SOVRANISMO DI LOTTA E DI GOVERNO da IL MANIFESTO
Sovranismo di lotta e di governo
NUOVA FINANZA PUBBLICA. La rubrica settimanale a cura di Nuova finanza pubblica
Marco Bertorello, Danilo Corradi 07/07/2024
I risultati elettorali, al di qua e al di là dell’Atlantico, sono espressione di dinamiche complesse e multifattoriali. Valutarli dal punto di vista delle politiche economiche è interessante. L’avanzata della destra è anche espressione di sfiducia e rabbia sociale, frutto della crisi del liberismo e dell’austerity. Le crisi dei debiti privati e pubblici prima e quella del Covid dopo avevano incrinato l’egemonia del pensiero e della pratica neoliberale. Le contraddizioni sistemiche emerse e la crisi ambientale avevano fatto intravedere la necessità di una parziale discontinuità, la necessità di limiti al dominio di un mercato sempre più condizionato dalle scelte di pochi player.
Il successo del sovranismo è paradossale perché si afferma sulle macerie neoliberali, ma ne conferma buona parte dei presupposti economici. Esso è in grado di catalizzare consensi grazie alla retorica nazionalista e razzista, ma al contempo inizia a piacere a settori dell’impresa per il suo essere in continuità con le scelte economiche dirimenti. Come se tale opzione potesse risultare più efficace. Non mette in discussione i grandi assetti finanziari e l’adesione ai principi del libero mercato modulati in sedicesimi, cioè in scala macroregionale, anzi in alcuni casi li radicalizza. A conferma di questa continuità, nella campagna elettorale francese il candidato di estrema destra parla già di «rottura responsabile», quasi un ossimoro. Le tensioni geopolitiche, operanti da tempo, pur alimentando una deglobalizzazione selettiva, non portano alla rottura dello status quo. Fondi d’investimento, colossi high tech, mega-imprese della old economy e del credito continuano a governare il mondo. La destra all’opposizione abbaia, ma non morde al governo. Un recente esempio è il definitivo provvedimento dell’esecutivo Meloni che stabilisce il passaggio della rete telefonica italiana (infrastruttura strategica) al fondo Kkr.
La crisi geopolitica ha già effetti sul piano dell’economia reale. Protezionismo, dazi, volontà di reindustrializzare l’Occidente sono diventati un’opzione, nella strategia di contenimento della Cina, sin dalla presidenza Obama. Progetti che dalla propaganda provano a passare alla realizzazione anche nella più riluttante Europa. Indicativo in Italia è il caso della multinazionale biomedica Bellco, nel distretto emiliano, che ha minacciato centinaia di licenziamenti, prefigurando la delocalizzazione e confermando solo la ricerca in loco, per aver triplicato le perdite nonostante un incremento della produzione pari al 20%. Stiamo parlando di un comparto decisamente all’avanguardia ove però l’innovazione non sembra sufficiente a fronteggiare la concorrenza asiatica. La risposta per evitare i licenziamenti al momento sembrano i dazi. Insomma, anche la destra sovranista, dove governa, vuole fronteggiare gli scricchiolii crescenti con scelte protezioniste. In questo nuovo quadro poi rilancia le privatizzazioni e lo smantellamento del welfare, sostenuta da una certa impresa che continua a spolpare quel che resta dello Stato sociale. D’altronde, una parte crescente dell’impresa sposa il sovranismo proprio perché sulla difensiva, e perché non concepisce alcuna, seppur minima, riforma in senso redistributivo e collettivo dell’economia.
Basti pensare come aborre l’equità fiscale. In basso, dunque, restano il «mercato», le sue leggi, la retorica del merito e della competizione, che sempre più penetrano nei gangli sociali, scardinando connessioni e solidarietà. In alto la protezione dell’impresa, dei suoi profitti e dei suoi interessi. Con il risultato complessivo di consolidare diseguaglianze sociali, stemperare ulteriormente i già blandi provvedimenti in materia di ecologia e scaricare, almeno a parole, sugli ultimi le difficoltà dei penultimi e terzultimi. Una dinamica vincente sul terreno del consenso, che ammalia una parte della borghesia, ma estremamente fragile sul piano strategico.
Tra le trame nascoste del colonialismo
MOSTRE. «La linea insubrica»: un progetto triennale al Kunst di Merano indaga i rapporti tra Europa e Africa mettendo da parte le narrazioni eurocentriche
Mariacarla Molè, MERANO 07/07/2024
Le affinità tra la posizione geografica della città di Merano – collocata lungo la faglia nella superficie terrestre emersa a seguito della collisione tra la placca tettonica europea e quella africana – e la mostra collettiva La Linea Insubrica sono così profonde da far sembrare più che appropriato un progetto che vuole esplorare il rapporto egemonico che l’Europa ha imposto all’Africa, a partire dall’immagine orografica della linea emersa dalla collisione tettonica dei due continenti, la linea insubrica.
