RIVOLUZIONE FEMMINISTA E REAZIONE MASCHILE da IL MANIFESTO
Rivoluzione femminista e reazione maschile
Scaffale L’Italia tra società e rappresentanza politica in «Chi ha paura delle donne» di Cecilia D’Elia, per Donzelli
Laura Marzi 07/03/2025
Chi ha paura delle donne. Libertà femminile e questione maschile di Cecilia D’Elia (Donzelli, pp. 168, euro 17), è un testo che rifà sinteticamente il punto sul ruolo del femminismo nella rappresentanza politica. L’esigenza nasce dalla condizione italiana contingente: avere una premier che ha scelto addirittura di farsi chiamare «signor presidente del Consiglio». D’Elia chiarisce infatti la differenza tra femminismo e «donnismo», ma non è questo il tema che le sta più a cuore. Questo libro ha, infatti, il merito di non essere stato scritto in risposta a Giorgia Meloni, di non incappare quindi in quell’errore che una parte della sinistra fa da oltre trent’anni, ormai: reagire al centrodestra, riducendo i propri ideali alla mera critica di quelli della fazione opposta.
UNA DELLE LINEE GUIDA del testo è, invece, insistere su come le enormi conquiste simboliche del femminismo abbiano scatenato una reazione maschile che D’elia definisce «revanscismo o smarrimento», situandone le avvisaglie con la salita al potere di Berlusconi. È molto interessante il suo sguardo lucido su quel periodo fatale e oggetto troppo spesso di revisionismo, in cui l’intero scenario politico risultò stravolto: per D’Elia dalla crisi della prima Repubblica «si smarrisce la radicalità della critica femminista alla politica».
La reazione maschile alla rivoluzione femminista è un prisma attraverso il quale affronta diverse questioni fondamentali: lo stupro, per esempio. Citando il sociologo francese Éric Fassin l’autrice sottolinea che l’assenza del consenso per degli uomini che si sentono diminuiti del loro potere assoluto diventa la miccia che accende il desiderio sessuale. È molto interessante, poi, leggere dei diversi passaggi che hanno portato solo nel 1996 a trasformare la violenza sessuale in reato contro la persona, senza che ancora si riesca a fare nella legge «un esplicito riferimento al consenso, che invece sarebbe necessario».
Più in generale «tutti i regimi autoritari partono dalla disciplina del corpo femminile» e quindi troviamo nel testo pagine di riflessione sulla messa in discussione del diritto all’aborto, a partire dalla decisione della Corte Costituzionale statunitense di annullare la sentenza Roe vs. Wade. Leggiamo poi una riflessione sul tema del femminicidio, correlata da dati terrificanti: in Italia «dal 2000 al 2021 la percentuale dei femminicidi sul totale degli omicidi è aumentata dal 20,4 al 40%».
Infine, D’Elia accenna a come l’intero spostamento a destra dell’asse politico a livello internazionale abbia degli aspetti di revanscismo maschilista, di conseguenza attualmente «tante donne sembrano più subire i cocci dei soffitti di cristallo infranti che vedere una nuova strada aperta anche per loro». D’Elia affronta infatti la questione, mai veramente risolta, della ripartizione del lavoro domestico, che toglie alle donne il tempo libero che invece hanno gli uomini. Analizza poi il periodo della pandemia che ha fatto ulteriormente emergere la tragedia della violenza domestica contro le donne, ma ricorda anche come quello del lockdown sia stato un momento in cui abbiamo creduto nella possibilità di un cambiamento. La realtà degli ultimi anni ci ha dimostrato quanto ci fossimo illuse.
L’ORIGINALITÀ DEL TESTO risiede nel punto di vista attraverso cui D’Elia scrive, quello di una femminista che ha «scelto la politica istituzionale volendo essere in connessione con i movimenti, le associazioni, i luoghi delle donne», vale a dire una persona che ha deciso di stare sempre in una posizione scomoda, nella convinzione di poter difendere al meglio da quella soglia la libertà femminile.
Povere e discriminate. Le lavoratrici in Italia oltre la propaganda
Verso l’8 marzo La premier e le sue ministre propongono bonus per le madri, senza intervenire sulle ragioni strutturali della disoccupazione femminile
Luciana Cimino 07/03/2025
Segregate, discriminate, penalizzate. La condizione lavorativa delle donne in Italia è regredita. Nonostante per la prima volta a capo dell’esecutivo ci sia una donna, Giorgia Meloni, e a dispetto dell’esultanza della stessa sui presunti record nell’occupazione. Ma niente è più interpretabile dei dati. E così quando la premier, che ama definirsi «donna, madre e cristiana», parla di risultati bisogna chiedere per chi sono arrivati, chi ne giova e chi, invece, è escluso da questo computo di successi.
