“CRONACHE DAL SECOLO OMBRA”. LA PRE-GUERRA da TERZO GIORNALE e COMIDAD
Cronache dal “secolo ombra”. La pre-guerra
Le analogie tra lo stato d’animo attuale e quello che precedette la Prima guerra mondiale
Mario Pezzella 3 Giugno 2024
Lo stato d’animo prevalente, nella condizione di pre-guerra che stiamo vivendo, è quello di una feroce apatia. Mentre un genocidio quasi dichiarato avviene a opera di un governo razzista a Gaza, mentre una guerra di trincea si combatte al centro dell’Europa, e mentre un altro genocidio appena mascherato si svolge nei mari delle nostre coste per colpa della “democratica” Unione europea, la vita quotidiana procede nella sua apparente, ornamentale banalità. Apatia, passività, indifferenza, certo: ma anche ferocia inconsapevole verso le vittime, che disturbano i nostri sconcertanti dibattiti su Fiorello e Amadeus, sulle auto elettriche o a diesel, sul turismo di massa sempre più disgustoso e ossessivo: l’attivismo vuoto che ricopre il vuoto interiore.
Viviamo, per citare il titolo di un film recente, in una “zona d’interesse” (vedi qui), coltivando i cavoli del nostro giardino, mentre a poca distanza avviene l’orrore. Lentamente, i governanti europei lasciano filtrare nelle loro parole, a dosi omeopatiche, la necessità e l’opportunità della guerra, lentamente rendono pensabile ciò che sembrava impossibile; come Macron, che, non pago dei disastri provocati in Africa, ora si propone come duce guerriero dell’Occidente, presumibilmente per lasciarsi dietro un altro campo di macerie.
Hermann Broch si riferiva al periodo che ha preceduto la Prima guerra mondiale come al trionfo del sonnambulismo e del Kitsch. Governanti sonnambuli come i nostri procedevano verso l’abisso, con vuote ciance sull’onore e il progresso, mentre la sostanza traumatica del tempo veniva nascosta da un eccesso di ornamenti, da uno stile colorato e magniloquente: al suo posto oggi abbiamo l’euforia malata dello spettacolo e dell’estetizzazione, narcotici che ci permettono di continuare a camminare inebetiti verso la violenza prossima ventura. Il borghese (Broch usa ancora questi termini di una lotta di classe oggi politicamente poco corretta) “impone al suo mondo un ordine artificialmente ornamentale e lo trasfigura per poterlo godere, ma solo a patto di nasconderne la miseria. Il gusto decorativo in lui è più ipocrita che nei suoi crudeli predecessori (…). Per il momento, il borghese non è ancora crudele: si sta però preparando a diventarlo”. Queste parole si riferiscono alla borghesia austriaca negli anni che precedono la Prima guerra mondiale. Nella pre-guerra i governanti sonnambuli minacciano, bluffano, mobilitano, sfidano, sempre con la certezza che il nemico a un certo punto si pieghi, per conquistare rendite di posizione in un conflitto virtuale, di cui neppure riescono a immaginare i contorni reali: questi pericolosi teatranti, i loro banchieri, i loro industriali produttori di armi, credono di poter controllare gli eventi partendo da una posizione di forza. E nei popoli inerti resta la convinzione che, tanto, mica quei buffoni faranno sul serio, è tutto teatro, i conflitti verranno circoscritti lontano da noi, noi potremo continuare nella nostra indifferenza vigliacca.
Ma basta poco perché vengano travolti dal caos e dall’imprevedibile: basta che un qualunque Francesco Ferdinando venga ucciso da un qualunque Gavrilo Princip, in una qualunque Sarajevo, perché dalla pre-guerra si passi alla guerra, dalla feroce apatia al furore incontrollabile. Gli “assaggi” verbali di Macron, della von der Leyen, di Michel, in direzione della guerra, vorrebbero assuefarci al pensiero della distruzione. Il gioco al rilancio delle rappresaglie e delle sanzioni sfugge di mano e la violenza mimetica non ha il senso del limite: del resto, nella storia esiste una lunga casistica di provocazioni volute, “lasciate accadere”, o addirittura messe in scena, perché la scintilla iniziale appaia responsabilità del nemico.
