SENZA LIBERAZIONE LO STATO È UNA TRAPPOLA da IL MANIFESTO
Senza liberazione lo Stato è una trappola
QUALE SOLUZIONE. Senza l’avvio di un processo reale di decolonizzazione e se l’autodeterminazione non sarà piena, i palestinesi si ritroveranno con uno Stato sulla carta e un’apartheid paradossalmente legittimata dal resto del mondo
Chiara Cruciati 23/05/2024
Ieri, all’annuncio norvegese di riconoscimento dello Stato di Palestina, in molti non hanno potuto fare a meno di notare che a rompere il ghiaccio sia stata Oslo, la città in cui nell’agosto 1993 si conclusero gli accordi politici tra Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) e Stato di Israele.
MENO di un mese dopo, furono pubblicamente sanciti dalla stretta di mano tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin a Camp David. L’Intifada era agli sgoccioli, gli accordi di Oslo ne certificarono la fine. Pochissimi all’epoca ne intuirono la trappola, a prevalere fu la gioia per l’inizio di un percorso che si immaginava irreversibile.
C’è chi lesse in quella stretta di mano una vittoria dell’Intifada, ma dell’Intifada fu la tomba. Perché da Oslo non uscì quello che i palestinesi sognavano – e sognano: non tanto uno Stato, quanto la libertà. Il diritto ad autodeterminarsi.
È in questa chiave che andrebbe letta la decisione di Norvegia, Irlanda e Spagna (a cui dovrebbero seguire Slovenia e Malta) di riconoscere lo Stato di Palestina. Con l’ingresso di Oslo, Dublino e Madrid i paesi che hanno fatto altrettanto sono 143. Due terzi del pianeta, eppure uno Stato di Palestina non esiste: non esiste perché manca un elemento indispensabile, l’autodeterminazione.
Che la libertà di scegliere per sé passi per la fondazione di uno Stato è convinzione predominante nei sistemi liberali ma non risolutiva. Che la forma dello Stato-nazione sia la via d’uscita dal colonialismo lo è ancora di meno, tanto più in una regione che ha assunto quel modello a suon di mandati coloniali, con paesi nati tirando linee dritte dove prima i confini non c’erano. Lo Stato-nazione – forgiato su élite politiche imposte da fuori e identità uniche tagliate con l’accetta – è stato per il Medio Oriente un disastro.
I PALESTINESI dovrebbero poter decidere per sé, superando l’idea – predominante a Washington e Bruxelles – che un’eventuale entità possa nascere solo da un negoziato tra le parti, che la sua legittimità discenderebbe da Israele. Non una liberazione, ma una concessione.
Le leadership israeliane che si sono susseguite nei decenni l’hanno narrata così, tanto da porre costantemente diktat utili a rinviare a un tempo indefinito (Netanyahu una decina di anni fa le chiamò «postille»): negoziamo pure, ma alcuni punti non saranno mai sul tavolo.
Non lo sarà Gerusalemme, considerata capitale unica e indivisibile dalle leggi fondamentali israeliane. Non lo saranno i confini dell’eventuale Stato il cui controllo resterebbe a Israele. Non lo saranno le colonie, impossibile smantellarle. Non lo sarà il diritto al ritorno di sette milioni di rifugiati (il 66% dell’intero popolo palestinese).
Di che Stato si parla? Quale Stato si sta riconoscendo? L’esistenza legittima di uno Stato si riconosce quando un’entità esistente e già sovrana è realtà. Non è questo il caso: i territori del 1967 (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est) sono occupati.
IL RICONOSCIMENTO altrui diventa dunque la mossa politica con cui si spera di fare pressione su Israele, sugli Stati uniti e sul loro diritto di veto che, di nuovo a metà aprile, ha bloccato la mozione del Consiglio di Sicurezza che chiedeva di fare della Palestina un membro a tutti gli effetti. Dalla necessità di superare un simile blocco, nasce la spinta di cancellerie e partiti che, anche in Italia, insistono da mesi su una soluzione a due Stati mentre a Gaza si uccidono cento persone al giorno, in Cisgiordania si confiscano altre terre e dentro Israele i palestinesi restano cittadini di serie B.
Di fronte a quello che la Corte internazionale di giustizia ha definito «genocidio plausibile» e quello che Amnesty e Human Rights Watch hanno chiamato «regime di apartheid» sarebbero più urgenti altre misure: sanzioni internazionali, embargo militare, rottura dei rapporti diplomatici. E l’avvio di un processo reale di decolonizzazione: se l’autodeterminazione non sarà piena, i palestinesi si ritroveranno con uno Stato sulla carta e un’apartheid paradossalmente legittimata dal resto del mondo.