La rassegna, curata da Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi (fino al 13 ottobre), inaugura la nuova stagione culturale triennale di Kunst Merano dal titolo The Invention of Europe: a tricontinental narrative (2024-2027) che, nei prossimi tre anni, esplorerà l’idea monolitica di Europa e la sua costruzione narrativa, mettendo in evidenza i debiti che il Vecchio continente intrattiene con Africa, America Latina e Asia. Lo spazio della kunsthaus in questo senso conferma la sua attitudine alla presentazione di pratiche artistiche caratterizzate da un’idea critica della funzione dell’arte, proponendosi di decostruire la visione coloniale europea, esotica e razzista, che nei secoli ha concepito l’intero territorio africano come un unico grande paese.
TRA LE IMMAGINI che rimangono più impresse della mostra: nel video Galb’Echaouf di Abdessamad El Montassir, i paesaggi del Sahara occidentale, secchi come cenere, abitati soltanto da arbusti di euforbie che, secondo una leggenda, avrebbero mutato le loro foglie in spine così da non lasciare più quel luogo, e per questo sono simbolo di resistenza, nonché uniche testimoni degli eventi che hanno profondamente cambiato il territorio del Sahara. Nel video Sight Unseen (2019-2020) di Alessandra Ferrini le immagini virate in verde e rosso, del monumento nazionale al Carabiniere di Torino del 1933 nel cui piedistallo in bassorilievo si celebra la cattura di Omar al Mukhtar, simbolo della resistenza del popolo libico alla colonizzazione italiana, montate insieme a estratti del film biografico su al Mukhtar Il Leone del Deserto (1981) coprodotto in Libia e censurato in Italia perché «lesivo all’onore dell’esercito italiano». Un montaggio che rende manifesta la politica di visibilità e invisibilità che ha modellato la memoria della violenza coloniale in Italia.
Tutti i lavori in mostra sono animati dal desiderio di rendere visibili trame nascoste, spesso oggetto di operazioni di occultamento e di colonizzazione del sapere. È il caso della ricerca condotta da Liliana Angulo Cortes Un Caso de Reparación (2024) che rivela i legami tra la spedizione botanica di José Celestino Mutis in Colombia – nel 1783 – e il commercio di schiavi di cui si trova traccia nella corrispondenza di Salvador Rizo Blanco, disegnatore della spedizione con il mandato di realizzare i disegni botanici delle specie raccolte, realizzati in gran parte da afrodiscendenti rimasti anonimi.
AL TEMA della colonizzazione del sapere si intrecciano, nell’ambito della mostra, quelli dell’estrattivismo e delle dinamiche violente di dipendenza economica che l’Europa ha tessuto nei confronti del continente africano. La polvere di caffè usata come materiale pittorico da Francis Offman nei dipinti astratti Senza titolo (2024) che sembrano tracciare terre emerse verdi, gialle e marroni è un’occasione per suggerire la mappa assai complessa del commercio di uno dei prodotti coloniali per eccellenza, il caffè, che connette ex insediamenti europei in Africa, Asia e America Latina. Il carcadè che Binta Diaw in Multiplicity of modes: developing the undedeveloped (2024) usa per tingere i tessuti pregiati di filato bianco prodotto in Austria e usato in Senegal per gli abiti cerimoniali racconta della campagna fascista di promozione del carcadé
come sostituto del tè al punto che venne definito il «tè degli italiani».
La fibra vegetale di sisal impiegata da Kapwani Kiwanga nella forma di matassa di sottili filamenti usata per la scultura Sisal #13 (2023) racconta di un materiale originario del Messico e importato illegalmente in Tanzania profondamente implicato in una storia di economia estrattiva e la sottomissione politica che ha origine con l’importazione da parte dei coloni tedeschi delle piante di agave da cui la fibra è tratta, di monocolture di agave e del crollo dei prezzi che ha compromesso la stabilità del paese.
IN CIASCUNO DI QUESTI CASI i prodotti non hanno semplicemente attraversato gli oceani e cambiato posizione geografica, ma hanno cambiano nome, forma, scopo, significato, producendo delle trasformazioni profonde nei rapporti di forza tra paesi, dei processi produttivi, dell’ambiente.
Le piante, il caffè, il carcadè e le fibre vegetali, mutati da prodotti in materiali delle opere in mostra, sono un’occasione per parlare di geografie, territori, economie legate a monoculture, migrazioni, nonché un’occasione per costruire narrazioni diversificate che si pongano al di là di quelle egemoniche.
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