«LA CATEGORIA che rimane fuori è quella delle donne», spiega Lara Ghiglione, segretaria nazionale della Cgil. E lo stesso spiegano le ricercatrici del sito di analisi Ingenere. «A guardare bene i dati le cose migliorano per il sistema economico nel suo complesso ma non migliorano in uguale misura per le donne», ha scritto sul portale Barbara Martini, che insegna modelli statistici per l’economia di genere e inclusione all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Ed è la stessa Istat a spiegarlo nella relazione che accompagna i dati: «Dal 2008 al 2024 l’incremento del tasso di occupazione delle donne è di 6,4 punti. Una crescita dovuta soprattutto al segmento delle ultracinquantenni: mentre l’aumento per le over50 raggiunge i 20 punti, per le 25-34enni si ferma a 1,4 punti».
Nel dettaglio il tasso di occupazione tra le donne tra 20 e 49 anni con almeno un figlio con meno di 6 anni, nel 2023 era del 55,3% (la media europea si attesta al 69,3%, secondo Eurostat), mentre per i giovani padri è al 90,7%. Facile dedurre che i posti di lavoro che si sono creati siano stati occupati da uomini. Sono aumentati i contratti a tempo indeterminato ma le donne rimangono inchiodate al part time involontario, e quanto ai salari, nel 2022 le donne laureate hanno guadagnato in media il 16,6% in meno rispetto ai colleghi. Questo comporta che il rischio di povertà per le donne sia superiore di almeno due/tre punti a quello degli uomini (secondo il Gender Equality Index degli ultimi anni).
SONO A RISCHIO povertà le pensionate, che a causa delle carriera discontinua e dei guadagni inferiori, percepiscono un assegno insufficiente così come le neet (che sono il 18,6% in più degli coetanei maschi), cioè le giovani che non studiano e non lavorano e che vengono infilate in questo elenco perché hanno smesso di cercare un’occupazione, soprattutto dopo la nascita del primo figlio. Sono una su cinque le donne che fuoriescono dal mercato del lavoro a seguito della maternità in Italia e questo è dovuto anche al mancato accesso a servizi per l’infanzia. Non è un caso che le città con il record negativo di lavoro femminile si trovino al Sud, dove è più scarsa l’offerta di asili nido statali e comunali. Per questo l’investimento sugli asili nido è considerato cruciale: può invertire la tendenza dell’occupazione. Il Pnrr aveva stanziato dei fondi appositi ma i progetti sono stati rivisti al ribasso nel corso degli ultimi due anni e l’obiettivo previsto del Next Generation Eu appare ora lontanissimo. E anche la parte che riguardava la percentuale di posti di lavoro da assegnare alle donne è naufragata tra le deroghe. «Di fronte a questo quadro allarmante il governo ha risposto con bonus e interventi spot, quando invece sono necessarie misure strutturali, che intervengono sulla precarietà che impedisce di progettare una famiglia», aggiunge Ghiglione.
QUANTO ALLE donne che hanno un’occupazione è sempre l’Istat a dire che «quasi un quarto delle donne che lavora presenta uno o più elementi di vulnerabilità (dipendente a tempo determinato, part time involontario, ecc.), contro il 13,8% gli uomini. Risultano più spesso vulnerabili le lavoratrici giovani (38,7%), residenti nel Sud (31,2%), con bassa istruzione (31,7%) e straniere (36,5%)». Questo perché, secondo la Cgil, non ci sono stati interventi per prevenire la segregazione occupazione che per le donne è duplice: «Esiste – spiega ancora la segretaria nazionale Cgil – una segregazione orizzontale e una verticale: le donne lavorano in settori meno retribuiti e fanno meno carriera dei colleghi maschi a parità di titoli e competenze». Oltre ai bollini sulla parità di genere di cui si vantano le imprese e che si basano su criteri molto deboli, occorrerebbero misure strutturali come il reddito di base, come chiede il sindacato Clap e il congedo di paternità obbligatorio per i padri. E invertire la tendenza, promossa dai governi di destra in tutto il mondo, a considerare la donna sono come elemento riproduttivo della società e non come elemento produttivo.
PARADOSSALE che in Italia questa regressione sia portata avanti da tre donne: la premier, la ministra per il Lavoro Marina Calderone e quella per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità (in ultimo nella dicitura, come ha voluto il governo), Eugenia Roccella. «È in atto un disinvestimento nell’intelligenza delle donne, supportato dal manifesto politico della destra che vuole le vuole far tornare al focolare”, denuncia la Cgil. Il tutto con misure spot che rispondono alle esigenze di una “mamma” ideale e che opprimono le donne che lavorano reali.
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