“TUTTO IL PAESE SCENDA IN PIAZZA” da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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“TUTTO IL PAESE SCENDA IN PIAZZA” da IL MANIFESTO

Lo sciopero rompe l’unanimismo del governo di tutti

L’intervento. Lo sciopero generale indetto da Cgil L e Uil ha il grande merito di rompere la cappa di conformismo che avvolge il Paese. Il conflitto sociale è un fatto normale, e le istituzioni democratiche dovrebbero incanalarlo lungo percorsi non distruttivi, ma che comunque ne riconoscano funzione e ne rendano possibile la soluzione

Giovanni Paglia*  12.12.2021

Lo sciopero generale indetto da Cgil L e Uil ha il grande merito di rompere la cappa di conformismo che avvolge il Paese. Il conflitto sociale è un fatto normale, e le istituzioni democratiche dovrebbero incanalarlo lungo percorsi non distruttivi, ma che comunque ne riconoscano funzione e ne rendano possibile la soluzione.
Con il governo Draghi, al contrario, si predica l’unanimismo e si pretende che scelte di parte vengano accolte e persino vissute come necessità storiche, se non addirittura naturali.

Ai sindacati è concessa la pantomima di tavoli il cui esito è sempre consegnato ad un futuro di là da venire, a condizione che nel presente siano accondiscendenti a qualunque scelta, contribuendo così ad attribuirle una presunta neutralità.
I partiti di governo sono relegati in un angolo a recitare una parodia della politica, dividendosi sulle briciole e su questioni di nessuna rilevanza per l’establishment, ma sempre ben lontani da risorse e scelte rilevanti.

I grandi media sono come ufficiali di complemento, e collocati a difesa di una narrazione che ci vuole locomotiva del mondo, grazie alla guida del Timoniere di Palazzo Chigi.
Peccato che per il vissuto quotidiano di milioni di persone le cose siano ben diverse.
L’inflazione al 3,8% e il decollo delle bollette energetiche all’inizio dell’inverno rappresentano una promessa di impoverimento per tutti i lavoratori dipendenti e subordinati, già provati da redditi ai limiti di una dignitosa sopravvivenza. I dati sui nuovi contratti post-pandemia ci dicono inequivocabilmente che il lavoro buono, fatto di prospettive di lungo periodo e diritti, è cancellato a favore di lavoretti a termine, legati alla contingenza e utili solo per sfangare la giornata.

Non a caso infortuni e morti sul lavoro esplodono, senza che si faccia nulla oltre la promessa di fare qualcosa.
La povertà assoluta è raddoppiata dal 2010, arrivando a colpire 2 milioni di famiglie, un vero esercito di invisibili per cui il reddito di cittadinanza è una risposta parziale, che peraltro viene indebolita dal governo e quotidianamente stigmatizzata, a significare che non esistono pieni diritti costituzionali per i non abbienti.
In questo contesto, chi lavora assiste ogni giorno allo spettacolo indegno delle delocalizzazioni e della desertificazione di interi territori produttivi, con la maggioranza parlamentare impegnata nel gioco perenne del cerino.

Per molti operai e impiegati guardare un Tg significa spesso chiedersi a chi toccherà la prossima volta. Eppure dobbiamo sentirci raccontare che la manovra di Bilancio è positiva perché taglia le tasse a persone che non ne avrebbero alcun bisogno, dimenticando completamente che la società reale è impoverita, impaurita, privata di quelli che riteneva diritti acquisiti e accumula rabbia disinnescata solo dall’impotenza.
Ora lo sciopero dà a tutti noi l’occasione di denudare il Re.

È uno sciopero politico, perché rimette al centro la questione fondamentale della redistribuzione di potere e ricchezza, che negli ultimi 30 anni hanno subito un impressionante processo di concentrazione verso l’alto.
È uno sciopero politico, perché costringe tutti a misurarsi col fatto che non esistono scelte neutrali, ma sempre e solo di parte, tanto che persino la crescita non serve a nulla, se il suo solo risultato è consolidare vincenti e perdenti, ciascuno nel proprio ruolo.
È uno sciopero a cui la sinistra politica ha il dovere di dare una risposta che non si misura in 100 o 200 milioni, e nemmeno in 1 o 5 miliardi, ma in termini di prospettiva immediata e di medio periodo.

