UCCISI, MA NON PIÙ ANONIMI da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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UCCISI, MA NON PIÙ ANONIMI da IL MANIFESTO

Uccisi, ma non più anonimi

POESIA «Lavorare da morire… e raccontarlo in versi»: la silloge di Gianni Mereu, per le edizioni Libreria Croce

Velio Abati  01/05/2025

«Questo è un libro di denuncia, in forma poetica, contro il neo schiavismo, contro l’estrema precarizzazione e lo sfruttamento selvaggio sul lavoro, contro l’avido profitto che sacrifica la vita dei lavoratori omettendo le obbligatorie misure di sicurezza. La raccolta poetica parla della classe operaia», così Gianni Mereu apre l’introduzione al suo Lavorare da morire… e raccontarlo in versi (Edizioni Libreria Croce, pp. 184, euro 16,90. da richiedere anche a edizionicroce.it). I singoli testi, accompagnati da un’ampia Prefazione di Gina Di Francesco, infatti, sono la presa di parola in prima persona di lavoratori e lavoratrici cadute sul lavoro, che, come in una grave assemblea, a turno si alzano per raccontare la propria vita oltre e intorno alla violenza che li ha stroncati.

INTENTO MILITANTE ben chiaro dell’autore, che conclude l’introduzione con la celebre frase di Marx: «Si rivolge alle singole lavoratrici e ai singoli lavoratori (…) ai sindacalisti, ai responsabili per la sicurezza nei posti di lavoro, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (…) a quelli che s’impegnano affinché diventi realtà: a ognuno secondo le sue capacità e a ciascuno secondo i suoi bisogni».

Le uccisioni sul lavoro non conoscono confini, colore della pelle, età, sesso, né mutazione di tempo; barriera vera è solo quella di classe: questo ci ricordano i morti, restituita la voce, siano persone tragicamente rese note dalle cronache, come Jerry Esslan Masslo ucciso da un raid a Villa Literno il 24 agosto 1989, o i 262 minatori massacrati nella miniera belga di Marcinelle l’8 agosto 1956, oppure, come pressoché sempre accade, persone nominate per un giorno dalla stampa locale, quali Giovanna Curcio, di 15 anni e Annamaria Mercadante, di 49 anni, cucitrici di materassi, bruciate nell’incendio del laboratorio il 5 luglio 2006. Con pietas fraterna Mereu conduce un lavoro scrupoloso, né sempre facile, di documentazione per sottrarre quanto più possibile dall’anonimato il profilo umano di ciascuno. Ogni componimento è preceduto dai dati anagrafici, dall’indicazione del lavoro e del luogo dell’uccisione, mentre l’ordine dei testi segue quello crescente dell’età delle vittime: dai 14 anni di Liu Fuzong, ai 56 di Carlo Maccari. Altrettanto chiaro l’intento di denuncia e sollecitazione al cui fine contribuisce una ricca Nota di controinformazione curata da Carlo Soricelli, che nel 2008 ha fondato un Osservatorio indipendente sui morti sul lavoro.

In coerenza con lo spirito militante della raccolta, chi prende voce non si chiude nel dolore definitivo della morte. Il fatto, le circostanze, la meccanica pur descritti per dovere documentale e di denuncia sono generalmente riferiti con il distacco dei purganti danteschi quando guardano alla loro avvenuta morte violenta, come Stefano Di Carlo, schiacciato in una cava: «Venne chiamato perfino quell’umano saggio / venne per dire che ero proprio io / quel poveretto morto sotto grezze lastre di marmo». Ma il cuore e, si aggiunga, la bellezza dei lunghi testi, dalle movenze di ballata, risiede nella ricchezza e precisione terminologica con cui ciascuno descrive il proprio lavoro e nei riposati affreschi paesaggistici che fanno da sfondo alla tragedia.

I RIFERIMENTI autobiografici forniti dall’autore nella Nota, dalla quale apprendiamo la pluralità delle esperienze lavorative operaie, l’impegno di responsabile della sicurezza e poi di sindacalista, danno bene ragione non solamente della conoscenza tecnica, ma dell’intimità con il lavoro e dell’amore con cui esso viene vissuto, ben oltre la sua riduzione a merce di scarso valore cui la riduce il padrone, ben oltre la stessa morte che esso ha provocato. E incontriamo qui la denuncia implicita quanto energica della causa originaria della violenza patita, non il lavoro, ma il rapporto sociale di produzione.
Allo stesso fine concorrono le fresche descrizioni paesaggistiche – e sono le parti più belle – che costituiscono la scena della tragedia: è proprio il contrasto, meglio se implicito, tra la brutalità del ‘non più’ e il godimento ancora per altri presente, che provoca nel lettore lo scatto di ribellione. In questi passi Mereu mette in pratica lo stesso spirito analitico e documentale seguito nelle mansioni lavorative.

Qui si incontra l’ispirazione più autentica dell’autore: la curiosità del mondo, il piacere del mondo, che muove alla sua conoscenza, all’incontro fraterno con l’altro, alla fiducia nel cambiarlo. Da questo nasce il rifiuto del negativo generato dalla produzione capitalistica.
Il frequente ricorso all’elencazione, oltre a essere cardine della testura ritmica delle ampie sequenze di versi lunghi, è frutto del desiderio di adesione al mondo, in certi casi spinto fino alla capziosità analitica. Un altro elemento comune ai testi è l’appello diretto al lettore, quale erede dei valori, testimone e campione di riscatto. Tenerissima la supplica di Ferdinando Fiore, precario napoletano, morto il giorno stesso in cui era uscito dal carcere, il quale, come il Manfredi dantesco che prega il pellegrino di dire la verità della propria salvezza alla «bella Costanza», si appella al suo lettore: «Fammi il piacere, dai / diglielo tu a mia moglie e quattro figlioletti / che sono morto lavorando e non per guapperia / che sono morto lavorando onestamente».

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