PER AVERE LA PACE SI DEVE NEGOZIARE CON I NEMICI da IL FATTO e IL MANIFESTO
Per avere la pace si deve negoziare con i nemici
ELENA BASILE 14 OTTOBRE 2023
È divenuto impossibile ragionare. Non gli estremisti politici, ma simpatici giornalisti, intellettuali moderati, progressisti benpensanti si ostinano ad alimentare in ogni contesto il sonno della ragione. Non si rendono forse conto che stanno preparando il terreno a nuove catastrofi. Sono capaci di analizzare le derive nazionaliste, militariste e autoritarie del secolo scorso e subito dopo, quasi fossero robot i cui comandi sono attivati altrove, si impegnano in discorsi ideologici e oscurantisti in grado di rendere fertile il terreno per il peggior fascismo.
L’atroce violenza eseguita da Hamas ha bisogno di una risposta efficace. Per rispetto delle vittime bisognerebbe tornare alla Politica, a una strategia coerente con obiettivi realistici di breve e di lungo periodo. Lo scenario è complicato da innumerevoli attori e dall’inerzia con la quale si è lasciata incancrenire la situazione a Gaza e in Cisgiordania. Come Gideon Levy scrive su Haaretz, la mostruosa e barbarica violenza di Hamas è figlia delle atrocità e dei crimini contro l’umanità dello Stato di Israele a Gaza, prigione a cielo aperto, denunciate dalle Nazioni Unite e dalle stesse organizzazioni umanitarie israeliane, del sistema di apartheid creato in Cisgiordania. Hamas, che ha nel suo statuto l’eliminazione dello Stato di Israele, è stato dall’inizio un interlocutore difficile, reso inesistente dalla follia normativa dell’Occidente che lo ha considerato una organizzazione terroristica e non eletta a Gaza. I ragazzi assoldati da Hamas non sono bestie e mostri, ma come spiega Domenico Quirico su La Stampa, il prodotto di una vita nella miseria, nella quotidiana assuefazione alle ingiustizie e violenze.
Gli accordi di Abramo, a cui le migliori menti diplomatiche fino all’altroieri si dedicavano, sono una composizione di interessi e di collaborazioni economiche e militari per conseguire una normalizzazione dei rapporti in funzione anti Teheran. Sono stati recepiti a ragione come l’affossamento definitivo della causa del popolo palestinese. I condizionamenti delle lobby ebraiche sull’elezione del presidente Usa non hanno permesso una strategia occidentale in grado di contribuire alla pace. L’Unione europea, la cui struttura istituzionale ingessa ogni decisione, ha tradito i propri interessi nel Mediterraneo con anni di inerzia rispetto al conflitto di pace in Medio Oriente. La vecchia Europa, i Paesi fondatori, ma anche la Svezia di tradizione socialdemocratica e sensibile alla causa palestinese, si sono appiattiti sul sodalizio con Israele senza se e senza ma, facendo inorridire con i doppi standard il resto del mondo.
L’atlantismo muscolare ha posto fine alla cooperazione con Russia e Cina, che avrebbe potuto essere produttiva di azioni per la pace in Medioriente dell’Onu e del quartetto. L’Iran, attraverso gli Hezbollah e in collaborazione con Hamas, ha portato avanti una politica provocatoria intesa a dare fastidio alle monarchie del Golfo e a presentarsi come unico rappresentante della causa palestinese. La Russia ha eccellenti rapporti con Israele, Arabia Saudita e Iran. Mantenendo una posizione più pacata e neutrale, ha qualcosa da dire sulla questione non avendo perso la credibilità. I veri possibili mediatori sono oggi la Turchia più dell’Egitto e il Qatar, tradizionali amici dei fratelli musulmani.
Questo molto sinteticamente è il quadro. Cosa auspicare a breve? Che i Paesi europei maggiormente illuminati prendano le distanze dalle dichiarazioni bellicistiche di Stoltenberg e Von der Leyen. Bisognerebbe esercitare una pressione morale su Tel Aviv affinché non si lasci andare a un uso incontrollato della forza. La rabbia è comprensibile, ma va mitigata per salvare Israele da se stesso. Bisogna far aprire il valico dell’Egitto per i mezzi di sostentamento alla popolazione di Gaza. Creare corridoi umanitari. Evitare sfollamenti forzati della popolazione, che darebbero mano libera alla repressione senza rispetto del diritto umanitario. Operare mediazioni che abbiano gli ostaggi e la mitigazione della violenza quali strumenti di negoziato.
Bisognerebbe apprendere la lezione di una crisi che colpisce Israele al cuore per ritornare alla politica. Si difendano i diritti dei palestinesi in Cisgiordania, fermando gli insediamenti, anche ventilando sanzioni alle esportazioni. L’unica soluzione possibile resta il riconoscimento dello Stato di Palestina accanto a quello di Israele, il ritiro dei coloni, la terra per la pace. Concessioni sostanziali alle richieste del popolo palestinese farebbero diminuire i consensi di Hamas.
Per costruire la pace bisogna dialogare con i nemici, la Russia come l’Iran. Ricorrere alla sola forza militare non aumenterà la sicurezza, ma ingrandirà il problema del terrorismo.