Appoggiare il governo Draghi è stato un errore clamoroso, di cui ogni giorno di più si misura la portata.
Si può lasciare che consumi anche il futuro, continuando a bere la dose quotidiana dell’amaro calice, o investire su una nuova alleanza, che rimetta al centro la questione sociale e faccia una chiara e netta scelta di campo.
Redistribuzione, diritti, beni comuni, giustizia sociale e ambientale: per ognuna di queste parole d’ordine esiste una traduzione concreta, che non ha nulla a che fare con l’Agenda Draghi.
L’anestetico del semestre bianco è ormai terminato e il tempo delle scelte è ora.

*Responsabile economia SI

Sciopero generale Cgil e Uil: «Tutto il paese scenda in piazza»

La protesta. Da Bari, durante una manifestazione di Cgil e Uil in preparazione dello sciopero generale di giovedì 16 dicembre contro la «legge di bilancio inadeguata» del governo Draghi, il segretario della Cgil Maurizio Landini ha lanciato l’appello: «Chiediamo a tutto il paese di scendere in piazza il 16 dicembre per cambiare: è il momento che il mondo del lavoro venga ascoltato per i problemi che ha e per lo sforzo che ha fatto durante la pandemia». Dal palco di Lamezia Terme (Catanzaro) il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri ha attaccato duramente il sistema dominante dei media. «Lo squadrismo non è solo quello dell’assalto alla Cgil – ha detto – Lo squadrismo è anche alcuni articoli sui giornali. Ma non ci piegano, non abbiamo paura. Ricordatelo, non ci intimorite”

Roberto Ciccarelli  12.12.2021

Dal palco di Lamezia Terme dove ieri ha manifestato on la Cgil contro la legge di bilancio del governo Draghi il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri ha dato un giudizio politico molto preciso della reazione mediatica e politica provocata dall’annuncio dello sciopero generale di giovedì 16 dicembre: «Lo squadrismo non è solo quello dell’assalto alla Cgil – ha detto – Lo squadrismo è’ anche alcuni articoli sui giornali. Ma non ci piegano, non abbiamo paura. Ricordatelo, non ci intimorite».

TRA UIL E CGIL circola una consapevolezza. E ieri è stata esplicitata. La battaglia contro questa maggioranza, e l’ideologia classista e pauperista che esprimono i suoi sostenitori a reti unificate sarà lunga, la lotta contro legge di bilancio è il primo passo di un percorso più lungo. «Sarà impegnativa – ha aggiunto Bombardieri – Vedrete di tutto, vedrete nei prossimi giorni che cosa si scatenerà sui grandi giornali: Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa. Ci diranno che saremo degli irresponsabili, già ce lo dicono. Ci diranno che siamo dei folli, ma noi – ha concluso – abbiamo dalla nostra parte la sicurezza di essere dalla parte dei più deboli e insieme proveremo a cambiare questo Paese. Ci riusciremo il 16 e lo faremo dopo».

FOLLI perché dalla parte dei deboli. Slogan vago, tradisce una vena populista e risente delle debolezze accumulate in tanti anni, ma visto il penoso scenario in cui ci troviamo rovescia l’imbarazzante coro a sostegno del Draghistan: non disturbate il manovratore, la pace sociale è normalizzazione di una democrazia sospesa, quella per cui tifano i partiti della maggioranza Frankenstein.

«FORZE di maggioranza che ragionano in questo modo non ce le meritiamo – ha detto il segretario della Cgil Maurizio Landini ieri a Bari per un’altra manifestazione in preparazione dello sciopero generale – Se dentro il Governo non si capisce che ci sono persone che pur lavorando sono povere e non riescono ad arrivare alla fine del mese e che aiutare chi sta peggio è l’unica strada per riunire questo Paese, c’è qualcosa di profondo che va cambiato. Non possiamo stare zitti, non abbiamo paura, non abbiamo nulla da perdere. Chiediamo a tutto il paese di scendere in piazza. È il momento che il mondo del lavoro venga ascoltato per i problemi che ha e per lo sforzo che ha fatto durante la pandemia».

