Kaurismäki. Dalla parte dei marginali
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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Kaurismäki. Dalla parte dei marginali

Vi sono film che, soprattutto per la loro qualità culturale (estetica si diceva una volta), hanno l’efficacia argomentativa di un saggio e, a volte, anche maggiore. È il caso dell’ultima opera di Aki Kaurismäki, attualmente in programmazione, L’altro volto della speranza, della quale riteniamo opportuno pubblicare, ovviamente con il suo consenso, la recensione di Goffredo Fofi. Il film è una riflessione critica sull’Europa e il problema del diritto d’asili, più in generale dell’immigrazione. Del regista, universalmente noto, ricordiamo soltanto la precedente pellicola, Miracolo a Le Havre, per analogia tematica. Per quanto riguarda Fofi, che ringraziamo per la sua disponibilità, un intellettuale da sempre stimato anche per la sua avversione allo “stato di cose esistente”, ricordiamo unicamente che gode di ampia notorietà come critico e storico del cinema.

Vittorio Boarini

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“L’altro volto della speranza” non è il solito comizio sentimentale

di Goffredo FOFI, da “Internazionale”, 7 aprile 2017

L’altro volto della speranza è l’ultimo film di uno dei registi più generosi e simpatici che si conoscano, il laconico finlandese Aki Kaurismäki, che conferma le sue qualità e porta avanti il suo discorso, basato su una scelta radicale fatta una volta per tutte: stare dalla parte dei marginali, dei loser, di coloro che diffidano della società organizzata perché dominata dai potenti e dai loro servitori e nemica dei deboli.

La sua scelta è da sempre quella di stare dalla loro parte e di raccontare le loro disgrazie ma anche le loro grazie, la loro ostinazione nel cercare un mondo più giusto e nel tentare di costruirlo pezzetto per pezzetto, pervicacemente.

In questo percorso essi incontrano spesso i “normali” pur se delusi dal mondo così com’è, che in molti dei suoi film decidono improvvisamente di cambiare strada come il non giovane commerciante-venditore di questo film, che decide di cambiare vita e si dà al settore, più gratificante (anche se inflazionato), della ristorazione.

Recupera un ristorante noioso e il suo personale, e insieme trasformano il locale in un ritrovo esotico e ballerino, che trova un pubblico nuovo e vivace. A questa storia s’intreccia quella di un immigrato clandestino dal Medio Oriente che ad Aleppo ha perduto parte della famiglia sotto i bombardamenti, e nella fuga ha perso le tracce di una sorella, sopravvissuta come lui ma finita chissà dove.

Le fatiche dei richiedenti asilo sono raccontate con la partecipazione di un autore che si considera un outsider, e dunque anche lui in qualche modo straniero, in quanto estraneo alle regole del gioco stabilite da chi comanda. Kaurismäki racconta con la consueta essenzialità e scansione, per immagini limpide e prediligendo una recitazione estraniata, antinaturalistica. Intende stabilire sempre una distanza tra il film e lo spettatore. Non intende commuovere, ma solo mostrare e dimostrare. Non ama la retorica e i comizi sentimentali della stragrande maggioranza dei registi che si dicono buoni.

La tragedia dei nostri anni

A volte, per esempio nel suo capolavoro L’uomo senza passato, parte da una storia esemplare e romanzesca, ed è allora che l’ala della poesia protegge il suo lavoro e lo rende quasi unico nel cinema contemporaneo.

Dovessimo trovargli dei parenti, penseremmo in Italia a Franco Maresco, più disperato, o ad Alice Rohrwacher, più affettiva. Altre volte, come in quest’ultimo lavoro, si avverte una qualche fatica, una ripetizione, e la dimostrazione non ha il dono della semplicità e della poesia ma appare a tratti sforzata. Però quale altro regista di fiction ha saputo narrare con questa semplicità e immediatezza la vera, la prima tragedia dei nostri anni, che è quella dei migranti cacciati dalle loro patrie dalle guerre, dalle dittature, dalla fame, e infine dalla speranza di poter trovare una società non nemica?

Kaurismäki, per sua scelta, non è uno di quegli ammortizzatori del disagio, addomesticato di possibili ribellioni.

In genere, si resta irritati o indignati di fronte ai tantissimi film e documentari che affrontano, anche in Italia, temi simili secondo le vecchie modalità paratelevisive e giornalistiche di una denuncia insincera e del ricatto sentimentale (e questo vale anche per tanta letteratura). A scrivere e a filmare non sono degli outsiders ma degli insiders preoccupati in primo luogo del loro successo e della loro carriera, e che sono membri di quella vastissima parte dell’umanità di oggi che, chi più chi meno, vive e guadagna alle spalle di chi soffre, mediatori indispensabili dentro un sistema economico aberrante, ammortizzatori del disagio, addomesticatori di possibili ribellioni.

Kaurismäki non è di questi, e non lo è anzitutto per la scelta del suo stile, per il modo in cui racconta, dettato dall’amore che porta ai suoi personaggi e dall’identificazione nelle loro pene. Non vuole commuovere, vuole capire e vuole aiutare a capire. Il finale di L’altro volto della speranza non è affatto consolatorio, non sappiamo se il protagonista sopravviverà alla coltellata del fascista. Non sappiamo cosa ne sarà delle migliaia e migliaia di persone come lui, in un’Europa decisamente frigida, decisamente egoista, con una sinistra molto ipocrita e molto di destra, e con una popolazione in cui abbondano i falsi buoni e quelli veri latitano, non agiscono.

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