In un libro che riprende il titolo del celebre romanzo di Broch, I sonnambuli, conclude lo storico Christopher Clark: “(…) I protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo”. Apparentemente i sonnambuli agiscono come in stato di veglia, li si penserebbe capaci di scorgere gli ostacoli e i precipizi lungo i quali camminano: ma in realtà sono mossi da fantasmi traumatici dell’inconscio del collettivo, che sovrastano la loro volontà e la conducono come una marionetta. Il mondo “overturistico” e decorativo in cui viviamo copre a malapena la percezione del vuoto e l’angoscia di una crisi della presenza, in cui è scomparso ogni valore orientativo.
Questa diffusa e inconsapevole depressione ha trovato una prima espressione nel panico e nella paura da Covid, per poi scaricarsi all’esterno in violente contrapposizioni, in cui non contano l’oggetto e i contenuti, di per sé risibili, ma le forme: comune è solo l’odio per l’identità nemica, magari pretestuosa e indefinibile. Ciò che importa, come aveva intuito Freud, è che la pulsione di autodistruzione, rivolta depressivamente contro se stessi, si scarichi al di fuori in aggressione contro un nemico esterno. Perciò, tra l’apatia e il furore, che sembrerebbero opposti, c’è invece una sinistra complementarità: sono la delusione e la frustrazione di un ordine simbolico in irreversibile declino, che produce quell’indefinito e lacerante risentimento che, in un solo battito, può trapassare in odio guerresco, trasformare il fallito “imprenditore di se stesso” in un interventista contro l’altro. È la normalità disgregante del capitalismo che produce l’anormalità della guerra; e se questo è vero a livello economico e sociale, non bisogna sottovalutare il risvolto psichico collettivo di uno stato d’animo che, dalla delusione, tracima in aggressione e accompagna, se non con entusiasmo, con indifferente atonia la sventura.
CHI PAGA IL CONTO QUANDO IL POTENTE FA IL DEMENTE
comidad 06/06/2024
Purtroppo noi italiani ci facciamo sempre riconoscere. Tutte le altre democrazie occidentali vibrano di ardori guerrieri, concedono a Kiev di usare le armi atlantiche per colpire il suolo russo, parlano persino di inviare truppe sul terreno; qui da noi invece la Meloni invita alla prudenza, Tajani dice che non siamo in guerra con la Russia, Salvini canta “Blowin’ in the wind” e si mette addirittura a insultare Macron e Stoltenberg. Insomma, una sguaiata esibizione della propria strizza, e giustamente il professor Parsi se ne indigna sulle colonne del “Foglio”. Comunque Parsi non deve disperare: dopo le elezioni europee, una volta passato il rischio di regalare voti alle opposizioni, vedrà che i leader del governo di destra torneranno alla piena disciplina atlantica; anche perché nelle cose importanti il governo conta poco ed il Consiglio Supremo di Difesa è presieduto da Mattarella, al quale Crosetto deve rispondere.
A smentire le volgarità di Salvini c’è nientemeno la parola di Putin in persona, che in una conferenza stampa ha dichiarato di aver incontrato Stoltenberg quando questi era nel governo norvegese, per risolvere con lui questioni inerenti al Mare di Barents; ebbene, a detta di Putin, in quegli incontri Stoltenberg non gli aveva mai dato l’impressione di soffrire di demenza. Se non è un demente Stoltenberg, si potrebbe legittimamente arguire che a dispetto dell’evidenza non lo sia neppure Macron; perciò possiamo dormire sonni tranquilli.
Bisogna quindi smetterla una buona volta con questo malvezzo di mettere in dubbio la sanità mentale dei nostri leader. Anche nei confronti del presidente argentino Javier Milei sono circolate calunnie del genere, tanto che si è arrivati a chiamarlo “el loco”, il pazzo. Fortunatamente il Fondo Monetario Internazionale si è incaricato di rimediare a questa pioggia di sospettosa malevolenza, pubblicando un rapporto molto lusinghiero nei confronti dei risultati dei suoi primi mesi di governo. Il rapporto FMI ha avuto molta risonanza sui media ed ha avallato le ricette economiche liberiste. Ovviamente non potevano mancare i soliti incontentabili “precisini” che hanno osservato che nel rapporto FMI non c’è una sola affermazione circostanziata, che si tratta esclusivamente di generiche sviolinate senza pezze d’appoggio. In particolare risulta fumoso il paragrafo sulla politica fiscale, in cui si cantano lodi, ma non ci si dice mai dove Milei sta prendendo i soldi.
