Paesi non può essere definita inter-imperialista perché Cina e Russia non sono Paesi imperialisti. La stessa guerra tra Ucraina e Russia non può essere definita come una guerra imperialista dal punto di vista della Russia. Per la Russia si tratta di una guerra di difesa nazionale contro l’espansione a est della Nato, che minaccia direttamente i suoi confini. Nel 1990 allorché l’Urss si ritirò dalla Germania Est e questa si riunificò alla Germania Ovest, il segretario di Stato statunitense, James Baker, promise a Gorbaciov che la Nato “non avrebbe espanso di un centimetro la sua sfera d’influenza”. Lo stesso promise il ministro degli esteri tedesco, Genscher, che dichiarò che “non ci sarebbe stata una estensione verso est del territorio occupato dalla Nato, cioè quest’ultima non si sarebbe avvicinata ai confini dell’Unione Sovietica”. Ciononostante, nel periodo successivo la Nato ha inglobato quasi tutti i Paesi che fanno parte dell’Europa dell’Est, compresi i Paesi che facevano parte del Patto di Varsavia. Nel 2008 Bush appoggiò la proposta di includere nella Nato anche la Georgia e l’Ucraina. Nel 2014 gli Usa favorirono un colpo di Stato in Ucraina, defenestrando il presidente che aveva buoni rapporti con la Russia. Dopo il colpo di stato in Ucraina, iniziò la guerra civile tra il nuovo governo filo-occidentale e la minoranza russofona del Donbass che dura da dieci anni con decine di migliaia di morti tra la popolazione civile russofona. Nel 2021 fu di nuovo formulata l’intenzione di procedere all’ingresso dell’Ucraina nella Nato, che avrebbe permesso a quest’ultima di schierare missili nucleari sui confini della Russia in grado di raggiungere in pochi minuti Mosca, rendendo così inefficace la deterrenza nucleare russa. L’intervento della Russia in Ucraina nel 2022 fu, quindi, una risposta a una seria minaccia e mira quindi a difendere la posizione strategica della Russia di fronte a una Nato sempre più aggressiva e a sostenere, dopo dieci anni di conflitto, le popolazioni russofone del Donbass.
Ma, a prescindere dalla natura della guerra per la Russia, quest’ultima può essere definita imperialista? L’imperialismo rappresenta una fase di sviluppo elevato delle forze produttive, caratteristico dei Paesi capitalisticamente avanzati che cercano sbocco alle merci e ai capitali eccedenti. La Russia non presenta tali condizioni. In primo luogo non presenta un adeguato sviluppo delle forze produttive, mancando di una manifattura estesa e all’avanguardia. La collocazione della Russia nella divisione internazionale è nelle posizioni più basse, dal momento che si concentra quasi esclusivamente sulla produzione e sull’esportazione di materie prime di cui è ricchissima. L’unico settore manifatturiero avanzato e di dimensioni importanti è quello militare, che, infatti, esporta parte della sua produzione. La Russia non è un paese ricco, come lo sono i Paesi imperialisti, ma un paese a medio reddito, che non riesce a recuperare posizioni nei confronti dei Paesi del centro imperialista. Le sue esportazioni di capitali sono basse in confronto a quelle dei Paesi imperialisti. Inoltre, la Russia non ha interesse all’esportazione di capitali e all’espansionismo economico-militare, in primo luogo perché non ha una vera e propria manifattura e poi perché ricava le sue risorse dall’esportazioni di materie prime, grazie alle quali realizza un consistente surplus commerciale. La Russia, quindi, non ha interesse a sfruttare Paesi periferici per le materie prime o per esportare merci o investirvi capitali in eccesso. La Russia è certamente un paese capitalista ma subalterno dal punto di vista economico, sebbene disponga di uno Stato forte. Tale Stato, però, esercita la sua forza soprattutto su un piano difensivo rispetto all’imperialismo occidentale in Ucraina, così come in precedenza aveva fatto in Georgia e Siria. L’obiettivo dell’imperialismo occidentale, infatti, è quello di indebolire la Russia, magari frammentandola ulteriormente, per controllare le sue ricchezze minerarie e quelle dell’Asia centrale e privare la Cina di un forte alleato.
