REFERENDUM: LE RAGIONI DELL’AMMISSIBILITÀ da IL MANIFESTO
Referendum, le ragioni dell’ammissibilità
AUTONOMIA. Qualcuno ha già emanato il verdetto. Il referendum contro l’autonomia differenziata non passerà il vaglio di ammissibilità. Ma la storia dei referendum dovrebbe invitare alla cautela
Gaetano Azzariti 22/07/2024
Qualcuno ha già emanato il verdetto. Il referendum contro l’autonomia differenziata non passerà il vaglio di ammissibilità dalla Consulta. Profeti e demagoghi che non dovrebbero parlare dalla “cattedra” (Max Weber).
Con più umiltà, la storia dei referendum dovrebbe invitare alla cautela, inducendo a prendere seriamente in considerazione gli argomenti complessi e i precedenti per nulla univoci. È solo su questa base che si possono formulare giudizi e previsioni che abbiano un più serio fondamento argomentativo.
Sono due le principali obiezioni che vengono formulate. Entrambe – a mia opinione – inconferenti. La prima è quella meccanicamente ripetuta del collegamento con la finanziaria. Ora è vero che la legge Calderoli è stata inserita tra i «disegni di legge collegati» alla manovra finanziaria e che in alcune sentenze la Corte ha esteso l’inammissibilità del referendum alle previsioni che alla legge di bilancio si rapportavano, ma ha sempre tenuto ad evidenziare come questa connessione dovesse operare «al di là della loro qualificazione formale», che è «di per sé non idonea a determinare effetti preclusivi in relazione alla sottoponibilità a referendum» (così la sent. 2 del 1994).
Consapevole la Consulta che altrimenti basterebbe includere un qualunque disegno di legge tra i «collegati» alla finanziaria per impedire il referendum «ampliando eccessivamente l’orbita del divieto di cui all’art. 75, secondo comma della costituzione» (così in modo chiaro nella sent. 6 del 2015). È sulla base di questo nesso sostanziale con la manovra di bilancio che la Corte in passato ha dichiarato l’inammissibilità di richieste referendarie, ma adesso è proprio questa stessa giurisprudenza che dovrebbe garantire l’ammissibilità del quesito sull’autonomia differenziata, stante che ora il collegamento con la legge finanziaria è puramente formale, mentre è esplicitata la dichiarazione di invarianza finanziaria «nell’applicazione della presente legge» (così all’art. 9).
In questo caso, dunque, per usare le parole della Corte, dovrebbe essere evidente che non sussiste il presupposto necessario per dichiarare l’inammissibilità, ovvero «quello stretto collegamento delle disposizioni legislative oggetto dei quesiti referendari con le leggi di bilancio, tale da escludere l’ammissibilità delle richieste referendarie» (ancora sent. 2 del 1994). La legge Calderoli è una normativa di natura meramente procedurale inidonea di per sé a produrre effetti «nell’ambito di operatività» della legge di bilancio; tantomeno appare una legge essenziale per la realizzazione degli equilibri finanziari e di bilancio (vedi sent. 12 del 1995). Dunque, la richiesta di abrogazione per via referendaria è da ritenere ammissibile.
La seconda obiezione sollevata da alcuni per dubitare della ammissibilità è, a mio parere, ancor meno fondata. Si sostiene che la legge Calderoli sarebbe da classificare tra le leggi «a contenuto costituzionalmente necessario» se non addirittura tra quelle «costituzionalmente vincolate».
Ciò che ha determinato in passato le inammissibilità dei relativi quesiti è stato il timore manifestato dalla Corte che l’abrogazione, e la conseguente eliminazione della normativa vigente, determinasse «la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo costituzione» (sent. 35 del 1997), ovvero anche solo che siano in grado di impedire di dare attuazione ad istituti, organi, procedure, principi stabiliti o previsti dalla Costituzione (vedi in tal senso la sent. n. 16 del 1978).
Anche in questi ultimi casi, però, specifica opportunamente la Consulta, non basta un collegamento formale ad una qualunque disposizione costituzionale, è necessario che da tale abrogazione derivi una concreta lesione di quel minimo di tutela precedentemente concessa (vedi in tal senso le sent. 25 del 1981 e 45 del 2005).
Nessuno di questi casi è riferibile alla legge Calderoli, che è una legge ordinaria di natura procedurale, per nulla necessaria (tantomeno vincolata) per dare attuazione all’articolo 116, III comma della costituzione. Lo testimonia – in termini crudi, ma inequivocabili – il fatto che le intese tra Stato e regioni possono essere approvate dal parlamento ai sensi dell’attuale disposizione costituzionale anche in assenza di una apposita legge (il governo Gentiloni, che ha iniziato il processo, era infatti così orientato), né le intese possono essere vincolate da una legge ordinaria precedente (com’è ora con la legge Calderoli).
È questo un enorme problema che ci indica che la strada per liberarci del “pericolo” dell’autonomia così come concepita dall’attuale maggioranza è lunga e non si esaurirà sino a quando non si riuscirà a modificare ovvero, meglio, a cancellare l’attuale disposizione costituzionale. Ma, al contempo, dovrebbe assicurare l’ammissibilità di una richiesta il cui contenuto non è per nulla «costituzionalmente necessario».
Neppure la tutela minima che sarebbe comunque apprestata dalla legge Calderoli può essere richiamata. Detto in sintesi: la parte relativa all’emarginazione del Parlamento, in caso, risulta realizzare una normativa limitativa delle prerogative parlamentari e costituzionali; la parte dedicata alla «determinazione» dei Lep, non appresta nessuna tutela necessaria per «assicurare» il loro rispetto, tanto più stante la clausola dell’invarianza finanziaria. S’intende che ciò non esclude – con o senza legge Calderoli – che le eventuali intese che non garantissero il rispetto dei principi costituzionali (non solo i Lep ma l’eguaglianza nei diritti dei cittadini e l’unità ed indivisibilità della Repubblica) sarebbero comunque incostituzionali, questione su cui la Corte in sede di ammissibilità non si pronuncia. Ciò che solo le viene chiesto è di verificare se il corpo elettorale può abrogare una legge ritenuta alle origini di un regresso di civiltà.