ALLA BASE di questi discorsi c’è l’idea di ricongiungere la crescita dei salari più bassi d’Europa con le tutele sociali più sbrindellate e inique. Un nesso, già critico, sconvolto da trent’anni di neoliberalismo. Quello che ha fatto saltare il banco è la modesta legge di bilancio di Draghi che ha lasciato ai suoi partiti la responsabilità di presentare una riforma fiscale regressiva che attribuirà a un bidello qualche decina di euro e a un dirigente nel privato diverse centinaia. Dopo due anni di pandemia e impoverimento l’idea di aumentare le diseguaglianze nella classe media, senza contare quelle fuori, è sembrata sfacciata. Per i sindacati della scuola che hanno scioperato venerdì non si può pensare di dare miliardi alle imprese che costruiscono asili senza pensare a come pagare chi li terrà aperti e ci lavorerà. Questa è la legge economica che il Draghistan difende in maniera isterica. E non accetta questo momentaneo, vedremo se duraturo, ritorno all’autonomia sindacale. «Non rispondiamo ai partiti, ma ai lavoratori – ha detto Landini – Stiamo dicendo al governo: ascolta questo malessere e insieme a noi trova le risposte. Noi non vogliamo dividere un bel niente, il mondo è già troppo diviso». Tutto questo mentre ieri a Salvini ha rimesso il disco: «La Cgil blocca il paese».

«SULLE PENSIONI – ha aggiunto Landini – non c’è bisogno di qualche aggiustamento, ma di cambiare radicalmente la riforma Fornero». Quella, ha ricordato l’Ocse, che porterà a lavorare chi è attivo dal 1996 fino a 71 anni senza una pensione dignitosa. «Se pensano di fare con le pensioni quello che hanno fatto con il fisco, cioè prendere loro le decisioni e chiamarci solo per informarci, è meglio che non ci chiamino». Sarebbe allora logico rivendicare anche l’abolizione della fucina di precarietà di massa creata dal Jobs Act di Renzi e del Pd. L’intenzione balena nelle parole di Landini. «Finché le persone saranno precarie e povere, pur lavorando, non avranno una pensione degna di questo nome e aumenterà la divisione sociale».

IL FRONTE «unitario, ma non unico», è rotto. Se lo sciopero del 16 è stato confermato, nonostante il garante, quello dalla Cisl di Luigi Sbarra si terrà sabato 18 con uno slogan polemico: «responsabilità». «Mi auguro sia possibile recuperare l’azione unitaria» ha commentato Landini – Se stanno in piazza non sono contenti. Il tema è unire il mondo del lavoro e soprattutto essere coerenti».

La salute in comune

Amministratori locali e movimenti si incontrano a Roma per parlare di salute e territori. La regionalizzazione ha creato 21 centralismi, ma la pandemia ha insegnato che i servizi di prossimità sono i “determinanti” della salute.

Andrea Capocci  12.12.2021

La regionalizzazione del servizio sanitario nazionale è stata sostenuta dalla retorica della «prossimità»: spostare le competenze dal ministero alle regioni avrebbe dovuto garantire la presa in carico dei bisogni specifici dei territori. Nella realtà, il processo ha creato 21 centralismi che hanno ereditato i difetti del sistema statale e di quello federale, e che il virus ha sconfitto sul campo della sanità territoriale.

