DISERTARE IL PATRIARCATO E LE SUE GUERRE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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DISERTARE IL PATRIARCATO E LE SUE GUERRE da IL MANIFESTO

Disertare il patriarcato e le sue guerre

Violenza bellica La follia del conflitto è maschile…

Alberto Leiss  23/11/2024

Anni fa – era il 2006 – con alcuni amici di «Maschile plurale», scrivemmo un testo che, in sintesi, affermava una cosa che dovrebbe essere evidente: la violenza maschile contro le donne la agiamo noi uomini. Tocca a noi farcene carico per estirparla. Scoprimmo che non eravamo i soli a pensarlo.

Oggi, dopo le parole della sorella Elena e del padre Gino di Giulia Cecchettin, è diventata più evidente una presa di coscienza maschile su questo dramma del nostro vivere comune. Non certo grazie a quel vecchio testo. Ma avevamo intravisto una tendenza.

Martedì scorso c’è stata a Roma la presentazione della Fondazione intitolata a Giulia Cecchettin, con gli spropositi del ministro dell’istruzione Valditara sulla violenza degli «stranieri» e sul «patriarcato» come ubbia ideologica. E le risposte adeguate di Gino Cecchettin.

Ho poi partecipato a un incontro sul tema «Politica senza amore». Si discuteva sulla validità delle pratiche politiche inventate dal femminismo: dall’«autocoscienza» alla ricerca di un fare politica «partendo da sé». Frutti derivati dalla famosa affermazione: «il personale è politico». Circolavano dubbi. Giusto cercare di fecondare con amicizia, e amore – pronunciamola questa parola ingombrante – l’esperienza della politica che oggi vediamo in grandissima crisi. Ma quelle parole non saranno inattuali? È maturo il tempo di condividere esperienze simili tra donne, uomini, persone che non si identificano in nessuno dei due sessi?

Alla sera assemblea al centro Spin Time – spazio sociale che ospita famiglie straniere e gestisce ampi locali pubblici – con un centinaio di uomini e donne di diverse generazioni, venuti e venute all’invito di gruppi di maschi che sulla violenza interrogano se stessi, con il titolo «Disertare il patriarcato». Ascolto ragazze ripetere quel «il personale è politico» a proposito delle dinamiche di potere nelle relazioni amorose, e uomini giovani e meno giovani rispondere alla domanda di un’altra ragazza: che cosa vi muove a mettervi in discussione?

Nelle risposte tante esperienze: dalla ricerca dei propri comportamenti violenti (spesso quelli psicologici più dolorosi delle «botte»), al senso di imprigionamento negli stereotipi maschilisti, fatti di competizione, di censure e distorsioni del desiderio, di disagio per un vivere e viversi male. E poi la prova di un altro modo di parlare di se stessi e con altri nei «gruppi» maschili.

Si esita a dire «autocoscienza» – ricorda forse, dice uno, l’autoaffermazione solitaria dell’io: meglio mutuare dall’inglese il termine «autoconsapevolezza»?

Vedo il manifestarsi un desiderio nuovo di incontrarsi tra donne e uomini, e qualcuno che parla anche di altre identità sessuali: qualcosa di indispensabile, credo, all’invenzione di una politica capace di cambiamento. Di sé e del mondo.

E il discorso arriva a questo mondo in cui prevalgono tirannie, predicazioni violente e guerre, e crisi delle nostre «democrazie liberali» in corsa verso riarmo e politiche razziste, disuguaglianze abissali create da un capitalismo sfrenato che produce nuovi schiavi, mostri tecnologici, disastri ambientali e poteri personali smisurati, assurdi.

Penso al valore di quella parola nel titolo dell’incontro: disertare il patriarcato.

