COSA DIREBBE GOBETTI SULL’ETERNO FASCISMO da IL FATTO
Cosa direbbe Gobetti sull’eterno fascismo
ANGELO D’ORSI 25 Agosto 2024
A proposito delle incessanti polemiche sulle difficoltà dell’attuale gruppo governativo a dichiararsi antifascista, soccorre il fortunato motto di Piero Gobetti sul fascismo come “autobiografia della nazione” proposto nell’articolo Elogio della ghigliottina sulla Rivoluzione Liberale il 23 novembre 1922, meno di un mese dopo la Marcia su Roma.
Gobetti attribuisce al fascismo i tratti dell’anti-italianità: un’Italia negativa, che sopravviveva pigramente nell’indifferenza e nell’apatia, nella quale ciascuno era attento solo al suo “particolare”, pronto ad assistere a qualsiasi infamia senza alzare un dito, come stava accadendo con l’avanzata irresistibile delle camicie nere, ai danni dell’Italia vera, buona e onesta, pronta alla lotta fino al sacrificio.
Il fascismo, scrive il giovane Piero, “ha raccolto tutti gli ‘sbandati’, i reduci della canagliesca esperienza futurista, gli esasperati di una biliosa impotenza, gli esuberanti dell’ottimismo”. Il duce è il “capo primitivo di una selvaggia banda posseduta da un dogmatico terrore”. Dopo il “discorso del bivacco” del 16 novembre 1922 (insediamento del primo governo fascista), Gobetti commenta: “La nostra è un’antitesi di stile, che non sente neppure il bisogno di discutere il discorso di Mussolini.” Il fascismo gode del silenzio vile della maggioranza, della inerzia complice di troppi. A costoro occorre dare una lezione, e sarà proprio Mussolini a impartirla. Il “popolo ineducato” che “non ha il senso della libertà” imparerà da Mussolini “che cosa sia la tirannide”. E Gobetti si augura che il fascismo duri almeno “cinque anni”, senza indossare “nessuna maschera democratica”: al fascismo, annuncia, faremo opposizione “intransigente”: le nostre, spiega, “sono antitesi integrali”. Un discorso che in un certo senso Indro Montanelli avrebbe ripreso quando si augurò, paradossalmente, che Berlusconi durasse 5 o 10 anni (ne durò 20, ahinoi), proprio come “cura” dal berlusconismo.
Nell’articolo Elogio della ghigliottina, il ventunenne Piero precisa: “il nostro antifascismo non è l’adesione a un’ideologia, ma qualcosa di più ampio, così connaturale con noi che potremmo dirlo fisiologicamente innato”; ha un carattere sacrale, e si fonda su un unico valore, ma “incrollabile”: l’intransigenza; “e noi ne saremmo per un certo senso i disperati sacerdoti”. Il fascismo “è una catastrofe”, ma “è stato qualcosa di più”, è stato “l’autobiografia della nazione”. Esalta il sacrificio, fino a rimpiangere le “persecuzioni personali”, quelle che aveva già subito e che continuerà a subire fino all’addio all’Italia, all’inizio del 1926, con la morte a Parigi pochi giorni dopo. Ed ecco l’elogio della ghigliottina: “E bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina (…): chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro”.
Il culmine del paradosso è a portata di penna, e arriva con l’elogio di Farinacci, un nome simbolo della rozzezza e della violenza fascista. “Questi sani analfabeti che scrivono gli articoli sgrammaticati, ma sanno tenere la spada e il bastone in mano” sono gli ultimi interpreti della sempiterna storia italiana, storia di frodatori del fisco, di indifferenti e di inerti, uomini e donne privi di senso civico, portatori di tutte le malattie nazionali, compresa quella insopportabile della retorica del gesto. I fascisti sono gli eredi degli italiani alla Don Abbondio, pronti a servire il potente di turno e a saltare sul suo cocchio.
Gobetti, che provocatoriamente aveva invocato la ghigliottina, dovette accontentarsi del manganello mentre assisteva alla vittoria dell’“altra Italia”, il prevalere dell’“antitesi”, il trionfo della cialtroneria sulla serietà, del principio gerarchico su quello egualitario, la sconfitta inconsapevole ma in parte complice delle classi popolari davanti alle classi borghesi.
Ebbene, caro Gobetti, oggi possiamo affermare che il fascismo non è l’autobiografia della nazione, ma la sopraffazione della nazione da parte dell’anti-nazione; a dispetto del loro sguaiato nazionalismo, i fascisti furono e sono l’anti-nazione, pronti anche a piegarsi non solo ai padroni interni, ma a quelli stranieri, contrari a quelli italiani. L’altra Italia, insomma, sono loro. L’Italia vera non è quella fascista: l’Italia che lavora, che studia e produce, produce idee prima che merci, valore piuttosto che profitto, l’Italia che ha degli ideali e lotta per la verità contro i poteri occulti, l’Italia che vuole i diritti contro i privilegi, la giustizia sociale contro il parassitismo, l’Italia che non si accontenta di sopravvivere, sempre più stancamente, ma intende e pretende vivere. E vivere significa lottare ogni giorno per la verità, l’uguaglianza e la libertà.
Sono due Italie, inconciliabili. Smettiamola perciò di chiedere a chi è fascista (nell’anima, prima che nel bagaglio ideologico), di dichiararsi antifascista. Non lo sono, non possono esserlo. E dunque, se vogliamo usare la formula gobettiana, possiamo affermare che il fascismo è sì, l’autobiografia della nazione, ma la loro, non la nostra.
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