TENTAZIONE TRUMPNOMICS: COME AGGIUSTARSI I CONTI PER NON PERDERE L’EGEMONIA da IL MANIFESTO
Le condizioni economiche per l’Ucraina, è arrivato il conto
conflitto a est La verità della trattativa è che gli Stati uniti e l’Europa insieme spolperanno quel paese nei decenni a venire pur di recuperare le loro spese militari
Emiliano Brancaccio 27/02/2025
All’orrido affarista che alberga nella mente di Donald Trump va riconosciuto un involontario chiarimento: sta sgombrando il campo dalle banalizzazioni geopolitiche che hanno dominato il dibattito sulla guerra. E sta chiarendo che la pace si decide sugli interessi capitalistici in ballo e non solo tracciando la linea di confine della nuova Ucraina russificata.
L’avevamo detto in tempi non sospetti: il principale tavolo delle trattative sarà quello che fisserà le condizioni economiche per la pace. A quanto pare ci siamo arrivati. E purtroppo, come previsto, non è il tavolo che speravamo di vedere. Il caso dell’accaparramento delle terre rare dell’Ucraina è indicativo. Come ieri il manifesto riportava, Zelensky si è sgolato fino all’ultimo per ribadire che non avrebbe firmato nessuna cambiale agli alleati per ottenere le armi. Vero o falso che sia, ormai è vox clamantis in deserto.
Il grottesco siparietto alla Casa Bianca fra Macron e Trump lo dimostra. L’americano sostiene che le terre rare gli spettano perché l’aiuto degli Stati Uniti all’Ucraina, diversamente da quello europeo, non era coperto da garanzie. Il francese lo interrompe affermando che l’Ue vuole rivalersi non sull’Ucraina ma solo sui fondi russi congelati nei conti correnti europei. Ipotesi pretenziosa, un po’ come se alla Francia vincitrice della prima guerra mondiale avessero chiesto di pagare i debiti della Germania sconfitta.
LA VERITÀ della trattativa è che insieme spolperanno l’Ucraina nei decenni a venire pur di recuperare le spese militari. Ad ogni modo, l’usurpazione dell’Ucraina sconfitta è questione drammaticamente secondaria. Il portavoce di Putin, Dimitrij Peskov, l’ha ripetuto ancora una volta: per normalizzare i rapporti tra Washington e Mosca c’è ancora molto lavoro da fare, soprattutto sul versante degli accordi di cooperazione commerciale e finanziaria.
L’obiettivo del Cremlino è quello di sempre: farla finita con il protezionismo ipocrita delle cosiddette “sanzioni” e aprire nuovamente i mercati americani e occidentali agli affari con la Russia.
UNA PROPOSTA, come è noto, che Mosca porta avanti in totale sintonia con Pechino. Non è un caso che da settimane il governo cinese insista per interpretare lo spiraglio di pace in Ucraina come occasione per l’apertura di una trattativa economica multilaterale. La posta sul piatto: riaprire l’America e l’Occidente al libero scambio di merci e di capitali coi “nemici” orientali.
Trump è terrorizzato da una simile prospettiva. La sua amministrazione sarebbe disposta anche a mandare l’Ucraina, i paesi baltici e l’intero confine europeo della Nato all’inferno. L’essenziale è che il muro protezionista americano resti in piedi. È questa, infatti, l’unica condizione per tenere a bada un altrimenti ingestibile debito statunitense verso l’estero, sia pubblico che privato.
ECCO PERCHÉ la presidenza Usa sta cercando di tenere i cinesi il più possibile alla larga dagli accordi di pace. La speranza americana è convincere Putin a intavolare una trattativa bilaterale fondata sull’apertura ai soli capitali della Russia. È il tentativo di riesumare il vecchio divide et impera nixoniano per separare i destini russi da quelli del gigante cinese. Il problema è che l’intreccio economico tra Russia e Cina è ormai difficilmente districabile.
Negli ultimi anni l’export cinese verso l’economia russa è più che raddoppiato, passando dai 50 miliardi di dollari del 2018 agli oltre 100 attuali. «Cina e Russia non possono essere separate»: l’avvertimento di Xi al mondo, di pochi giorni fa, è fondato su basi economiche piuttosto solide.
Se dunque la Russia resterà saldamente legata alla Cina, alla Casa Bianca toccherà cercare altre vie. Una di queste è che gli Stati Uniti decidano di scaricare l’arma protezionista interamente sulle spalle dei vecchi alleati Ue.
TRUMP POTREBBE cioé minacciarci: «Cari europei, o pagate voi i nostri debiti oppure da ora in poi faremo affari solo coi nemici». È il “friend shoring” di Biden che sotto Trump si rovescia e diventa “unfriend shoring”. L’ennesimo, stupefacente paradosso di una precarissima pace capitalista.
