CHI RISCRIVE LA STORIA? da OFFICINA DEI SAPERI e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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CHI RISCRIVE LA STORIA? da OFFICINA DEI SAPERI e IL MANIFESTO

Chi riscrive la storia?

  Paolo Favilli  22/04/2023

Dobbiamo «riscrivere» la storia del fascismo e dell’antifascismo nell’Italia repubblicana in nome della «pacificazione» nazionale. 

In vista della celebrazione di un 25 aprile che non si vuole più «divisiva», questa sorta di invocazione viene continuamente ripetuta, non solo, com’è ovvio, nell’ambito dell’area neofascista attualmente al governo, ma anche in un’area più vasta di «pacificatori».

Ci si appella alla necessità di una comune riflessione ispirata alla pietas per le giovani vittime della violenza negli anni di piombo. Questo atto doveroso, però, non ha nessun bisogno di riscritture della storia, né, tantomeno, di «pacificazione» tra forme fascismo e antifascismo.

Nessuno dei pacificati/pacificatori si è posto alcune domande essenziali concernenti il carattere della conoscenza storica: che cosa significa «riscrivere» la storia? Chi la riscrive e con quali strumenti analitici? I politici che vogliono la «riscrittura» a quale tipo di studi pensano di fare riferimento? Con chi intendono «parlare», insomma?

Giorgia Meloni, ad esempio, parla con un’immagine di storia, un’evocazione di nebulose atmosfere intessute di memoria a sfondo revanscista.  Non parla assolutamente con la storia come frutto del lavoro degli studiosi di mestiere.

«Riscriviamo pure la storia e facciamolo come un rifiuto della violenza e dell’odio»: afferma il senatore del Pd Walter Verini («Corriere della Sera», 17 aprile). Con chi «parla» Verini»?

Possiamo escludere ch’egli, proprio come la Presidente del Consiglio, «parli» con i risultati e i metodi della storiografia professionale.

Per i cultori della «fiamma» tale pratica è elemento costitutivo  di un’agenda politica assunta a partire immediatamente dopo il 1945. Altrettanto costitutiva una prospettiva del tutto inversa da parte della tradizione politico-culturale da cui molti dei parlamentari Pd  dicono di fare un qualche riferimento. Per i parlamentari del Pci degli anni Settanta e Ottanta ogni discorso sulla storia non poteva che partire dai risultati raggiunti dalla storiografia sull’oggetto considerata pertinente dalla comunità scientifica. Per costoro un’affermazione come quella di Verini sarebbe stata causa di un penoso stupore.

Ovviamente il deputato Renato Zangheri o il senatore Giuliano Procacci, due tra i più autorevoli storici europei del secondo dopoguerra, l’avrebbero giudicata priva di qualsiasi fondamento storico e politico. Però, anche il deputato Rolando Tamburini, prima operaio siderurgico, poi segretario di Camera del Lavoro, poi sindaco di Piombino e infine parlamentare, l’avrebbe sentita del tutto estranea ad una cultura politica, la sua, per la quale la storia era elemento fondamentale della conoscenza di una realtà ch’egli voleva cambiare radicalmente. E proprio per questo doveva essere conoscenza reale, scritta secondo le metodologie più critiche e innovative

Non si «riscrive» la storia per  «rifiutare odio e violenza». La «riscrittura» è elemento consustanziale del lavoro storico. La riscrittura è il frutto continuo della ricerca e dell’innovazione metodologica, è elemento essenziale di ampliamento e approfondimento conoscitivo. 

La conoscenza storica è esplicativa delle fratture profonde, come quella del 25 aprile 1945, non certo di una loro immaginaria ricomposizione.  Anzi il fatto che molte delle nuove ricerche mettano in rilievo il legame tra la guerra civile 1919-1921 e quella 1943-1945 (in non pochi casi le stesse persone ne furono protagoniste) spinge a riflettere ulteriormente sul carattere dirimente del 25 aprile.

Si tratta, infatti, di una data che apre alla possibilità del rovesciamento di aspetti fondamentali di un ordine sociale del quale il fascismo del ventennio era stato il massimo garante.

Sappiamo bene come il rapporto tra cesure e continuità sia complesso, e come, dopo il 1945, le nuove forme di ricomposizione dell’ordine sociale si ritrovino ad incrociarsi con le nuove/vecchie forme fascismo.

Nel novembre 1921 Emilio Lussu fu testimone del Congresso in cui i Fasci italiani di combattimento divennero Partito Nazionale Fascista. Assistette al Congresso appartato nell’angolo di un palco. L’aveva fatto entrare uno squadrista figlio di un ricco agrario della valle padana che era stato sottotenente nel battaglione comandato dal capitano Lussu e che conservava nei suoi riguardi sentimenti di rispetto e ammirazione. Lo squadrista aveva una mano lacerata.

     –    Quei briganti mi hanno ferito durante un attacco notturno.

  • Quali briganti?
  • I_contadini.
  • Ma i contadini attaccavano o erano attaccati?  – No, attaccavamo noi. E siamo riusciti a stroncarli. È finita la cuccagna. Pensi che ogni contadino guadagnava persino quaranta lire al giorno.
  • E adesso?
  • Ah, ora le cose sono cambiate._
  • Ma quanto guadagnano ora?
  • Quattordici lire. E sono anche troppe. (Marcia su Roma e dintorni, 1933)

Nella nostra riflessione sul rapporto tra la frattura del 25 aprile e le lunghe continuità è da questa consapevolezza che dobbiamo sempre ripartire.