Può darsi che le considerazioni qui svolte possano venir smentite dalla Consulta a cui spetta l’ultima parola, e la storia dei referendum ci ha fornito sorprese in passato. Si sa, infatti, che ormai i giudizi di ammissibilità hanno un elevato grado di imprevedibilità. Ma proprio ciò, io penso, dovrebbe indurre chi crede nel referendum a studiare soluzioni, anziché indugiare su letture regressive di una giurisprudenza costituzionale tutta da interpretare. Ritengo che ci siano ottimi motivi per essere fiduciosi.
Premierato, il cortocircuito di un testo pieno di errori
RIFORME. Antiribaltone o proribaltone? Il Servizio studi della Camera evidenzia gli svarioni del ddl. Nel dossier tutti i problemi e le contraddizioni segnalati anche dai costituzionalisti
Kaspar Hauser 22/07/2024
La riforma del premierato è stata scritta talmente male che, non considerando le intenzioni dichiarate bensì la lettera, il provvedimento porterebbe ad esiti opposti a quelli sbandierati, a partire dai margini di iniziativa nelle crisi di governo da parte del Quirinale. Lo hanno rilevato non solo i costituzionalisti ascoltati dalla Commissione Affari costituzionali della Camera la settimana scorsa, nei primi due cicli di audizioni, ma anche il dossier redatto dal Servizio studi della Camera, seppur con un linguaggio più anodino di quello dei costituzionalisti.
Il Servizio studi ha evidenziato una serie di problemi rilevati dai costituzionalisti, come quello del voto degli italiani residenti all’estero (Francesco Clementi, Roberta Calvano), o che con due Camere elettive ci possono essere due diverse coalizioni vincenti (Stefano Ceccanti). Per non parlare del fatto che «il testo di riforma non indica la maggioranza con la quale il Presidente del Consiglio risulta eletto dal corpo elettorale, rinviando di fatto tale scelta al legislatore ordinario».
UN PRIMO SVARIONE del ddl segnalato nel dossier riguarda il premio di maggioranza previsto dall’articolo 5. Esso deve essere tale «da garantire ‘una’ maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere; la formulazione letterale della disposizione lascerebbe quindi intendere – sottolineano i funzionari di Montecitorio – che il premio di maggioranza possa anche non garantire la maggioranza assoluta dei seggi (come si sarebbe potuto invece ricavare utilizzando l’espressione “la maggioranza”)». Preso alla lettera e nel buio della legge elettorale, potrebbe essere tale da garantire solo la maggioranza relativa, come in Grecia dove è fisso nel numero di 40 seggi.
Oltre ad altri errori più tecnici, puntualmente segnalati, il ddl collassa su quello che pomposamente fu definita «norma antiribaltone», inserita all’articolo 7 del testo. Come si ricorderà esso stabilisce che il presidente del consiglio eletto debba presentarsi per la fiducia alle Camere: «Nel caso in cui non sia approvata la mozione di fiducia – afferma il ddl – il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere».
Già questo meccanismo statuisce il diritto di imboscata, ma il dossier evidenzia un vero e proprio baco-buco: «Si osserva che non risulta disciplinata l’ipotesi in cui il Presidente del Consiglio eletto, che non abbia ottenuto la fiducia delle Camere, rifiuti l’incarico nuovamente conferitogli dal Presidente della Repubblica». Caso limite? Vero, ma se si costituzionalizza il diritto all’imboscata, tutto diventa possibile.
IL DOSSIER OSSERVA che il ddl costituzionalizza il ricorso automatico ad urne anticipate in caso di caduta del governo «mediante mozione di sfiducia motivata», caso mai accaduto «nel corso della storia della Repubblica», mentre nulla dice sul caso verificatosi due volte (Prodi nel 1998 e nel 2008) di reiezione di una questione di fiducia; di qui la richiesta del servizio studi di chiarire questo punto, lasciato nel vago su richiesta della Lega.
Fin qui siamo ancora nel campo dell’ambiguità, mentre i funzionari di Montecitorio segnalano un altro bug della norma antiribaltone. Questa infatti stabilisce che in caso di dimissioni del premier, egli possa chiedere al Quirinale il voto anticipato, «che lo dispone», oppure che «il Presidente della Repubblica conferisce l’incarico di formare il Governo, per una sola volta nel corso della legislatura, al Presidente del Consiglio dimissionario o a un parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio».
A QUESTO PUNTO PERÒ, nota il dossier, «i poteri del Presidente della Repubblica si riespandono nella misura in cui gli viene rimessa la scelta tra il conferimento dell’incarico allo stesso Presidente del Consiglio incaricato o a un altro parlamentare». L’attribuzione dell’incarico, infatti, è una prerogativa del presidente della Repubblica, rimessa alle sue valutazioni. In più, nota il dossier «la disposizione, nella sua formulazione letterale, non esclude espressamente che la maggioranza parlamentare possa essere anche parzialmente diversa da quella originariamente collegata al Presidente del Consiglio eletto».
Quindi avremo non la norma anti-ribaltone, bensì pro-ribaltone: lo stesso presidente del consiglio eletto con una maggioranza diversa, oppure un altro premier non eletto con una sua maggioranza. Analoghe le osservazioni fatte in audizione dal professore Massimo Luciani, che ha glossato: «Un conto sono le intenzioni, un conto quanto è scritto».
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