TRICOLORI CONTRO LA SECESSIONE. IL SENATO DICE SÌ ALL’AUTONOMIA da IL MANIFESTO
Tricolori contro la secessione. Il Senato dice sì all’autonomia
CONTRORIFORME. I dem con le bandiere cantano Mameli, Fdi irritata. La leghista Bizzotto col vessillo della Serenissima. Il voto: 110 sì e 64 no. Opposizioni unite e pronte al referendum. Schlein e Conte: la battaglia continua. Bersani: «Così avremo uno stato Arlecchino, era più onesto Bossi che voleva separarsi»
Andrea Carugati 24/01/2024
I senatori del Pd espongono cartelli con i tricolori e cantano l’inno di Mameli durante il voto finale a palazzo Madama sull’autonomia differenziata: 110 sì, 64 no, 3 astenuti. Il disegno di legge Calderoli ora va alla Camera con la speranza leghista che sia legge prima delle europee di giugno.
DAI BANCHI DI FDI si mettono anche loro a cantare l’inno, come per coprire i dem e dire che non hanno svenduto l’unità nazionale sull’altare del patto di maggioranza con la Lega, che prevede anche il premierato. Dai banchi delle opposizioni parte il grido «Viva l’Italia antifascista».
In questo derby sull’orgoglio nazionale, la senatrice leghista Mara Bizzotto, di Bassano del Grappa, fa un gesto più che rivelatore: mentre il suo capogruppo Massimiliano Romeo aveva cercato di rassicurare sul fatto che si tratta di un «federalismo ragionevole in un quadro di unità nazionale», lei se ne frega e espone la bandiera della Serenissima. Per capirci, quella esposta sul campanile di San Marco nel 1997 da alcuni secessionisti esagitati che si presentarono a Venezia con un finto carrarmato. Gesto rivelatore delle profonde pulsioni separatiste che, da oltre trent’anni, stanno dietro al disegno leghista.
ROMEO, NEL SUO INTERVENTO, cerca un po’ di nasconderle, ma neanche tanto. Cita l’ideologo Gianfranco Miglio, che diceva che la crisi dello stato nazionale non è provocata dal federalismo, semmai il contrario. Dice che il meridione è stanco di vivere di «assistenzialismo» e che questa sarà «un’opportunità per tutti territori che vorranno prendersi più responsabilità». Infine rivendica l’accordo con Fdi, quel patto di maggioranza (definito «Barattellum» dalle opposizioni) che prevede anche il premierato: «Ne siamo fieri». Andrea De Priamo di Fdi, guardando i tricolori sui banchi dem, se la cava con una battuta: «Dalla bandiera rossa è già un passo avanti…».
E POI VIA A SPIEGARE come i meloniani abbiano «migliorato» il testo di Calderoli nel segno della «coesione nazionale», garantendo risorse (che non ci sono) anche alle regioni che non faranno domanda per avere l’autonomia. «Le opposizioni tentano di spaventare i cittadini del sud con la loro propaganda, ma qui non si divide nulla», tuona il meloniano, prima di passare a un accorato ripasso sul «sentimento nazionale» che si è «forgiato nelle trincee della prima guerra mondiale». Mario Occhiuto di Forza Italia (partito che non è mai entrato nella partita) discetta sui «grandi vantaggi» che arriveranno per la sua Calabria, «adesso ogni regione potrà esprimere le sue potenzialità come le città nel Rinascimento».
E VABBÈ. LE OPPOSIZIONI (unite come sul salario minimo, ed è già una notizia) faranno il possibile per rallentare lo «spacca-Italia» a Montecitorio, ma sono già pronte al referendum abrogativo. «Non ci fermiamo qui, il referendum è un dovere politico per permettere ai cittadini di bocciare questa scellerata riforma», dice in aula Peppe de Cristofaro di sinistra-verdi. «Questa secessione dei ricchi aumenterà le diseguaglianze, sarà devastante per il sud e per tutti gli italiani che, anche al nord, vivono una condizione di sofferenza sociale».
Lui già nel 2001 fu contrario alla riforma del titolo V voluta dal centrosinistra. Ma ora segnala in tutte le opposizioni «una positiva consapevolezza sulla necessità di un cambio di rotta». Posizione vicina a quella del capogruppo Pd Francesco Boccia: «Siamo tornati ai tempi della propaganda leghista più becera. Il presidente Mattarella dice che l’autonomia rafforza l’unità nazionale se attua il principio di sussidiarietà. Ma con questa legge si applica un solo comma del titolo V e quel principio non si attua: non c’è la garanzia di diritti universali per tutti, come la Costituzione afferma. Meloni svende alla Lega l’unità del Paese».
