PORCELLUM CON LE ALI da IL MANIFESTO
La nuova Italia disegnata dalla destra
RIFORME. Parte alla camera dei deputati il disegno di legge sull’autonomia differenziata firmato da Calderoli, proprio mentre la maggioranza sembrerebbe essere in dirittura di arrivo sulla riforma costituzionale del premierato. Si […]
Massimo Villone 03/02//2024
Parte alla camera dei deputati il disegno di legge sull’autonomia differenziata firmato da Calderoli, proprio mentre la maggioranza sembrerebbe essere in dirittura di arrivo sulla riforma costituzionale del premierato. Si precisano dunque contenuti e tempi della nuova Italia vagheggiata dalla destra di governo.
Al voto finale sull’autonomia di Calderoli si giungerà probabilmente prima delle elezioni europee di giugno, e le opposizioni non potranno – per un regolamento che non consente un ostruzionismo insuperabile – impedirlo. Il massimo impegno rimane però indispensabile, perché potrà fornire argomenti per il contrasto al disegno leghista dopo l’approvazione, ad esempio con ricorsi alla Corte costituzionale. Non ci aspettiamo che le opposizioni fermino la legge ma che combattano in prima linea sì.
Gli argomenti non mancano. Si punta a un’Italia di regioni speciali, stravolgendo l’assetto vigente del rapporto tra lo stato e le regioni. Cos’è in fondo l’autonomia in salsa leghista se non la specialità della singola regione, diversa nella forma ma nella sostanza analoga a quella delle regioni in senso tecnico speciali? In entrambi i casi l’autonomia si sottrae alla legge ordinaria e al referendum abrogativo. Ma dobbiamo ricordare che la Consulta dichiarò costituzionalmente illegittima la legge regionale che prevedeva il quesito referendario «vuoi che la Regione del Veneto diventi una regione a statuto speciale?».
Per i livelli essenziali delle prestazioni (Lep), la riforma prevede decreti delegati entro due anni. Dichiara fino ai decreti anzidetti applicabile la legge di bilancio, che richiama invece un decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) e persino un commissario. Si dispone addirittura che sia fatta salva la determinazione dei Lep ai sensi di quei commi «alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al presente articolo».
Chi decide cosa, come e quando? Un dubbio rimane, come quello che viene sugli atti di iniziativa delle Regioni già presentati al Governo, «di cui sia stato avviato il confronto congiunto tra il governo e la Regione interessata». Vanno esaminati secondo le «pertinenti disposizioni della presente legge». Allora per una parte la legge Calderoli non è pertinente e non si applicherà? Quale parte?
Sono punti che potrebbero consentire a Calderoli una fuga in avanti per le Regioni (Lombardia e Veneto, Emilia-Romagna chissà) che ricadono nell’identikit. Potremmo trovarci ad affrontare una (prima) attuazione dell’autonomia in tempi brevi. E qui troviamo l’audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) del primo febbraio nella Commissione bicamerale per le riforme regionali.
L’Upb ha ribadito le critiche già espresse nell’audizione in senato. Dice quello che sapevamo da sempre: in un paese già gravemente diviso i Lep, se non sono una presa in giro, richiedono risorse aggiuntive per chi è in ritardo. E questo presuppone o uno sviluppo sostenuto (che non c’è e non ci sarà), o uno spostamento di risorse da chi sta meglio a chi sta peggio (politicamente impraticabile), o un aumento di tasse (cui il governo in carica è allergico). La riforma Calderoli invece impone l’invarianza di spesa. E il rischio di una frammentazione insostenibile per il bilancio e per il paese – dice l’UPB – è reale.
In questo quadro si cala il premierato. Arriverà comunque molto dopo l’autonomia, e qualunque riscrittura non cancellerà l’intrinseca contraddizione di riforme che centralizzano sul capo dell’esecutivo da un lato, e gli hanno intanto sottratto poteri, funzioni e risorse dall’altro. Se poi le regioni leghiste del Nord pretendessero uguali amplissime autonomie e creassero organismi comuni – ad esempio un’assemblea di secondo grado di consiglieri regionali, e un consiglio di presidenti di giunta – potremmo avere le due Italie pensate da Miglio e dalla prima Lega. Sono organi la cui creazione è rimessa totalmente alla regione, che potrebbero produrre la sostanziale separazione di una parte di Italia, ricca e ampiamente autogovernata, e per altra parte ancora legata al centralismo romano.
Fantapolitica? Che ne pensa Calderoli? Bisognerebbe chiederglielo, in parlamento.