Ospedali, fognature, comunicazioni: l’intera Striscia di Gaza rischia il collasso
ISRAELE / PALESTINA. Per Khaled Abu Ghali, infermiere palestinese, quello che si sta consumando a Gaza è un crimine contro l’umanità
Anna Uras 14/10/2023
Khaled Abu Ghali è un infermiere palestinese, impiegato del Ministero della salute e volontario della Palestinian Red Crescent Society. Ha 59 anni e vive con la sua famiglia nella Città di Rafah, nel sud di Gaza, insieme alla moglie, tre figli e due figli. Se riusciranno ad arrivare, presto ospiterà anche una famiglia di amici che sta evacuando dal nord della Striscia.
Secondo Abu Ghali l’intera striscia è prossima al collasso, e il sistema sanitario non reggerà oltre le prossime 48h a causa del taglio dell’elettricità dovuto al blocco israeliano. Gli ospedali, che al momento stanno continuando a funzionare a basso voltaggio, si troveranno presto senza elettricità, con conseguenze devastanti non solo per gli oltre 6mila feriti, ma anche per i pazienti che necessitano di terapie salvavita, come gli oltre 1100 pazienti in dialisi per insufficienza renale, di cui 40 bambini. “Questo avrà ripercussioni molto gravi sulle persone che abbiamo in cura: stiamo parlando di pazienti in dialisi, neonati prematuri, pazienti in terapia intensiva che rischiano di morire perché molti degli ospedali saranno fuori servizio”.
Anche la corrispondenza di Abu Ghali, che in questi giorni si sta impegnando per far conoscere alla comunità internazionale quello che sta succedendo a Gaza, rischia di interrompersi presto: “Gli unici due sistemi di telecomunicazioni attualmente attivi rischiano di essere interrotti, quindi tutte le comunicazioni, incluso il wi-fi e la connessione internet, potrebbero interrompersi a breve”.
Il numero, già alto, di morti e feriti, potrebbe essere sottostimato. “A causa degli attacchi ripetuti in alcune aree, ci sono zone colpite dalle bombe che i mezzi di soccorso non stanno riuscendo a raggiungere, e la carenza di macchinari adeguati ostacola le operazioni di salvataggio e rimozione dei detriti. Qualsiasi conteggio al momento è sottostimato, ma il numero dei morti è così alto da aver messo in crisi anche la capienza dei frigoriferi mortuari”. E la mancanza di carburante potrebbe rendere impossibile l’attività dei mezzi di soccorso, come quelli della PRCs, che finora si sono mossi sotto la protezione della legge internazionale per prestare soccorso ai feriti. Una protezione che non è bastata ad impedire il bombardamento di alcuni mezzi, come racconta Abu Ghali, secondo cui anche una delle macchine mediche della PRCs è stata attaccata, risultando nella morte di 3 paramedici. Sono 20, secondo i dati riportati da Al-Jazeera, le ambulanze distrutte fino ad ora dai bombardamenti.
Ad aumentare i rischi sanitari e ambientali è anche il blocco dell’impianto di depurazione fognaria, che è stato spento a causa della mancanza di elettricità. “L’impianto di depurazione controlla lo scarico fognario in mare, questo significa che presto il mare sarà inquinato, con ripercussioni negative anche per Israele”. Le acque territoriali di Gaza infatti sono sempre state controllate da Israele, e i pescatori palestinesi possono accedere solo alle acque entro 41 km dalla costa.
Nel frattempo, Israele ha intimato agli oltre 1.1 milioni di abitanti dell’area nord di Gaza di evacuare verso il sud della Striscia. “Sono arrivate chiamate, messaggi, notizie su internet e anche volantini lanciati via aerea che intimavano di evacuare Gaza City e North Gaza. A Gaza il 70% della popolazione è composto da rifugiati, palestinesi che sono stati allontanati dai loro villaggi in seguito all’occupazione israeliana del 1948. Ora stiamo vivendo una situazione simile, e il sud di Gaza non ha le risorse per accogliere oltre un milione di evacuati. Molte persone stanno aprendo le loro case ad altre famiglie, ma mancano l’acqua e il cibo”.
Gaza era già una delle aree a più alta densità abitata al mondo, con 5mila abitanti per Km2 circa, e l’evacuazione di circa metà della popolazione nel sud della Striscia sarebbe stata impossibile anche se Gaza non fosse sotto assedio, senza accesso ad acqua, cibo, elettricità e carburante e con la minaccia costante delle bombe che continuano a colpire la Striscia.
Attualmente, non vi sono canali di evacuazione che permettano ai palestinesi di lasciare la Striscia di Gaza. Ma anche se ci fossero, Khaled Abu Ghali non se ne andrebbe. “Non lascerò la mia casa, non ho un posto dove andare. E anche se aprissero il confine non penso che me ne andrei. Ho quasi 60 anni, ho una moglie, tre figli e due figlie. Sono un membro di questa comunità, sono un palestinese, ho vissuto l’intero conflitto con Israele, e andarsene vorrebbe dire diventare rifugiati di nuovo. Questa è la mia casa, e anche se dovesse crollare resterei qui”.
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