TRANSIZIONE ECOLOGICA: UN ANNO BUTTATO AL VENTO da IL MANIFESTO
Transizione ecologica, un anno buttato al vento. E nel Pnrr solo briciole al green
Nuove energie, biodiversità, plastica, economia circolare. La crisi climatica può attendere. Bilancio di Greenpeace, Wwf, e Legambiente sulle azioni del super-ministro Cingolani
Il 13 febbraio 2021 Roberto Cingolani diventava ministro della Transizione Ecologica: il ministero dell’Ambiente cambiava nome e avrebbe dovuto accompagnare l’Italia nel processo di decarbonizzazione. Secondo Greenpeace Italia, Legambiente e Wwf Italia, il bilancio di questi 12 mesi è negativo, con poche luci e troppe ombre.
SULLE SCELTE RELATIVE allo sviluppo sostenibile e alle due principali emergenze globali, il contrasto al cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, il governo Draghi non ha messo in campo politiche e linee di intervento coerenti con i principi recentemente inseriti nella Costituzione e con gli obiettivi dell’European Green Deal, né aperto la strada a una trasformazione sistemica. La Transizione Ecologica del ministero (Mite) è, insomma, un «bla bla bla», per citare l’attivista svedese Greta Thunberg nel suo intervento a Milano, quando a ottobre 2021 l’Italia ha ospitato la PreCOP26.
GLI ALTRI BANCHI DI PROVA su cui il governo e Cingolani non hanno risposto sono l’agricoltura sostenibile, l’economia circolare e l’inquinamento da plastica. «La più importante innovazione istituzionale di questa nuova stagione», per citare le tre associazioni, alla fine è una specie di greenwashing lessicale e la rivoluzione verde che era stata annunciata come una delle priorità del nostro Paese un bluff. A partire dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).
BIODIVERSITÀ. Le risorse assegnate dal Pnrr e dalla Legge di Bilancio 2022 alla tutela della biodiversità, infatti, sono marginali e non corrispondono agli impegni assunti dall’Italia in ambito G7 e G20, coerenti con l’obiettivo di arrestare e invertire entro il 2030 la curva del declino della biodiversità. Nel Pnrr alla tutela della biodiversità sono stati assegnati sino al 2026 appena 1,19 miliardi di euro, equivalenti allo 0,5% dell’ammontare complessivo del Pnrr (191,5 mld di euro), mentre nella Manovra 2022 i fondi ordinari iscritti nel bilancio del Mite, per quest’anno ammontano, a 356 milioni di euro, l’1% della manovra, assegnati alla tutela del mare, alle aree protette, al controllo sul commercio delle specie in via di estinzione e per i controlli ambientali. Entro l’anno dovrebbe essere approvata la Strategia Nazionale Biodiversità (SNB) al 2030, che deve puntare a proteggere il 30% del nostro territorio e dei nostri mari, ma questi obiettivi sono difficili da raggiungere senza istituire nuovi Parchi nazionali e nuove Aree marine protette.
CLIMA ED ENERGIA. Sul climate change secondo Greenpeace, Legambiente e Wwf si è perso tempo prezioso enfatizzando le possibili difficoltà della transizione che i vantaggi e senza proporre soluzioni che comunque rappresentassero un’accelerazione delle politiche per la decarbonizzazione. Al contrario, andando spesso in controtendenza – e demonizzando la Transizione Energetica – le proposte del Mite hanno indebolito il rilancio delle fonti rinnovabili, senza rimuovere le barriere (burocratiche e autorizzative) che ne rallentano la diffusione. Al contrario, l’Italia ha dato segnali scoraggianti per gli investitori, ad esempio nuova tassonomia verde europea. Con l’adozione del «Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee» (Pitesai, vedi l’altro servizio in pagina) si continua a esaltare e cercare di allargare il ruolo del gas fossile. Ad oggi, inoltre, sono state fatte solo insignificanti riduzioni dei 21,6 miliardi di euro di Sussidi ambientalmente dannosi stimati dal Mite per il 2020.
L’ITALIA DOVREBBE RIVEDERE il Piano Nazionale Integrato Energia Clima), con un adeguato processo partecipativo e di consultazione, e pubblicare una versione definitiva del Piano Nazionale per l’Adattamento al Cambiamento Climatico, che nonostante il moltiplicarsi degli eventi estremi, dalle alluvioni alle ondate di calore, alla siccità, manca all’appello.
AGRICOLTURA NUOVA. Nel redigere il documento di programmazione della nuova Politica Agricola Comune (Pac) post 2022 il Ministero delle Politiche Agricole, senza che il MiTE rivendicasse appieno il suo ruolo di autorità ambientale nazionale, pur prevedendo misure utili a favore del biologico, ha previsto insufficienti interventi e impegni per il contrasto al cambiamento climatico, per la tutela della biodiversità e per limitare gli impatti legati al sistema degli allevamenti intensivi.
UN PROBLEMA macroscopico che parte dalla riduzione di densità e numero di animali allevati e finisce col parlare delle nostre diete. Da tre anni manca il Piano di Azione Nazionale per la gestione sostenibile dei prodotti fitosanitari (Pan), che deve essere aggiornato con l’obiettivo della riduzione del 50% dell’uso dei pesticidi entro il 2030 in coerenza con le Strategie Ue “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030”.
ECONOMIA CIRCOLARE. Anche per quanto riguarda l’economia circolare, che ha bisogno di innovazioni tecnologiche, ricerca, sperimentazione nel settore produttivo, il Pnrr assegna solo 600 milioni di euro, pari allo 0,3% di tutte le risorse del Piano. Inoltre, dei 2,10 miliardi di euro assegnati specificamente sino al 2026 dal Pnrr all’economia circolare, 1,5 miliardi sono destinati alla realizzazione di impianti per la gestione di rifiuti urbani. Queste scelte sono state fatte in assenza di un disegno strategico coordinato: non esiste ancora una Strategia nazionale per l’economia circolare, richiesta dalla Commissione Europea entro giugno.
