“CONTAGINA”: DELLA GUERRA E DELLA PACE da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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“CONTAGINA”: DELLA GUERRA E DELLA PACE da IL MANIFESTO e IL FATTO

«Contagina», un esperimento narrativo

SCAFFALE. A proposito dell’ultimo libro di Piero Bevilacqua, edito da Castelvecchi

Pino Ippolito Armino  14/02/2024

Una terribile e oscura pandemia ha per epicentro una cittadina del nord di meno che ottantamila abitanti che per molti tratti rimanda, però, più a un capoluogo di provincia dell’Italia meridionale, quasi a rimarcare quel luogo astratto, ovunque localizzabile nella penisola, dove la catastrofe potrebbe davvero aver inizio. Contagina. Questo il nome di fantasia, più evocativo non potrebbe essere, scelto da Piero Bevilacqua per ambientare il suo ultimo racconto (Contagina. Dove tutto ebbe inizio, Castelvecchi, pp. 160, euro 17.50). La surrealtà è un tratto tipico della penna dell’autore quando da saggista storico o politico si fa narratore; inverosimili e descritti con straordinaria potenza sono, infatti, gli eventi che colpiscono inizialmente Contagina ma finiscono per interessare tutto il pianeta: «Non brillarono stelle quella sera e un tozzo di luna, che a un certo punto spuntò, parve, a chi ancora stava a osservare il cielo, una medusa liquescente che si scioglieva nei vapori della notte».

IN QUEST’OPERA, tuttavia, la trascendenza si accompagna a un’ironia greve e sferzante. Bevilacqua prende di mira le «conquiste» sociali di quelli che vengono definiti i Tempi Nuovi, l’età delle pandemie sempre più ricorrenti e sempre più disastrose. Nei Tempi Nuovi, scrive, sono state riconosciute le controindicazioni fisiche allo studio e ciascuno gode della piena libertà di parola senza doversi curare troppo della veridicità o della plausibilità di quel che dice; e in parlamento, un’istituzione rimasta in piedi solo in omaggio alle antiche tradizioni, gli stessi deputati siedono a casaccio tra i banchi della sinistra e quelli della destra senza alcuna distinzione ideologica perché la politica si è, infine, liberata delle vecchie e stolide contrapposizioni tra partiti. Superati i conflitti che avevano contraddistinto l’età pre-pandemica e raggiunta la piena armonia fra di loro, gli schieramenti politici non rappresentano oramai che i medesimi interessi e non puntellano che gli stessi poteri. Si è così compreso che curare i malati ha effetti sociali perversi: impedisce l’immunizzazione selettiva della popolazione, unico vero ed efficace rimedio contro le pandemie, e appesantisce il già grave fardello del debito pubblico con conseguenze inevitabilmente nefaste sull’economia. È qui che la satira, sempre sapida e divertita, si fa ancora più pungente e attuale, scagliandosi contro la maniacale ossessione del Pil e il falso mito di una crescita senza limiti.

È EVIDENTE il richiamo alla necessità di combattere la crisi climatica e le pandemie, che alla prima sono correlabili, spezzando i dogmi del capitalismo che stanno portando l’umanità alla catastrofe. Bevilacqua, perciò, indica in una ritrovata capacità di rivolta la sola speranza di salvezza, non a caso l’esergo che precede la narrazione è tratto da Albert Camus. Ma è una porta appena dischiusa perché «essendo scomparso tra gli uomini l’istinto di salvezza, vale a dire l’antica attitudine alla rivolta, l’indomabile spirito di insurrezione che li aveva per lungo tempo accompagnati, la storia dei figli di Adamo era avviata a un circolo senza fine di disastri e d’illusorie rinascite».

La nonviolenza batte la guerra

MORALE DISARMATA – “Certo, riusciremo a risolvere i conflitti, grazie ai movimenti pacifisti. Anche se l’uomo non può rinunciare a combattere contro l’oppressione, a lottare per la libertà, la giustizia, l’indipendenza”

 MAURIZIO VIROLI  14 FEBBRAIO 2024

“Dispense litografate”: quanti oggi conoscono il significato di questa espressione? Erano trascrizioni delle lezioni dei professori curate da studenti o assistenti, spesso riviste dal docente, poi stampate con il metodo della litografia e distribuite a prezzi modici. Quando frequentavo l’università, negli anni 70, erano ancora preziosi strumenti per preparare gli esami.

