AMBIENTALISMO E SOCIETÀ da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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AMBIENTALISMO E SOCIETÀ da IL MANIFESTO

Ambientalismo a targhe alterne

NUOVA FINANZA PUBBLICA. La rubrica settimanale a cura di Nuova Finanza pubblica

Marco Bertorello, Danilo Corradi    13/04/2024

La questione ecologica è tanto centrale quanto agita propagandisticamente. Fino a confondere e impedire di orientarsi. Un esempio recente riguarda le nuove tendenze nel settore dell’abbigliamento e le sue conseguenze nel trasporto aereo cargo. Produzione e logistica dunque.

Alcune imprese di e-commerce, come Shein e Temu, utilizzando una strategia di pubblicità aggressiva fondata sui social e la sponsorizzazione degli “influencer” (su TikTok e non solo) riversano sul mercato europeo indumenti a bassissimo costo (meno di 5 euro) con tempi di consegna sempre più ristretti.

Due gli effetti del poderoso affermarsi di quella che viene chiamata fast o istant fashion: intasamento del sistema di trasporto aereo e aumento dell’uso di materiali derivati dal petrolio per confezionare tessuti a basso costo.

L’aumento dei noli del trasporto aereo, conseguenza di un’accresciuta domanda di trasporto nei cieli, è tale da rendere persino insufficiente la vigente infrastruttura aeroportuale. Tant’è che la sola Malpensa non basta, e per portare queste nuove merci in Italia si fa anche scalo in Belgio per poi ricorrere al trasporto su gomma.

Insomma più aerei e più camion. Il consumo di petrolio, poi, serve per produrre il poliestere che costituisce uno dei materiali base di tali indumenti, il quale rilascia microplastiche nell’ambiente. Altro fattore inquinante.

In Europa si comincia a tuonare su queste nuove tendenze. La moda brucia più petrolio delle automobili si dice.

In Cina, in effetti, l’incremento di consumo di petrolio per la chimica è di gran lunga superiore a quello per il trasporto. In Francia è stata approvata persino una legge che intende penalizzare i nuovi colossi della moda low cost mediante disincentivi fiscali e ostacoli al loro sistema di pubblicità.

Tutte preoccupazioni molto ragionevoli, ma che sollevano interrogativi di fondo. Il problema si pone solo per i prodotti cinesi? Solo le aziende cinesi producono a basso costo in Cina? Oppure la globalizzazione ha esportato produzioni ovunque, per poi riversare le merci in Occidente? Il sistema logistico integrato che ha preso campo è appannaggio esclusivo della Shein e Temu? Oppure Amazon ne costituisce una variante occidentale?

C’è una serie di aziende, dalla tedesca Dhl alla cinese Alibaba, che sono capofila di un nuovo sistema di produzione e consumo globale connesso al trasporto su lunghe distanze.

E il turismo croceristico che inquina le nostre città portuali non è un altro esempio di questo consumo a basso costo? L’usa e getta da tempo, ormai, è diventato l’imperativo di beni materiali e persino immateriali.

L’unica novità è il paradosso di una sorta di inquinamento di ritorno. La delocalizzazione ieri delle industrie più tossiche nel sud povero ha oggi come contropartita un consumo malato e inquinante nel presunto ricco nord.

Prima si è delocalizzazzato per consentire a salari stagnanti di non perdere potere d’acquisto e ora si denuncia l’invasione di prodotti inquinanti provenienti dal Far est. Vero. Però, come al solito, gli svantaggi economici prendono sempre la strada dei lavoratori e delle lavoratrici.

La denuncia appare frutto di interessi geopolitici piuttosto che della volontà di difendere l’ambiente. La stagnazione dei salari non può che essere accompagnata dall’arrivo di merci a basso costo prodotte dove la manodopera è più contenuta. Per come è costruita l’attuale economia le importazioni della Cina non potrebbero che essere sostituite magari da quelle provenienti dalla Turchia o da qualche altro paese alleato. Forse si risparmierebbe qualche chilometro, ma non si salva di certo il pianeta, tantomeno le condizioni di vita reali delle classi popolari e subalterne.

L’ecologia sarebbe da prendere sul serio e non a intermittenza in relazione ai grandi interessi in competizione tra loro.

Serge Latouche, lavorare meno o diversamente

SCAFFALE. A proposito dell’ultimo libro dell’economista e filosofo francese

Gloria Germani  13/04/2024

Come le altre rivoluzioni tecnologiche che si sono succedute a partire dal XVIII secolo e che sono fallite nella promessa di liberarci dal lavoro, anche la cosiddetta «quarta rivoluzione», decantata dai guru del transumanesimo, non produrrà alcun miglioramento. Piuttosto – scrive Serge Latouche, animatore della Revue du MAUSS, nel suo ultimo libro, Lavorare meno, lavorare diversamente, o non lavorare affatto (Bollati Boringhieri, pp. 96, euro 12,00, traduzione di Fabrizio Grillenzoni) si verificherà «una dittatura degli algoritmi». Del tutto contrario all’utopia digitale, che non fa se non proseguire il medesimo paradigma creato dal lavoro salariato, il padre della decrescita chiede di immaginare l’uscita della società del lavoro per andare verso una comunità in cui le attività senza fine economico, pubbliche e private, sociali e personali, saranno prevalenti. Non si tratta – come alcuni detrattori hanno detto – di tornare a un passato perduto, ma di «inventare una tradizione rinnovata».

LIBRO BREVE, ma denso di profondi stimoli, quest’ultimo di Latouche affronta un tema decisivo per sottrarsi alla cornice della società ispirata alla crescita, il tema di una doppia impostura: dello «sviluppo sostenibile», e della «crescita verde».
Da non più di 20 anni, la rivoluzione culturale di cui si pretende portatrice la decrescita persegue un cambiamento radicale di paradigma, che consiste niente meno che nell’uscire dall’economia moderna cioè, nell’abbandonare la religione della crescita. Proprio dall’esperienza della pandemia, così come dal recente movimento francese contro la riforma delle pensioni, ci viene una lezione su come sopravvivere senza consumi eccessivi e su come battersi per un’idea diversa di lavoro e per una sua migliore qualità.
D’altronde, già i precursori della decrescita – da Ivan Illich a Andrè Gorz a Jean Baurdrillard – avevano condotto una critica serrata al produttivismo, ed è a loro che ancora ci si riferisce per uscire dalle condizioni di vita che minacciano il collasso climatico.

DEL RESTO, sottolinea Latouche, «non si risolverà il problema sociale senza realizzare una vera transizione ecologica». E indica tre misure principali: la rilocalizzazione sistemica delle attività utili già in atto tramite i neo-agricoltori, neo-rurali, neo-artigiani; una riconversione progressiva di attività parassitarie come la pubblicità, che è vendita dei desideri, o nocive come il nucleare e l’industria delle armi; una riduzione programmata e significativa del tempo di lavoro, passando per l’imbrigliare l’economia attuale ed eliminare i tabù del protezionismo e dell’inflazione.

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