IN AULA IL DEM ANDREA GIORGIS spiega perché i livelli essenziali delle prestazioni (i famosi Lep) sono destinati a restare sulla carta. «Per attuarli in tutto il Paese occorrono nuove risorse e il governo non ha alcuna intenzione di reperirle». «La cosa peggiore è che non hanno nemmeno fatto finta di mettere un euro per contrastare le disuguaglianze», gli fa eco Elly Schlein. «Ci batteremo con ogni mezzo».
«Meloni spacca il Paese e svende il Sud a Salvini: lasciano in un vicolo cieco i territori più svantaggiati del Paese. Noi non ci rassegniamo: la battaglia continua», arringa Giuseppe Conte. No anche da Iv e Azione, ma l’ex forzista Mariastella Gelmini si smarca e vota a favore. Fuori dai palazzi, Maurizio Landini è pronto alla battaglia: «Questa legge porterà più divari e diseguaglianze, meno diritti per lavoratori e pensionati. Ci opporremo con tutti gli strumenti che la democrazia mette a disposizione». Bersani è laconico: «Così avremo uno stato Arlecchino, era più onesto Bossi che chiedeva la secessione». La campagna referendaria è già iniziata.
La destra che divide per unirsi
STATE SERENISSIMI. La coincidenza del trentennale della «discesa in campo» di Berlusconi con il primo voto favorevole all’autonomia differenziata incornicia la destra italiana. Pulsioni secessioniste ed egoistico-nordiste del genere padroni in casa […]
Andrea Fabozzi 24/01/2024
La coincidenza del trentennale della «discesa in campo» di Berlusconi con il primo voto favorevole all’autonomia differenziata incornicia la destra italiana. Pulsioni secessioniste ed egoistico-nordiste del genere padroni in casa nostra c’erano anche allora, trent’anni fa. E anche allora la Lega (Nord) di Bossi non legava bene con i patrioti post missini di Fini (tra i quali una giovane Meloni, ammiratrice dichiarata del pochissimo federalista Mussolini). Berlusconi inventò una doppia alleanza, diversa anche nei simboli al Nord e al Sud. Trovata ottima per conquistare il potere ma zoppicante per governare, eppure capace in forme più o meno coerenti di durare un ventennio.
Tra la retorica nazionalista e l’indipendentismo padano l’intesa non è mai stata e mai potrà essere strategica, fondata su una razionalità politica o un programma di riforme realizzabili. Ma è stata e continua a essere un’intesa consolidata da convinzioni comuni: l’egoismo dei ricchi, il merito come privilegio dei favoriti, la solidarietà come carità, le tasse come un balzello, il denaro come misura del valore di tutto, il potere pubblico come un’oppressione. Nell’insieme un’ideologia reazionaria che nel regionalismo differenziato trova adesso una forma nuova. Non si chiama più secessione o devoluzione ma è la stessa cosa.
Questa condivisione ideologica di fondo delle due destre al governo – Forza Italia non ha avuto alcun ruolo in questa partita – giustifica e spiega la confezione pasticciata del disegno di legge approvato ieri. Una norma ordinaria che si vorrebbe sovraordinata, cosa impossibile, alle norme di pari grado necessarie a recepire gli accordi tra stato e regioni. Una riforma che fa dei Livelli essenziali di prestazione un’etichetta: indispensabile, si dice, eppure vuota (di finanziamenti) e quindi strumento non di uguaglianza ma di ulteriori sperequazioni. Un cambio della struttura dello stato affidato, nei suoi passaggi concreti, per intero al governo, con le aule parlamentari ridotte a quinte per la conferenza con l’Africa o i concerti di Morandi. Certamente non sarà, se approvata definitivamente, una riforma che migliorerà l’efficienza dello stato (frammentato), ma è già una riforma che descrive bene l’avventurismo e il darwinismo sociale di una destra che gioca con le istituzioni come con le pistole a capodanno.
Anche qui trionfa l’autoritarismo di chi dalla poltrona di comando firmerà come fossero contratti privati le intese con le regioni privilegiate. Non c’è dunque alcuna contraddizione con l’altra riforma-bandiera di questa maggioranza, il premierato, dove parimenti tutta l’architettura della proposta è incoerente o in alto mare, ma l’ideologia dell’elezione diretta del (della) leader resiste inattaccabile. Se l’elemento di scambio tra la riforma costituzionale cara a Meloni e quella “federale” sbandierata da Salvini è evidente, tanto da essere sincronizzato con la campagna elettorale per le europee, resta il fatto che si tratta di uno scambio facile tra due destre che agiscono la loro competizione su un terreno ideologico comune. Non dovrebbe dimenticarlo chi adesso si illude che le tensioni nella maggioranza possano arrestare questa corsa e questi scambi. La sfida tra Fratelli d’Italia e Lega – dove i primi sono i vincitori annunciati – resta a somma zero per le opposizioni. Vale per le riforme e rischia di valere anche per le elezioni.
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