Nel 1965 due studentesse dell’Università di Torino, Nadia Betti e Marina Vaciago, hanno raccolto e dato alle stampe presso la Cooperativa Libraria Universitaria Torinese (esiste ancora?) le Lezioni di filosofia del diritto tenute dal prof. Norberto Bobbio nell’anno accademico 1964-1965, su Il problema della guerra e le vie della pace.

Tommaso Greco ha curato un’edizione corretta di quelle Lezioni per Laterza, arricchita da una postfazione di Pietro Polito. Ho letto poche settimane fa che pochissimi giovani che frequentano l’Università di Torino sanno chi era e cosa ha scritto Norberto Bobbio. Confesso che la notizia mi ha rattristato. Mi illudevo che almeno Bobbio non sarebbe stato dimenticato. Spero che il lavoro di Greco e di Polito serva a fare rinascere l’interesse per la sua opera e la sua vita.

Bobbio ha raccolto i suoi studi sulla guerra e la pace in un volume che reca il medesimo titolo delle Lezioni pubblicato per i tipi de Il Mulino nel 1979, poi ristampato nel 1984, 1991, 1997. Ha ragione Tommaso Greco quando scrive che riproporre le Lezioni del 1964-65 è un “evento editoriale degno di nota” che ci permette di conoscere meglio il Bobbio professore, e di tornare a riflettere sui suoi scritti sulla guerra e sulla pace.

Da intellettuale militante quale è sempre stato, Bobbio si impegnò attivamente nel movimento pacifista. Nel 1961 partecipò alla prima Marcia della Pace organizzata da Aldo Capitini, con il quale strinse una profonda e duratura amicizia. Nell’anno accademico 1962-1963, a riprova dello stretto legame fra gli studi e l’impegno militante, Bobbio, insieme ad Alessandro Passerin d’Entrèves, tiene il seminario congiunto di ‘Filosofia del diritto e dottrina dello Stato’ su Il problema della guerra. Sono gli anni, vale la pena ricordarlo, della crisi dei missili a Cuba, quando la guerra fra Usa e Urss combattuta con armi nucleari era una minaccia reale.

Bobbio considerava la guerra, soprattutto la guerra atomica, tema centrale del suo impegno civile: “Da circa 20 anni – scrive nel De senectute e altri scritti autobiografici, del 1996 – ho dedicato buona parte dei miei scritti d’attualità al tema della pace e della formazione di una coscienza atomica. Sia per la novità assoluta del tema che mette in questione ogni tradizionale filosofia della storia, sia per il modo con cui l’ho trattato per grandi sintesi dottrinali e per avervi per la prima volta introdotto la metafora prediletta del labirinto, considero centrale nella mia opera di saggista lo scritto Il problema della guerra e le vie della pace”.

L’origine della profonda preoccupazione di Bobbio per la guerra va rintracciata negli anni della Seconda guerra mondiale, come rivela in un passo molto bello del discorso che pronunciò a Madrid nel 1996 in occasione del conferimento della laurea honoris causa dell’Universidad Autónoma. Ha fatto bene Pietro Polito a citarlo nella sua postfazione: “Appartengo a una generazione […] che è passata dal limbo, in cui, per dirlo con Dante, stanno coloro che ‘mai furon vivi’, all’inferno della Seconda guerra mondiale durata cinque anni e che in Italia, a differenza di quel che accadde in altri Paesi, terminò con l’occupazione tedesca di parte del territorio e con una crudele guerra fratricida, che lasciò piaghe così profonde non ancora guarite dopo mezzo secolo. Per chi, come me, aveva seguito studi giuridici e filosofici e si era occupato forzatamente di studi politicamente asettici, era naturale che, finita la guerra e tornata la libertà, i grandi problemi da affrontare fossero la democrazia e la pace. La storia della mia vita di studioso comincia di lì. Quello che precede è la preistoria”.