Arriviamo così a un’altra questione importante, cioè se la Cina è un Paese capitalista e se, nel caso lo sia, è arrivata allo stadio dell’imperialismo. In Cina esistono certamente imprese private e capitalistiche, ma assumono maggiore importanza le imprese pubbliche e soprattutto esiste un controllo da parte dello Stato e, attraverso di esso, del partito comunista sull’economia nel suo complesso. Ad esempio, è fondamentale che, a differenza dei Paesi compiutamente capitalisti e imperialisti, il movimento dei capitali non sia libero ma sotto lo stretto controllo dello Stato. L’interpretazione della formazione economico-sociale cinese rimanda alla concezione del socialismo. Questo, infatti, rappresenta una fase molto lunga in cui permangono elementi capitalisti accanto a elementi di socializzazione della produzione, che sono quelli più propriamente socialisti. Dunque, la Cina è un paese socialista, ma, come riconoscono gli stessi teorici marxisti cinesi, è situata a uno stadio iniziale del socialismo. Il socialismo cinese viene definito come “socialismo con caratteristiche cinesi” o come “socialismo di mercato”, in cui cioè il mercato ricopre un ruolo importante[vii]. La fase di transizione dal capitalismo al socialismo in atto in Cina è caratterizzata da una lotta per l’egemonia tra tendenze verso il capitalismo e verso il socialismo maturo. Comunque, per le ragioni che abbiamo detto, la Cina non può essere definita un Paese imperialista anche perché i movimenti di capitale sono controllati dallo Stato. Inoltre, per la Cina sono molto più importanti le esportazioni di merci, dal momento che presenta di gran lunga il maggiore surplus dell’interscambio commerciale a livello mondiale (822 miliardi di dollari nel 2023), rispetto alle esportazioni di capitale, visto che la percentuale di Ide outward sul Pil, come abbiamo visto sopra, è abbastanza bassa. Di conseguenza, la Cina produce più di quanto consuma e non condivide con l’imperialismo la natura parassitaria. La Cina, comunque, è un Paese lontano dall’essere imperialista anche perché è un Paese a medio reddito. Infine, la Cina, a differenza degli Usa, non ha una postura aggressiva sul piano della politica internazionale e opera per l’introduzione di un maggiore multilateralismo e multipolarismo economico e politico a livello internazionale. La forza militare cinese non può essere paragonata a quella degli Usa e soprattutto negli ultimi settanta anni non è stata mai utilizzata in guerre vere e proprie se si eccettuano qualche di scontro di confine di portata limitata con Paesi limitrofi (Urss, India e Vietnam). Infatti, i rapporti con i Paesi della periferia non sono basati sullo sfruttamento e l’oppressione neocolonialista, come nel caso degli Usa e della Francia, ma rappresentano una importante alternativa economica all’imperialismo occidentale per Paesi come quelli dell’Africa.
Da quanto abbiamo detto si ricava che le contraddizioni inter-imperialiste tra Ue e Usa esistono e rischiano di aggravarsi nel caso di una presidenza Trump, ma, per il momento sono sotto-traccia e ben difficilmente potrebbero sfociare in un confronto diretto. La contraddizione principale è, invece, quella tra imperialismo occidentale e Sud Globale, con un ruolo decisivo dei Brics, che recentemente si sono allargati in Brics+, con l’aggiunta di Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti. Di fatto, stiamo assistendo a un processo di decolonizzazione reale che avviene a decenni di distanza dalla decolonizzazione formale. Infatti, l’indipendenza politica di molti Paesi periferici si era coniugata con il mantenimento e, in molti casi, con l’accentuazione della loro dipendenza economica. Tale processo di decolonizzazione reale è quantomeno facilitato dalla presenza, alternativa al capitale occidentale, della Russia e soprattutto della Cina, che stanno assumendo un ruolo egemonico all’interno del Sud Globale. In ogni caso, il confronto tra gli Usa e i loro alleati imperialisti, da una parte, e Russia e Cina, dall’altra, non può essere definito inter-imperialista.