Parleremo del premierato quando avrà forma definitiva. Prevederà – pare – che il premier di ricambio subentri, tra l’altro, nel caso di morte o impedimento permanente. Un suggerimento: nella tradizionale cerimonia sarà bene sostituire la campanella, che il premier uscente consegna al suo successore, con appropriati strumenti contro il malocchio.
Calderoli vuol dire fiducia: un premierato insostenibile
RIFORME. L’ultima invenzione del leghista alla prova dei leader: serve a unire la destra, ma è folle. «Sfiducia con mozione motivata» e «sfiducia su una singola norma», la differenza creativa. L’accordo pensato per condizionare il potere della capa eletta con quello della coalizione
Kaspar Hauser 03/02//2024
Il presidente Sergio Mattarella, prima di essere prestato alla politica dopo l’uccisione del fratello Santi, era un professore di diritto parlamentare. Chissà se la maggioranza gli risparmierà il calice di dover leggere una riforma costituzionale che contraddice la Costituzione e tutti i manuali di diritto parlamentare. Ad oggi il rischio è altissimo. Infatti l’accordo nel centrodestra sugli emendamenti al premierato, che dovrà essere esaminato dai leader, si basa su una proposta della Lega che è un unicum in tutti le Repubbliche parlamentari: addirittura più unicum dell’elezione diretta del premier. Non a caso i giuristi consulenti del ministero delle Riforme stanno sollevando «perplessità», come eufemisticamente trapela.
Com’è noto il nodo del contendere nella coalizione riguarda i poteri del premier eletto dal popolo. Nel testo originario del disegno di legge Casellati, i suoi poteri non erano aumentati rispetto a quelli attuali: addirittura ne aveva di più il «premier di riserva», vale a dire chi gli subentrava in caso di caduta. Questi aveva il potere di minacciare lo scioglimento anticipato delle camere, non il premier eletto, il cui solo potere era il mandato popolare stesso. Fratelli d’Italia chiedeva dunque di estendere al premier eletto la stessa prerogativa, vale a dire la possibilità, in caso di sfiducia, di chiedere le elezioni anticipate al presidente della Repubblica: in sostanza il famoso simul stabunt, simul cadent. Una soluzione che né a Lega né a Forza Italia piace; i due junior partner di Meloni chiedono un bilanciamento tra i poteri del premier eletto e quelli dei partiti della coalizione che lo hanno sostenuto alle urne. In fin dei conti, lui (o lei) ha vinto proprio grazie alla coalizione.Monaldo /LaPresse
E qui entra in campo Roberto Calderoli, l’inventore del sistema elettorale da lui stesso definito «Porcellum», bocciato dalla Corte costituzionale nel 2014. Ed ecco la sua mediazione: distinguere tra fiducia e fiducia. In barba ai manuali di diritto costituzionale e di diritto parlamentare, per i quali un governo deve avere la fiducia delle camere, che se viene revocata fa cadere il governo stesso. Se dunque – dixit Calderoli – il governo viene sfiduciato con «una mozione motivata», allora il premier può chiedere lo scioglimento delle camere al capo dello Stato «che emana il conseguente decreto». Ma se non gli viene accordata la fiducia che egli pone su un provvedimento o su una singola norma, allora deve dimettersi lui (in quanto sfiduciato) ma non può chiedere urne anticipate. La logica è tutta interna alla coalizione di centrodestra, o meglio di destracentro. Meloni vuole l’elezione diretta del premier, e l’avrà, per la sua propaganda, ma non può pensare a puntare a un futuro mandato plebiscitario per se stessa che le consenta di essere la «domina» assoluta della politica: conta anche la coalizione, che anzi è un bilanciamento del parlamento rispetto al governo. La logica è stata accettata da Fratelli d’Italia, con l’eccezione di Marcello Pera che anche ieri ha sparato a palle incatenate con l’agenzia Adn Kronos contro l’accordo.
Il punto è che la fiducia o c’è o non c’è. Il governo, nelle Repubbliche parlamentari, si basa sul rapporto fiduciario tra esecutivo e parlamento: o fiducia o sfiducia. Non esistono novantanove sfumature di grigio. I costituzionalisti consulenti del governo lo hanno spiegato sia a voce che per iscritto. A questo punto l’atteso vertice tra i tre leader Meloni, Salvini e Tajani – che potrebbe svolgersi proprio oggi -, non dovrebbe dare solo la «bollinatura» all’accordo, in vista degli emendamenti da presentare lunedì. Dovrebbe anche prendere una decisione più grave. Dare il via libera a qualcosa che tutti e tre sanno essere costituzionalmente insostenibile. E preparare un calice colmo di fiele per Sergio Mattarella.
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