Bobbio ha cercato le vie della pace, ma non è mai stato un sostenitore della non violenza, anche se ammirava gli apostoli di quella dottrina: “Non mi considero – scrive – un nonviolento militante, ma ho acquistato la certezza assoluta che o gli uomini riusciranno a risolvere i loro conflitti senza ricorrere alla violenza, in particolare a quella violenza collettiva e organizzata che è la guerra, sia esterna sia interna, o la violenza li cancellerà dalla faccia della terra. L’importanza dei movimenti che predicano la nonviolenza collettiva e attiva deriva dalla accresciuta consapevolezza che via via che la violenza diventa più totale diventa anche più inefficace. Certamente l’uomo non può rinunciare a combattere contro l’oppressione, a lottare per la libertà, per la giustizia, per l’indipendenza. Ma è possibile, e sarà anche producente e concludente, combattere con altri mezzi che non siano quelli tradizionali della violenza individuale e collettiva? Questo è il problema”. Preferiva il pacifismo istituzionale rispetto al pacifismo morale perché riteneva il primo più realistico del secondo. Mentre il pacifismo morale confida nella speranza di un miglioramento della natura umana, il pacifismo istituzionale confida nel diritto sostenuto da istituzioni statali e sovranazionali con potere di sanzione. Alla domanda “come si possono rendere impossibili le guerre?” Bobbio risponde: “Tra le risposte che si possono dare a questa domanda, di cui le due estreme sono l’azione diplomatica, praticabile ma insufficiente, e l’educazione alla pace, più efficace ma meno attuabile, io ho dato la preferenza, per ragioni legate alla mia formazione culturale e per una naturale vocazione a ritenere che la virtù sia nel mezzo, a quella che guarda alla creazione di nuove istituzioni che aumentino i vincoli reciproci tra gli Stati o al rafforzamento di quelle fra le vecchie che hanno dato sinora buona prova”.

Di fronte alla forza dei signori della guerra del nostro tempo, e alle falangi di servi sempre pronti a giustificare e a scusare anche le guerre più ingiuste, le voci di chi ama la pace e i diritti dei popoli sono più deboli rispetto ai tempi di Bobbio. Eppure, proprio Bobbio, che non era certo un ottimista, chiudeva l’ultima edizione de Il problema della guerra e le vie della pace con parole che noi vecchi non dovremmo mai stancarci ripetere ai giovani: “Qualche volta è accaduto che un granello di sabbia sollevato dal vento abbia fermato una macchina. Anche se ci fosse un miliardesimo di miliardesimo di probabilità che il granello, sollevato dal vento, vada a finire nel più delicato degli ingranaggi per arrestarne il movimento, la macchina che stiamo costruendo [che abbiamo costruito] è troppo mostruosa perché non valga la pena di sfidare il destino”.

La profezia della guerra e i nuovi chierici

COMMENTI. La responsabilità di classi dirigenti, intellettuali e media che appoggiano la nuova retorica bellicista è gravissima. Imperdonabile. E sembra richiamarsi alla “Dottrina del fascismo”

Filippo Barbera  14/02/2024

Qualche settimana fa, il capo dell’esercito inglese, il generale Sir Patrick Sanders, ha descritto il popolo britannico come parte di una “generazione prebellica” che potrebbe doversi preparare a combattere una guerra contro una Russia sempre più aggressiva. Sostiene Sanders: “L’Ucraina dimostra brutalmente che gli eserciti regolari iniziano le guerre; gli eserciti composti da cittadini li vincono”. Il capo di stato maggiore ha poi richiamato l’esempio della Svezia, che ha appena introdotto una forma di servizio nazionale in vista dell’adesione alla NATO.

Dopo il clamore suscitato da queste dichiarazioni. Pochi giorni fa, il ministro della Difesa danese, Troels Lund Poulsen, in un’intervista al quotidiano Jyllands-Posten, dichiara che la Danimarca dovrebbe accelerare gli investimenti nella difesa poiché la Russia si riarma più velocemente del previsto e potrebbe attaccare un Paese della Nato entro tre o cinque anni.