Stato di Palestina: il gesto di Spagna, Irlanda e Norvegia
EUROPA. Pieno riconoscimento entro i confini del 1967. La decisione dei tre Paesi sarà seguita anche da Slovenia e Malta. Mentre Germania, Francia e Italia, favorevoli alla soluzione «due popoli due stati», pur con toni diversi tirano il freno. Dura reazione di Israele che convoca gli ambasciatori e minaccia conseguenze
Andrea Valdambrini 23/05/2024
Tre paesi europei riconoscono lo Stato di Palestina, altri due si preparano a farlo mentre Germania, Francia e Italia, pur con toni diversi, tirano il freno ma comunque si dicono favorevoli alla soluzione «due popoli due stati». Se poi l’Ue è divisa al suo interno (e di conseguenza Bruxelles tace), Israele appare sempre più isolato sul fronte diplomatico e reagisce nervosamente.
COME PREANNUNCIATO alcuni giorni fa, Irlanda e Spagna hanno annunciato il pieno riconoscimento dello Stato di Palestina entro i confini del 1967. A loro si è unita la Norvegia, mentre sia Slovenia che Malta hanno confermato che si preparano al riconoscimento (la prima specifica che avverrà a giugno).
Madrid e Dublino avevano già anticipato alcune settimane fa la loro mossa nel segno di un’azione che, in quanto coordinata tra due capitali Ue, poteva dimostrarsi più forte. In parlamento, il primo ministro Pedro Sánchez ha dichiarato tra gli applausi dei deputati di sinistra che «è giunto il momento di passare dalle parole ai fatti». «La Spagna approverà» formalmente «martedì 28 il riconoscimento dello Stato di Palestina», ha aggiunto il premier socialista, e lo farà «per la pace, la giustizia e per coerenza». Che «il riconoscimento sia la cosa giusta da fare» si è detto convinto anche il premier irlandese Simon Harris in una conferenza stampa a cui erano presente anche il ministro degli esteri Michael Martin, che parlando di «momento storico» ha rimarcato: «I palestinesi meritano il diritto all’autodeterminazione e alla statualità».
PER TUTTI E TRE I PAESI, la volontà è certificare l’esistenza di uno Stato di Palestina entro confini stabiliti prima della guerra dei sei giorni (1967), ovvero al momento dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est da parte di Tel Aviv. «La delimitazione territoriale dovrebbe basarsi sulla linea di demarcazione dell’Accordo di Armistizio del 1949, con Gerusalemme come capitale condivisa», ha precisato il premier norvegese.
Durissima la reazione da parte israeliana, che richiama i propri diplomatici in Spagna, Irlanda, Norvegia e convoca a Tel Aviv i rappresentanti dei tre paesi «per consultazioni». Il ministro degli esteri Israel Katz ha spiegato su X di aver intrapreso «un’iniziativa severa» nei confronti dei tre paesi per aver assegnato «una medaglia d’oro ai terroristi di Hamas». Soprattutto, il premier Netanyahu ha affermato che un eventuale Stato di Palestina «sarebbe terrorista e potrebbe avanti il massacro del 7 ottobre all’infinito».
NEL CONTESTO di un crescente isolamento diplomatico di Israele, a suo supporto rimangano comunque gli Usa. La linea è che «uno Stato palestinese dovrebbe essere raggiunto attraverso negoziati diretti tra le parti, non attraverso un riconoscimento unilaterale», ha fatto sapere un portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale. Il 10 maggio l’Assemblea generale delle Nazioni unite aveva approvato una risoluzione che chiedeva il pieno riconoscimento della Palestina come Stato membro. 143 i voti a favore, ma tra i 9 contrari figurava proprio Washington (oltre, tra gli altri, Ungheria e Repubblica Ceca). Diversi paesi Ue erano tra i 25 astenuti, primi fra tutti Germania e Italia.
Per Berlino la posizione ufficiale, espressa da portavoce del governo, è che il riconoscimento da parte dei tre paesi europei non è la strada giusta per raggiungere lo scopo dei due Stati. La dialettica interna vede da un lato l’opposizione conservatrice della Cdu chiedere un «riconoscimento solo a negoziato di pace ultimato», dall’altro il partito di sinistra Die Linke incalzare per aderire all’iniziativa delle tre capitali. A Roma sia Schlein (Pd) che Conte (M5S) chiedono il riconoscimento: la prima all’Ue, che tace; il secondo al governo Meloni, altrettanto silente. Parla invece il ministro degli esteri Tajani: «I passi che servono soltanto a creare tensione non servono», dice riferendosi all’iniziativa dei tre. Poi spiega: non può esserci «riconoscimento della Palestina senza il riconoscimento di Israele dello Stato palestinese e viceversa».
DIVERSA LA POSIZIONE di Parigi. Pur giudicando prematuri i passi compiuti da Spagna, Irlanda e Norvegia, il ministro degli esteri Séjourné ha dichiarato: «Al momento non ci sono tutte la condizioni affinché questa decisione abbia un effetto reale». Tuttavia «Non è un tabù per la Francia».
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