Disertare prima di tutto vuol dire rifiutarsi di fare la guerra. Di giocarsi la vita e di uccidere sconosciuti chiamati «nemici». In nome di cattivi sentimenti identitari, nazionalistici, e per me discutibili anche quando è in gioco la libertà. Credo legittima la domanda se la guerra non sia una caratteristica, la peggiore, proprio dell’ordine simbolico che chiamiamo «patriarcato».

Se non sia la violenza maschile che si manifesta nel ricorso sistematico agli stupri «di guerra», come ha scritto Edoardo Albinati (https://maschileplurale.it/lo-stupro-bellico/), il fondamento «quintessenziale» della guerra: la violenza dell’uomo sulla donna come violenza primaria.

Credo, con una parte del femminismo, che la capacità regolativa di questo «ordine simbolico» sia finita, o comunque in crisi in tutto il mondo. È il risultato della rivoluzione disarmata, ma dotata di un potente «altro genere di forza», delle donne. Una rivoluzione riconosciuta a parole ma non ancora compresa dalla politica figlia di culture – socialiste e comuniste, liberaldemocratiche, religiose – di matrice maschile. Quando guardiamo ai decisori delle guerre che ci sconvolgono vediamo maschi che professano idee e offrono immagini orribili, tragiche e ridicole: gli integralismi religiosi opposti della destra israeliana e delle fazioni islamiche armate. Le figure di questi vecchi e nuovi americani: Biden e il binomio Trump-Musk. E del russo Putin. E di Netanyahu.

La «follia» bellica di questi «stati maggiori» maschili per me assomiglia molto alla violenza personale dei «figli sani del patriarcato» contro le donne che vogliono vivere libere.

Disertiamo il patriarcato. E disertiamo la guerra riconoscendola finalmente come secolare forma collettiva della violenza maschile. Apriamo su questo una discussione pubblica.

Quando la violenza sulle donne è legge

Gender Apartheid La prospettiva del diritto internazionale sulla discriminazione di Stato, ancora diffusa in molti paesi

Sara De Vido  23/11/2024

La violenza di genere contro le donne, come afferma la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del 2011, entrata in vigore dieci anni fa, «è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione».

La violenza di genere contro le donne è tanto una violenza che si produce tra singoli individui, per la prevenzione e la repressione della quale gli Stati hanno precisi obblighi internazionali, quanto istituzionale, che si compie per il tramite di organi dello Stato, politiche o leggi. La violenza istituzionale, quella che produce ma anche tollera la violenza di genere contro le donne, assume le sue forme più gravi quando la legge espressamente prevede che possano essere compiuti atti inumani volti al mantenimento di forme di dominazione sistematica degli uomini nei confronti delle donne.

È quello che viene definito «gender apartheid». Il termine è stato coniato da attiviste per i diritti delle donne in Afghanistan per descrivere leggi come quella talebana sui vizi e le virtù, che impedisce alle donne di uscire dalle loro abitazioni a meno che non siano completamente velate e proibisce loro di cantare, parlare in contesti pubblici e studiare.

La repressione è istituzionale, sistemica, vuole le donne invisibili: così anche in Iran, dove le donne sono vittime di violenza «di Stato», i cui diritti sono costantemente calpestati per il solo fatto di essere donna.

Il termine apartheid, tradotto dall’Afrikaans «separazione», descrive la politica di segregazione dei neri da parte della classe politica dominante bianca in Sudafrica, proseguita fino al 1994.

Sul piano giuridico, la Convenzione internazionale per l’eliminazione e la repressione del crimine di apartheid del 1973, definisce l’apartheid un crimine contro l’umanità, caratterizzato da atti inumani aventi lo scopo di «dominare» un altro gruppo razziale e «opprimerlo sistematicamente», quali, ad esempio, la negazione a uno o più membri del gruppo del diritto alla vita e della libertà o ancora il diniego del diritto all’istruzione, al lavoro, al movimento, alla libertà di espressione.