Anche in Italia, non è per nulla raro o strano ascoltare esponenti delle classi dirigenti che parlano con noncuranza della guerra come esito più o meno scontato del prossimo futuro; aggiungendo che è cosa buona e giusta che le Università rafforzino la loro collaborazione con l’industria militare; per poi chiosare che la guerra è la via maestra per la pace. Il tutto, condito dalla retorica del “sacro dovere di difendere la Patria” come principio costituzionale. O dell’inevitabile scontro tra civiltà, con chiari e netti confini tra bene e male. In alcuni casi, senza timore del ridicolo, si paragona la guerra al Signore degli Anelli, con tanto di Orchi, Gandalf e Mordor. Nel senso comune, colonizzato da decenni di immaginario hollywoodiano e di fantasy popolare, il messaggio della guerra trova terreno fertile.

La responsabilità delle classi dirigenti, dei media e degli intellettuali che appoggiano questa retorica bellicista è gravissima. Imperdonabile. E fascista. Recita così la voce “Dottrina del fascismo” dell’Enciclopedia Italiana, redatta per metà da Giovanni Gentile e per l’altra metà da Benito Mussolini, e pubblicata nel 1932. “Anzitutto il fascismo, per quanto riguarda, in generale, l’avvenire e lo sviluppo dell’umanità, e a parte ogni considerazione di politica attuale, non crede alla possibilità, né all’utilità, della pace perpetua. Respinge quindi il pacifismo che nasconde una rinuncia alla lotta e una viltà – di fronte al sacrificio”. Un assorbimento della retorica fascista della guerra e del suo vocabolario non solo grave e imperdonabile, ma anche tragicamente ridicolo perché, alla prova dei fatti, la scarsa legittimità e la bassissima fiducia che le persone nutrono verso le istituzioni e la classe politica rende del tutto illusorio pensare a una militarizzazione efficace e indolore della società. La retorica della guerra – nelle nostre società – funziona solo se si accompagna al sacrificio dei figli degli altri. La guerra ci piace solo guardarla, per sentirci dalla parte “giusta” e guardarci allo specchio, intrisi di falsa coscienza. In realtà, il desiderio di morte, di dissolvimento potremmo dire, che promana dalla politica e dai suoi apparati è il segno di un’egemonia in crisi. Il Re è nudo, ma chi lo dice apertamente viene accusato di tradimento, di anti-occidentalismo o peggio.

La crisi irreversibile dell’egemonia occidentale è sia materiale che simbolica, spiega Emanuel Todd nel suo recente libro La Défaite de l’Occident. Una sconfitta che si basa su tre fattori, spiega Todd in un’intervista a Le Figaro. La perdita di capacità industriale e manifatturiera degli Stati Uniti, accompagnata da un generale declino della formazione tecnico-ingegneristica e, più in generale, da una crisi del sistema di istruzione. Un declino intellettuale, dovuto al venir meno dell’aura salvifica del lavoro e dell’impegno “intramondano” come via per il riscatto e la salvezza individuale. Il modello neoliberale ha fondato la cittadinanza e l’identità sul consumo, che si è trasformato in cupidigia di massa. Infine, il dato più sorprendente. Quello che mostra tutta la nudità del Re. La preferenza del resto del mondo per la Russia, che ha scoperto nuovi alleati, sodali e simpatizzanti nel mondo nuovo. Un inedito soft power russo, fortemente basato sulla compressione dei diritti civili e sull’idea che la “modernità culturale” di un occidente che vive del lavoro sottopagato degli uomini, delle donne e dei bambini dell’ex terzo mondo non è credibile. Anzi, è fastidiosa e ipocrita. Per questo, continua Todd, è necessario uscire dalla contrapposizione morale tra democrazia liberale e autocrazia illiberale. I sistemi occidentali sono oligarchie liberali, non democrazie, in crisi di egemonia. La Russia è una democrazia autoritaria che tenta di recuperare una potenza perduta. Sullo sfondo, la potenza emergente della Cina.

I nuovi chierici bellicisti hanno chiaro questo quadro e, per interesse o furore ideologico, hanno scelto la via delle armi, con i corpi degli altri. Il problema è che la guerra è anche una profezia che si autoavvera e chi contribuisce a creare questa atmosfera ne è parte integrante.

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