Tentazione Trumpnomics: autoridursi il debito con l’estero
Economia e finanza Gli Accordi di Mar a Lago di cui parla Wall Street: pagare sì, ma in un secolo. È sisma finanziario
Luigi Pandolfi 27/02/2025
Da giorni, nei salotti finanziari americani, gira con insistenza una voce: Trump vorrebbe ristrutturare una parte del debito Usa, costringendo alcuni creditori esteri a scambiare i titoli in loro possesso con obbligazioni a «lunghissimo termine». L’agenzia Bloomberg cita un incontro organizzato dalla società di consulenza Bianco Research con i propri clienti sul punto.
Non sarebbe una «normale» – si fa per dire, visto che le ristrutturazioni sono pur sempre una forma di insolvenza – operazione di swap, come altre ne abbiamo viste in passato, dalla Grecia all’Argentina, ma quasi una cancellazione unilaterale dei propri debiti. Non ti nego i soldi, ma ti pago tra cent’anni. Trump come Edoardo III d’Inghilterra, insomma, che nel 1345 annullò il debito che aveva contratto con i banchieri Bardi e Peruzzi di Firenze per finanziare le sue guerre contro la Francia, provocando il primo grande crack finanziario della storia.
Ipotesi fantastiche? Mica tanto, se l’ipotesi viene messa in relazione con l’ossessione trumpiana di riequilibrare i conti con l’estero e di rilanciare, anzitutto a danno dell’Europa e della Cina, l’industria e le esportazioni del proprio paese. Dazi, bilancia commerciale, debito pubblico e dollaro: è su questo asse che si snoda la politica neo-imperiale del «Make America Great Again».
Ma andiamo con ordine. Fino a tutti gli anni Sessanta la bilancia commerciale degli Stati Uniti è stata in attivo; poi, a partire dai Settanta, il trend si è invertito. E dagli anni Novanta in poi lo squilibrio col resto del mondo è diventato addirittura strutturale.
Attualmente gli Usa hanno un deficit con la Cina pari a 273 miliardi di dollari, di 236 miliardi con l’Unione europea (44 miliardi con l’Italia), di 172 miliardi con il Messico e di 63 con il Canada. Significa che negli ultimi decenni hanno svolto la funzione di «compratori di ultima istanza» per le merci provenienti dall’Europa, dall’Asia e dai paesi vicini. Grazie alla supremazia del biglietto verde. Merci comprate in dollari, che ritornano negli States sotto forma di investimenti in asset venduti a Wall Street e di sottoscrizione di titoli del Tesoro americano (così gli Stati Uniti spendono e consumano più di quanto producono).
Ma non è finita qui. Una parte di queste risorse torna di nuovo all’estero, e in Europa in particolare, come partecipazione al capitale di imprese nel settore manifatturiero, energetico, militare. Una divisione dei ruoli: le leve della finanza in mano a Washington, la produzione materiale di beni distribuita tra Cina, Europa, altri paesi asiatici.
Tutto magnifico (più per chi vive di plusvalenze che per la classe operaia), finché l’ascesa, industriale e finanziaria, di nuove potenze, Cina in primis, non ha cominciato a rappresentare una minaccia per l’ordine mondiale costruito su tali fondamenta (pesano le prove di de-dollarizzazione degli scambi).
Il debito, quindi. A gennaio di quest’anno il suo ammontare era pari 36,2 trilioni di dollari (36.220.207 milioni per l’esattezza), tre volte tanto il debito aggregato dei paesi dell’eurozona. Di questi, 9.000 miliardi sono in mano a paesi stranieri, tra i quali spiccano Giappone e Cina: il primo con 1.100 miliardi di dollari, la seconda con oltre 800 miliardi. (ultimamente è cresciuta però l’esposizione dei paesi europei).
Per avere un’idea del ritmo di crescita di questo debito, basta dire invece che dieci anni fa esso era pari a 18,2 trilioni di dollari, la metà di quanto vale oggi. Ecco allora l’idea di Trump di sovvertire il sistema (si parla di «Mar-a-Lago Accord», riecheggiando gli «Accordi di Bretton Woods» del 1944), riducendo l’esposizione con l’estero, aumentando le esportazioni, riducendo l’import, imponendo agli «alleati» di comprare dagli Usa più armi, più gas e petrolio. C’è solo un problema: il dollaro troppo forte, stante il suo status di principale moneta di riserva.
Rinunciare all’egemonia del biglietto verde? I costi sarebbero maggiori dei benefici. Meglio aggiungere alla guerra dei dazi quella dei tassi di cambio, acquistando moneta estera per farne lievitare il prezzo rispetto al dollaro.
Siamo solo all’inizio e non è facile immaginare l’impatto che queste misure potranno avere sulla stabilità finanziaria globale. Ma una cosa è certa: chi ha da perdere molto in questa situazione è l’Europa, costretta a finanziare il risanamento dei conti americani con la perdita di quote di mercato per le proprie produzioni (deindustrializzazione), con alti prezzi delle materie prime energetiche, con l’aumento della spesa per la difesa, persino col deterioramento dei propri crediti.
No Comments