Non è difficile vedere la similitudine tra questi comportamenti, che configurano il crimine di apartheid ai sensi della Convenzione, e le forme di oppressione delle donne in Afghanistan e Iran. L’apartheid (razziale) è anche incluso tra i crimini contro l’umanità dello Statuto di Roma che ha istituito la Corte penale internazionale.

L’apartheid (sempre e solo razziale) rientra nella definizione di crimini contro l’umanità del Progetto di Articoli sulla prevenzione e la repressione dei crimini contro l’umanità, adottato nel 2019 dalla Commissione di diritto internazionale e oggetto di discussione in queste settimane nella Sesta Commissione dell’Assemblea generale dell’Onu.

Un progetto di articoli non è ancora un trattato internazionale, ma lo potrebbe diventare se adottato dall’Assemblea o se base di lavoro per una conferenza di plenipotenziari. Attiviste per i diritti delle donne, esperti delle Nazioni unite (ad es. Richard Bennet, relatore speciale per l’Afghanistan), giuriste e giuristi, organizzazioni non governative ritengono che la definizione di apartheid nel Progetto di Articoli, al momento riferita ai soli gruppi razziali, debba includere anche il termine genere.

Nello Statuto di Roma, così come nel Progetto di Articoli, è presente la persecuzione sulla base del genere, dove per persecuzione si intende la privazione seria e intenzionale di diritti fondamentali contraria al diritto internazionale in ragione dell’appartenenza a un gruppo

La definizione è importante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiata a donne e ragazze che fuggono dall’Afghanistan. Così, il 4 ottobre scorso, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha ritenuto che, in casi come quello in esame, ovvero la situazione di due donne afghane che chiedevano lo status di rifugiata in Austria in ragione delle misure discriminatorie adottate nei loro confronti dal regime dei Talebani, non fosse necessario dimostrare un rischio diretto e specifico di persecuzione in caso di ritorno nel paese di origine, quando erano stati dimostrati gli elementi relativi alla loro situazione individuale, quali nazionalità o sesso.

L’essere donna in Afghanistan costituisce una ragione di persecuzione che legittima il riconoscimento di protezione.

Nonostante questi positivi sviluppi, il riconoscimento del gender apartheid come crimine internazionale permetterebbe di cogliere l’elemento sistematico e diffuso, come hanno detto bene esperti Onu, delle privazioni dei diritti delle donne in paesi quali Afghanistan e Iran e di sancire sia la responsabilità statale sia la responsabilità penale individuale.

Su tali privazioni potrebbe pronunciarsi la Corte internazionale di giustizia. Paesi Bassi, Germania, Australia e Canada hanno recentemente dichiarato, sostenuti da altri 26 governi, di voler proporre un ricorso alla Corte internazionale contro l’Afghanistan lamentando la violazione di numerose disposizioni della Convenzione Onu sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, ratificata anche dall’Afghanistan. Una sentenza della Corte dell’Aja avrebbe di certo un impatto sulla definizione del crimine di gender apartheid stesso. Ancorché non priva di ostacoli, è tuttavia una strada che sul piano giuridico merita di essere intrapresa.

Pur in assenza di un trattato internazionale, ci si potrebbe infine chiedere se il divieto di gender apartheid non si sia già consolidato come norma cogente del diritto internazionale, cioè una norma fondamentale dell’ordinamento. Alcuni giuristi potrebbero manifestare forte disappunto.

Eppure, già nel 1993, le giuriste Hilary Charlesworth (oggi giudice della Corte internazionale) e Christine Chinkin scrivevano che il concetto di norma cogente «non è mai stato davvero universale in quanto il suo sviluppo ha privilegiato le esperienze degli uomini su quelle delle donne». La storia del diritto, anche del diritto internazionale, è stata (ed è) una storia di silenzi. È tempo di romperli, di dare un nome a ciò che avviene e di promuovere una cultura giuridica che sia davvero attenta al genere.

* docente di diritto internazionale all’Università Ca’ Foscari di Venezia

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