Proprio il ruolo degli enti locali nella sanità, e in particolare nella realtà romana, è stato il titolo di un partecipato incontro tra movimenti per il diritto alla salute e assessori e consiglieri di Roma e dei municipi organizzato dal Forum per il diritto alla salute e dal movimento di «Medicina democratica» nella Sala della Protomoteca al Campidoglio. I comuni, almeno sulla carta, non hanno competenze dirette sul servizio sanitario. Non per questo gli amministratori locali possono girarsi dall’altra parte. Sono tante le ricerche che dimostrano che lo stato di salute si costruisce fuori dagli ospedali, nello stile di vita e nell’istruzione. «Sono i cosiddetti “determinanti” della salute» spiega Elisabetta Papini del Forum per il diritto alla salute. «I comuni, dai trasporti all’ambiente, possono fare molto per la sanità». Ma il tema della salute è stato sottratto ai comuni, che invece nella riforma che diede vita al Ssn nel 1978 aveva un ruolo importante. «La partecipazione popolare alla sanità era uno dei pilastri della riforma del 1978. Le comunità locali dovevano partecipare a identificare i fattori di rischio. Poi c’è stato un vero e proprio esproprio» racconta Ferdinando Terranova, ex-docente universitario di Tecnologia per l’Igiene edilizia e ambientale alla Sapienza. Nel 1978 Terranova collaborò con i gruppi parlamentari del Pci alla stesura della legge di riforma, dunque sa di cosa parla. «I comuni dovevano rappresentare le comunità locali, intervenire nella definizione dei loro bisogni sanitari e aiutare a modellare il servizio per rispondere ai bisogni. La “controriforma Garavaglia” del 1993 assegnò alle regioni la gestione politica e alle Asl la gestione ammnistrativa della sanità. Nelle vecchie Usl c’era un comitato di gestione, che veniva nominato dai comuni. Nelle Asl il sistema è diverso. La gestione è monocratica, tutta in mano al direttore generale». «La democrazia nelle Asl viene azzerata» conferma Edoardo Turi, dirigente in una Asl di Roma e attivista di Medicina Democratica. «La riforma che arriverà con il Pnrr non fa che riconfermare le scelte neoliberiste del passato. Sul territorio si prevede l’arrivo delle case della comunità per bilanciare l’accorpamento delle maxi-Asl, che oggi arrivano a coprire anche un milione di assistiti ciascuna. Sono un’esperienza mutuata dalla sperimentazione della Toscana. Ma come ha verificato un rapporto della commissione parlamentare finora sono state un fallimento».

Durante la pandemia la realtà romana ha mostrato notevole vitalità, nonostante tutto. Non si contano le reti di quartiere che hanno garantito assistenza a chi nei vari lockdown è rimasto solo. Volontariato a parte, a Roma i cittadini si sono attivati anche per reclamare diritti al di là dell’emergenza. Chiedendo, per esempio, di restituire al territorio le strutture sanitarie tagliate negli anni dell’austerity. «C’è la pandemia, ma ci permettiamo il lusso di tenere chiusa una struttura come l’ospedale Forlanini, nato e pensato proprio per la cura delle malattie respiratorie» ironizza per esempio Anna Ventrella, del coordinamento di associazioni che ne chiede la riapertura. L’interlocutore principale è la regione. I municipi potrebbero essere alleati dei movimenti nella sfida del decentramento ma spesso non raccolgono i bisogni dei cittadini. «Il municipio ha un ruolo nella programmazione sociosanitaria» spiega Barbara, attivista del comitato che chiede di riaprire Villa Tiburtina, ex-sede di una Asl in un quadrante di Roma dove aprono solo nuove cliniche private. «Ma nel nostro caso non si è dimostrato disponibile a rappresentare la nostra istanza presso la Regione». Strano, o forse no, visto che si tratta in entrambi i casi di enti a guida Pd. In altri casi, invece la cinghia di trasmissione funziona. Proprio durante l’emergenza Amedeo Ciaccheri, il minisindaco dell’ottavo municipio sostenuto da partiti, ma soprattutto associazioni e centri sociali del quartiere della Garbatella, ha costituito la “Consulta socio-sanitaria”, organismo a cui partecipano comitati, esperti e cittadini per individuare i bisogni sanitari del territorio. Nel terzo municipio ci avevano già pensato nel 2019. Della giunta municipale faceva parte Claudia Pratelli oggi responsabile della scuola in quella del sindaco Gualtieri. All’assemblea partecipa anche lei, perché «la battaglia per il diritto alla salute si combatte da varie postazioni», spiega. «Ricchezza e salute di una comunità dipendono soprattutto dall’istruzione delle persone e i primi mille giorni di vita sono i più importanti nel determinare lo sviluppo dell’individuo. Per quello sarà fondamentale garantire a tutti l’iscrizione all’asilo nido». Nell’assemblea si mormora «Magari!». Ma nel Pnrr i soldi ci sono, dunque questo è una promessa che andrà mantenuta.

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