Conclusioni: una categoria ancora attuale ma con delle rimarchevoli differenze
L’imperialismo di Lenin rappresentò un importante esempio di innovazione ai suoi tempi perché metteva in correlazione l’aspetto economico con quello politico e militare. Infatti, l’imperialismo veniva strettamente collegato da Lenin con il capitalismo. Le caratteristiche economiche e politiche che Lenin poneva alla base dell’imperialismo sono in gran parte ancora valide, ma con alcune differenze. La concentrazione e la centralizzazione dei capitali, cioè la fusione di capitali diversi per creare imprese più grandi è ancora una caratteristica del capitalismo. Tuttavia, non sono più un elemento dominante i cartelli, cioè gli accordi per limitare la concorrenza attraverso la fissazione di livelli di produzione e di prezzo. Anche i monopoli e il protezionismo non rappresentano più l’aspetto decisivo del capitalismo attuale. Esiste oggi, invece, una concorrenza maggiore che nell’epoca degli imperi coloniali soprattutto grazie alla globalizzazione, cioè al mercato globale. Pensiamo, ad esempio all’industria automobilistica che, pur essendo fortemente centralizzata e internazionalizzata, è terreno di un’aspra concorrenza sia tra imprese occidentali sia tra queste e quelle asiatiche, soprattutto cinesi nel settore dell’auto elettrica. Questo, però, non vuol dire che non esistano tendenze contrarie, basate sulla reintroduzione del protezionismo, come appare, ad esempio nella Ue, proprio contro le auto elettriche cinesi. C’è, infatti, secondo alcuni, una tendenza verso la deglobalizzazione, cioè verso la frammentazione del mercato globale in aree economiche regionali. Anche il monopolio è tutt’altro che sparito. La caduta del saggio di profitto e la saturazione dei mercati manifatturieri ha spostato molti capitali verso settori di monopolio naturale negli ultimi anni. Inoltre, le big tech statunitensi, tra le quali Google, Amazon, Facebook, sono di fatto nuovi monopoli. Un altro aspetto che permane, sebbene modificato in parte, è il capitale finanziario, il cui ruolo era centrale nell’imperialismo di Lenin, che lo riprendeva da Hilferding. Oggi, però, non è più possibile pensare al dominio delle banche sulle imprese industriali, che spesso sono dei colossi multinazionali che realizzano superprofitti. Però, al tempo stesso, il capitale, sempre sull’onda delle crisi nell’industria, si è rivolto massicciamente verso la speculazione finanziaria, mentre l’alta finanza, attraverso società finanziarie di gestione di investimenti come BlackRock, svolge un ruolo importante nel capitalismo mondiale.
Come abbiamo detto sopra, il cambiamento maggiore, rispetto all’epoca di Lenin, sta nel venir meno della compiuta ripartizione della terra tra le più importanti potenze imperialiste, vale a dire la divisione della periferia in imperi nazionali. A questo si collega il dominio, la competizione per il controllo delle colonie e la tendenza alla Guerra. Oggi, non abbiamo più un sistema di imperi coloniali, bensì un sistema di sfruttamento basato, da una parte, su multinazionali e transnazionali e, dall’altra, su istituzioni internazionali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, e soprattutto sull’apparato statuale degli Usa. Gli Usa detengono il controllo di un impero informale basato sul dominio esercitato attraverso il dollaro e le sue Forze armate. Gianni Arrighi ha definito la storia del capitalismo mondiale come una serie di cicli secolari incentrati ognuno su uno “Stato guida”. Al ciclo ispano-genovese, succedettero quelli olandese e inglese, fino a che questo fu sostituito da quello a guida Usa. Riprendendo Gramsci e il suo concetto di egemonia, secondo Arrighi, lo “Stato guida” agisce con una combinazione di consenso e coercizione. Il consenso deriva dall’organizzare il sistema-mondo capitalistico attraverso un particolare modo di regolazione relativo a uno specifico regime di accumulazione. Un altro aspetto importante che Arrighi rintraccia è che lo Stato guida a un certo punto entra in crisi e comincia a perdere il suo predominio nella produzione materiale. A questo punto, lo Stato guida passa alla finanziarizzazione che gli permette di andare avanti fino alla crisi definitiva che apre una fase di caos globale, dalla quale si esce con l’ascesa di un nuovo ordine guidato da un nuovo “Stato guida”.