PLASTICA. Sempre a proposito di sostenibilità ambientale, il governo è timida sulla dispersione nell’ambiente della plastica: la decorrenza della plastic tax, pur introdotta con la legge di bilancio 2020, è stata posticipata di un altro anno. E si continua a produrre (l’Italia è leader europeo nella produzione della plastica monouso) e consumare troppi imballaggi.
La moratoria fossile è finita, trivellazioni a tutto gas
Il Piano energetico del Mite (Pitesai) gela la protesta nazionale per le fonti rinnovabili
In Italia non si potranno più cercare gas e petrolio in Valle d’Aosta e nemmeno tra le cime del Trentino e dell’Alto Adige. Stop alle trivelle anche in Liguria, se mai qualcuno avesse pensato di perforare un pozzo in quella lingua di terra stretta tra gli Appennini e il mare. È per questo che il Pitesai (il Piano della transizione energetica sostenibile delle aree idonee), il piano regolatore dell’estrazione di idrocarburi pubblicato ieri dal ministero della Transizione Ecologica, è una «finzione», come racconta al manifesto Alessandro Giannì, direttore scientifico delle Campagne di Greenpeace Italia. «Sarebbe inutile progettare uno stabilimento balneare sulle Dolomiti, non trovi?, qui funziona allo stesso modo».
PUR A FRONTE DI UNA RIDUZIONE importante delle aree definite idonee, insomma, le uniche cancellate dalla mappa sono quelle in cui non c’è gas. «Se l’obiettivo è davvero decarbonizzare l’economia entro il 2050, per farlo devi partire da un punto A e muoversi verso un punto B, che non prevede l’estrazione e il consumo di gas metano. Oggi, l’Italia parte dal punto A per tornare al punto A. È finzione, non Transizione Ecologica» conclude Giannì. Il Pitesai rappresenta una fine alle moratoria sulle nuove concessioni: una situazione rischiosa.
NEL GIORNO SCELTO DA 44 SIGLE tra associazioni, movimenti e comitati per manifestare contro il gas in 20 città simbolo dal Friuli alla Sicilia, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha detto che «possiamo raddoppiare la produzione nazionale di gas in 12-15 mesi e destinare una quota all’industria, con contratti pluriennali a prezzi ragionevoli». A fare da eco a queste affermazioni, fra i tanti, anche il governatore emiliano Stefano Bonaccini. E il sindaco di Ravenna, anche lui Pd, Michele De Pascale, fresco di conferma per il secondo mandato, gongola: «Il Pitesai – ha detto – è un provvedimento che è stato fatto per diminuire la produzione di gas, non per aumentarla.
Cingolani ha fatto miracoli, ma l’impostazione di base rimane, ed è antistorica». Dal cui porto della città romagnola passa più della metà del metano che si estrae in Italia, e il sindaco chiede di più: di consentire un significativo aumento della produzione nazionale del gas. È surreale: in Italia sono 1.622 i pozzi attivi al 30 giugno 2021, di cui 673 in produzione (514 a gas e 159 ad olio, 437 ubicati in terra e 236 in mare). Complessivamente nel 2021 l’Italia ha prodotto circa 3,2 miliardi di metri cubi di gas in un Paese che ne ha usati poco più di 72. La ripresa delle estrazioni potrebbe portare a un raddoppio della produzione italiana, arrivando così a un 10% circa del fabbisogno nazionale. «Non sarà possibile prescindere da un mercato internazionale, estrarre più gas finirà solo per garantire maggiori ricavi alle imprese fossili» sottolinea Giannì. Che senso parlare, poi, a fronte di una produzione che al massimo sarà pari al 10 per cento del fabbisogno, di indipendenza energetica? L’Italia si vincolerà a una Finzione ecologica senza Transizione reale» conclude.
È D’ACCORDO CON LUI anche Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente: «Il Piano è poco ambizioso, rappresenta un insieme di linea guida. Noi però ci aspettavamo una road map di uscita dal gas metano, con una deadline progressiva e definitiva alle estrazioni» spiega al manifesto. «Il Piano esprime l’idea che ha il ministero della transizione: lasciando invariate le zone dove si già estrae gas, in pratica indirettamente apre al raddoppio della produzione nazionale. Una scelta illogica, una sorta di fumo negli occhi, mercato internazionale. Andando al massimo al 10% del fabbisogno e importando il 90% saremo sempre dipendenti dall’estero».
IL COMPITINO REDATTO dal ministro e passato al vaglio della Conferenza unificata Stato-Regioni, «invece si limita a parlare di aree. Se è vero che prima si poteva far ricerca sul 100% del territorio e che oggi le superfici sono ridotte del 50%, la realtà è che il territorio che è stato escluso è quello dove non c’è mai stato interesse e quindi erano inutile tenerle aperte, “idonee”. A mare va un pochino meglio, perché la riduzione è dell’89%. Ma le “aree” salvate sono quelle dove si concentra la produzione. Sono state eliminate alcune zone come il Nord Ovest della Sardegna, il Golfo di Taranto o il Canale di Sicilia, ma nell’Adriatico potranno partire processi anche per nuove attività estrattive. E poi è rimasta idonea una zona dell’Alto Adriatico che in precedenza era sempre stata chiusa, quella del Golfo di Venezia». Il divieto totale in quell’area l’aveva rimosso lo Sblocca Italia di Matteo Renzi. Dopo otto anni, l’Italia non ha fatto passi in avanti.
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