La Carta straccia della seconda carica dello Stato

REPUBBLICA CIECA. Il divieto di riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del partito fascista non è una specifica norma, bensì un vero e proprio «paradigma» della Carta

Gaetano Azzariti  22/04/2023

È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Eppure il presidente del Senato dice che «nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’antifascismo».

Evidentemente non ha avuto tempo per leggere tutto il testo e non è riuscito ad arrivare alla XII disposizione transitoria e finale. Oppure – il che sarebbe peggio – ritiene che i principi scritti nella parte conclusiva del testo della Carta fondativa della nostra Repubblica democratica non abbiano un particolare valore. In effetti, egli ha dichiarato che solo la prima parte sarebbe «condivisa e incontestabile».

Mi dispiace deludere la seconda carica dello Stato, ma persino uno studente di giurisprudenza sa che le costituzioni devono essere interpretate «sistematicamente», mentre è la Consulta ad affermare la necessità di far riferimento all’insieme dei principi costituzionali e questi sono contenuti in tutte le disposizioni del testo, comprese quelle «finali».

IN PARTICOLARE, il divieto di riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del partito fascista rappresenta non solo una specifica norma, bensì è espressione di quel che è stato definito un vero e proprio «paradigma costituzionale», qualificando pertanto il nostro tipo di democrazia. La quale non è una democrazia «invertebrata», ma «pluralista e conflittuale», ovvero che rifiuta il principio autoritativo che invece si pone a fondamento di quei regimi politici che hanno assunto le forme storiche del fascismo e del nazismo in Europa nel corso del Novecento.

CHE NON BASTI dirsi «democratici» è dimostrato dal fatto che anche le dittature si sono sempre presentate null’altro che come dei particolari modelli di democrazia: «democrazie identitarie» amava qualificarle Carl Schmitt.

È vero, la Costituzione è di tutti, persino di chi ritiene di non doversi riconoscere nei suoi valori. Basta che ne rispetti i principi e non se ne voglia appropriare per stravolgerne il senso. Anche di chi professa una fede fascista o nostalgica, purché non operi «esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica». Sono queste le parole utilizzate dalla legge Scelba di attuazione della XII disposizione costituzionale, ove si aggiunge che è anche vietato denigrare la democrazia (antifascista) e i valori della Resistenza.

MENTRE APPARE DEL TUTTO fuori posto l’affermazione, sempre del Presidente di tutti i senatori, secondo la quale «il problema è che di quei valori si sono appropriati il Pci e poi la sinistra. Questo è un fatto storico. E a questo mi sono sempre opposto».

Che vuol dire? Sul piano storico non v’è dubbio che tanto la Resistenza quanto la Costituzione sono un patrimonio cui dobbiamo ringraziare (altro che «opporsi») i nostri padri costituenti, tra cui, come protagonisti, i tanti comunisti che hanno combattuto nella resistenza dalla parte giusta ed hanno dato vita alla nostra Costituzione. La quale – forse è bene ricordarlo al nostro distratto Presidente dei senatori – è firmata da un comunista, che è stato presidente dell’Assemblea costituente; da un democristiano, che era Presidente del Consiglio e da un liberale e monarchico in qualità di Capo provvisorio dello Stato.

Come si vede, una Costituzione sottoscritta da tutti, salvo che da quelle forze contro cui si sono scritte le nuove regole del vivere civile: i fascisti, appunto e le loro esecrabili forme del fare politica.

SE POI, CON L’ACCUSA DI «APPROPRIAZIONE» dei valori della resistenza da parte della sinistra si vuole affermare che questa parte politica è l’unica a non aver dimenticato come è nata la nostra Repubblica antifascista e quali sono stati i sacrifici per poterla edificare, ebbene mi sembra si tratti di una dichiarazione di colpevolezza e chiamata di correità di tutte le altre forze di centro e di destra che, invece, di tali valori non si sono voluti «appropriare».

Potremmo paradossalmente dire che si tratta di un giudizio sin troppo generoso nei confronti della «sinistra» unico baluardo della democrazia per come ci è stata consegnata dalla lotta partigiana. In fondo, un’indicazione che questa parte politica dovrebbe cercare di inverare.

Che l’antifascismo rappresenti il paradigma costituzionale è dimostrato dal fatto che proprio la XII Disposizione finale si pone alla base del divieto di una serie di altri reati d’odio. Contrastando tutte quelle pratiche (i comportamenti non le idee, le quali sono invece tutelate dall’art. 21 sulla libera manifestazione del pensiero, fossero anche le opinioni più riprovevoli) che si pongono in contrasto con il valore della dignità e il principio personalista su cui si basa l’intera nostra Costituzione.

COSÌ, DOPO LA LEGGE Scelba, leggi successive hanno provveduto ad estendere, oltre all’ipotesi di riorganizzazione del disciolto partito fascista, anche gli altri casi di atti «commessi per finalità di discriminazione e odio etnico, nazionale, razziale o religioso» (legge Mancino poi spostate all’interno del c.p.).

Nella passata legislatura, infine, proprio collegandosi a questa disposizione «antifascista» si è pensato potesse essere trovata la garanzia nei confronti di altri comportamenti lesivi della dignità sociale e personale: sia con riferimento ai c.d. hate speech, sia nei casi di omotransfobia.

Insomma, l’antifascismo è un principio di civiltà finalizzato ad evitare di farci cadere nella barbarie del fascismo, sotto qualsiasi forma. La nostra Costituzione è antifascista e noi con essa.

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