Quando gli Usa nel 1945 diventarono lo “Stato guida” del capitalismo mondiale detenevano il 50% della produzione industriale e la maggior parte delle esportazioni mondiali, pertanto la loro egemonia corrispondeva a rapporti di forza reali. La prima crisi degli Usa avviene del 1974, a seguito della quale inizia la sua fase di espansione finanziaria che si conclude nel 2008 con la crisi dei mutui subprime. Col tempo insieme alla forza economica è declinata anche l’egemonia. Secondo Arrighi, per gli Usa dopo l’11 settembre inizia una fase di dominio senza consenso. Intanto, la Cina attraversa una fase di crescita senza precedenti e diventa la seconda potenza economica mondiale. La Cina, di conseguenza, comincia a chiedere l’applicazione di un maggior multilateralismo e multipolarismo nella gestione dell’economia mondiale, mettendo così in discussione il dominio statunitense. Ma gli Usa non intendono cedere minimamente il loro dominio, che, come abbiamo visto, gli consente di drenare ricchezze da tutto il mondo, senza le quali la loro economia, per come è organizzata oggi, crollerebbe. Pertanto, hanno scelto la strada del confronto basato sulla forza, tentando di isolare la Cina. La continua espansione della Nato contro la Russia e la guerra che ne è scaturita ha lo scopo di provare a eliminare il più importante alleato della Cina, mentre la guerra di Israele, rifornito di denaro e armi dagli Usa, contro l’Iran ha l’obiettivo a eliminare un altro alleato nonché uno dei principali fornitori di petrolio della Cina. Per tutte queste ragioni, gli Usa sono il principale imperialismo e il maggiore ostacolo alla pace mondiale.
Per concludere, ritornando a Lenin, la sua opera trova conferma ancora oggi soprattutto quando individua l’imperialismo come un sistema economico parassitario e di sfruttamento che si traduce nel dominio degli Stati forti sugli Stati deboli ed è foriero di caos, anarchia e guerra.
Bibliografia
Aldrich, Robert, The Age of Empires, Thames & Hudson Ltd, London 2020.
Arrighi, Giovanni, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008.
Bargigli, Leonardo, La Russia è un paese imperialista? Sito della Rete dei comunisti.
Fisher, Fritz, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Res Gestae, Milano 2021.
Ganser, Daniele, Le guerre illegali della Nato, Fazi editore, Roma 2022.
Giacché, Vladimiro, “Introduzione” a Cheng Enfu, Dialettica dell’economia cinese, MarxVentuno edizioni, 2024.
Grifone, Pietro, Il capitale finanziario in Italia, Einaudi, Torino 1980.
Grifone, Pietro, Capitalismo di Stato e imperialismo fascista, Mazzotta editore, Milano 1975.
Hilferding, Rudolf, Il capitale finanziario, Mimesis edizioni, Milano-Udine 2011.
Hobson, John Atkinson, L’imperialismo, Newton Compton, Roma 1996.
Lenin, L’imperialismo. Fase suprema del capitalismo, Editori riuniti, Roma 1974.
Note
[i] J. A. Hobson, L’imperialismo, Newton & Compton editori, Roma 1996, p. 119.
[ii] F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Res Gestae, Milano 2021.
[iii] Unctad, Statistics, Foreign direct investment: inward and outward flows and stock, annual.
[iv] Unctad, Statistics, Merchandise: Trade balance, annual.
[v] Sipri, Military expenditure database.
[vi] Nostra elaborazione su dati Unctad, Statistics, Gross domestic product: Total e per capita, current e costant (2015) prices. I valori sono in dollari Usa correnti.
[vii] Vladimiro Giacché, “Introduzione” a Cheng Enfu, Dialettica dell’economia cinese, MarxVentuno edizioni, 2024.
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