Il liberalismo non è una dottrina che brilla per concretezza; anzi pare un po’ ingenua l’idea di una separazione tra i poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario); il potere infatti se ne frega di tutte le separazioni e distinzioni giuridiche, e tende ad essere trasversale alle istituzioni, al pubblico ed al privato, e persino al legale ed all’illegale. Il conflitto di interessi (ma sarebbe meglio dire l’intreccio di interessi pubblici e privati) è ciò che conferisce incisività, sostanza e vischiosità al potere, dandogli le occasioni per fare cordate d’affari. Negli USA le commistioni e le porte girevoli tra il congresso, le agenzie federali e le multinazionali sono ad un livello irraggiungibile per qualsiasi altro paese; però anche nella nostra umile Italietta ci diamo da fare. A Leonardo ex Finmeccanica si sono succeduti due presidenti provenienti dalla direzione dei servizi segreti; ora invece alla presidenza di Leonardo c’è un ex ambasciatore. Lo Stato è una finzione giuridica ed un’etichetta solenne con cui indicare regimi o sordidi sistemi di potere; ma oggi la statualità non c’è più nemmeno come narrazione, perciò la porta girevole tra carriere pubbliche e private non soltanto non delegittima un funzionario dello Stato, ma addirittura gli conferisce prestigio personale ed un alone di competenza.
A differenza del vaniloquente neoliberalismo attuale, il liberalismo classico di Montesquieu e di Locke riusciva almeno ad esprimere un concetto concreto, e cioè che politica e fisco sono due nomi diversi per la stessa cosa; infatti i parlamenti dovevano servire appunto a questo, a limitare il potere del re di tassare i proprietari.
Nessuno oserebbe tassare le multinazionali, tantomeno Milei, che va a scodinzolare da Zuckerberg e dagli altri potenti; perciò puoi tassare solo i poveri, con lo strumento più rapido e sicuro, quello delle imposte indirette. Milei ha aumentato le tasse sui carburanti, tanto che in pochi mesi il prezzo è più che raddoppiato, siamo già al 115%. Quando i poveri devono comprare benzina o nafta non hanno la possibilità di scaricare su nessuno il maggior costo, perciò alla fine è il prelievo sul reddito dei poveri a reggere il sistema. Il bello è che, in base alla narrativa mediatica, la destra sarebbe anti-tasse mentre la sinistra è pro tasse; ma è tutto giocato sull’equivoco di indicare come “tasse” solo quelle dirette, dimenticandosi dell’IVA e delle accise, cioè le tasse che pagano solo i poveri, visto che sono l’ultimo anello della catena e non possono rivalersi scaricando il costo su altri.
Tutta la fiaba liberista a questo si riduce: spostare il carico fiscale dai ricchi ai poveri tramite le imposte indirette. La stessa cosa che ha fatto la Thatcher in Gran Bretagna, come risulta dalla documentazione reperibile sul sito della Fondazione Thatcher.
Ovviamente la sedicente “sinistra” si presta all’equivoco e partecipa alla pantomima. C’era pure il ministro Padoa Schioppa (lo stesso che voleva rieducarci alla “durezza del vivere”), il quale diceva che le tasse sono bellissime e bisogna pagarle con gioia. Certo, perché si può tagliare all’infinito sulla sanità pubblica, ma ci deve pur essere qualcuno che paga per le armi da inviare in Ucraina. C’è un nucleo arcano e misterico della scienza economica, quel segreto innominabile che viene rivelato solo a pochi iniziati, ed è appunto lo sfruttamento fiscale dei poveri; il che, detto in linguaggio ancora più tecnico e criptico, significa che alla fine ci sono sempre i fessi che pagano. Ed è giusto così, altrimenti i potenti non potrebbero permettersi il lusso della propria demenza.
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