PALESTINA: UN GENOCIDIO IN NOME DI DIO da VOLERELALUNA e LA FIONDA
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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PALESTINA: UN GENOCIDIO IN NOME DI DIO da VOLERELALUNA e LA FIONDA

Palestina: un genocidio in nome di Dio

Piero Bevilacqua   16-06-2025  

Tra le omissioni più gravi dei nostri media sul massacro in Palestina – quei silenzi che nella tessitura di una narrazione possono essere più efficaci della menzogna – una, fondamentale, andrebbe ricordata. Vale a dire la ragione sostanziale per cui l’esercito israeliano sta uccidendo, affamando, scacciando la popolazione inerme di Gaza: appropriarsi del suo territorio. Perché è questo il fine strategico fondamentale del disegno sionista, non la difesa da Hamas, che ne costituisce il pretesto.

Come hanno ricordato autorevoli storici israeliani, da Benny Morris a Ilan Pappè, quello di Israele è sempre stato un «colonialismo d’insediamento». Di che si tratta? Il colonialismo classico, poniamo quello dei britannici in India, consisteva nel dominare l’economia e la vita politica di quel paese. Ma il Governo di Londra non cacciava gli indiani dalle loro terre, si limitava a sfruttarli. E così tutti i colonialismi dell’Europa, fiaccola di civiltà nel mondo, compreso il nostro “colonialismo straccione”, in Africa orientale. Il colonialismo di Israele, non meno oppressivo di quello britannico, si è progressivamente impossessato dei territori della Palestina a ogni conflitto concluso con successo. È accaduto con la guerra del 1948, allorché l’occupazione delle terre venne preventivamente pianificata con uno studio accurato delle mappe e delle proprietà arabe. E i metodi furono già allora sanguinari. Mi limito qui a indicare la tecnica adottata dai militari ebrei per svuotare i villaggi che dovevano essere rasi al suolo al fine di costruire il nuovo stato di Israele. È il caso dei villaggi costieri fra Tel Aviv e Haifa: «Nel periodo compreso fra la fine di aprile e la fine di luglio 1948 una scena piuttosto feroce fu replicata pressoché in ciascun villaggio. Soldati israeliani armati circondavano i villaggi da tre lati e costringevano gli abitanti a fuggire dal quarto lato. In molti casi, se gli abitanti del villaggio si rifiutavano di andarsene, erano caricati su autocarri e trasportati a est in Cisgiordania. In alcuni villaggi, volontari arabi presenti resistettero con la forza; una volta conquistati, i villaggi furono fatti saltare in aria e distrutti (Ilan Pappè, Storia della Palestina moderna. Due popoli due stati, Einaudi, 2014).

Ma la più vasta occupazione si realizzò in seguito alla guerra del 1967. In quell’occasione Israele si impossessò della Cisgiordania, di Gaza, del Sinai e delle alture del Golan, portando a ben 5000 km² i territori sottratti alla Palestina dall’anno della sua fondazione, nel 1948. Vale a dire le regioni che la Corte Internazionale di Giustizia nel 2024 ha ritenuto occupati illegalmente da Israele. E allora non si trattò di semplice occupazione di guerra, ma di un passo verso «l’originale progetto sionista di uno Stato ebraico comprendente l’intera Palestina» (Benny Morris). Nel corso dei decenni che seguirono la storia dei rapporti tra Israele e la Palestina è stata una lunga serie di conflitti seguiti da occupazioni, distruzione di villaggi, colonie d’insediamento, espulsione di popolazione, annessione di nuovi brandelli di territorio.

Ma un’altra omissione grave dell’informazione su questo conflitto va segnalata: il potere di seduzione che il progetto sionista del Grande Israele ha avuto su tutta l’élite ebraica e sulla maggioranza della popolazione di quel paese. Una rilevantissima notazione di Ilan Pappè ci informa che all’indomani della Guerra dei Sei giorni, nel 1967, si formarono i governi più pluralisti della storia d’Israele, in cui erano rappresentati tutti i partiti politici, dai laburisti agli ebrei ultraortodossi. Ebbene, gli atti delle riunioni dei governi puntualmente registrate, sono stati recentemente desecretati e sono consultabili nell’archivio di Stato di Israele. E da esse «conosciamo nei minimi dettagli le decisioni prese allora e le giustificazioni fornite».(Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina, Fazi, 2024). Tutti i partiti politici hanno acconsentito all’occupazione dei territori, alla prosecuzione del colonialismo d’insediamento. Dunque, oggi con un vasto consenso, il Governo di Netanyahu, forte dello shock provocato dall’eccidio del 7 ottobre, sta coerentemente completando l’opera, la soluzione finale, secondo la pretesa messianica del sionismo. Del resto il premier israeliano lo ha rivendicato solennemente. Come ha ricordato Jeffrey Sachs, il 27 settembre 2024, all’Assemblea Generale dell’Onu, Netanyahu «ha riproposto ancora una volta la rivendicazione di Israele sulla terra palestinese su basi bibliche: “Quando ho parlato qui l’hanno scorso, ho detto che ci troviamo di fronte alla stessa scelta senza tempo che Mosè pose di fronte al popolo di Israele migliaia di anni fa, quando stavamo per entrare nella Terra Promessa”» (Il Fatto quotidiano, 3 ottobre 2024). Dunque, diversamente dall’olocausto perpetrato dai nazisti, il genocidio a cui stiamo assistendo avviene in nome di Dio. Il Governo di Tel Aviv, ricorda ancora Sachs si ispira «al libro biblico di Giosuè, secondo il quale Dio promise agli Israeliti la terra “dal deserto del Negev a sud fino alle montagne del Libano a Nord, dal fiume Eufrate a est fino al Mar Mediterraneo” (Giosuè 1, 4)». E, come dovrebbe essere noto, non c’è guerra più convinta e feroce di quella combattuta da chi, oltre a godere delle armi della più grande potenza del pianeta, si avvale di una solenne promessa fatta addirittura da Dio.

Israele, la verità proibita. Le parole che non si possono dire e il coraggio di dirle


Giuseppe Gagliano    16 Giugno  2025| 

Uno sguardo senza sconti su Gaza, la propaganda occidentale e la complicità dell’ipocrisia italiana

Ci sono parole che pesano come macigni, e nomi che funzionano come barriere semantiche: appena vengono pronunciati, si attiva un sistema immunitario che sterilizza ogni possibilità di dibattito. “Genocidio” è una di queste. “Israele” è l’altra. Quando le due si incontrano nello stesso discorso, il pensiero libero viene disinnescato, la logica si dissolve, e l’analisi viene ridotta a insinuazione. Chi osa criticare Israele è etichettato come antisemita, chi difende i palestinesi è sospettato di appoggiare il terrorismo, chi parla di crimini di guerra è accusato di odio razziale. In questa zona grigia del discorso pubblico, la voce di Piergiorgio Odifreddi irrompe con la forza di un’evidenza che non si può più eludere.

Nel corso di un’intervista lunga, complessa e senza sconti concessa alla piattaforma Ibex, Odifreddi smonta, con lucidità chirurgica e rigore logico, le fondamenta del consenso occidentale attorno a uno degli ultimi progetti coloniali del nostro tempo: lo Stato d’Israele nella sua configurazione attuale, governato da una destra ultra-nazionalista, sostenuto militarmente dalle potenze occidentali, e inchiodato a una strategia che da decenni fa della repressione e della disumanizzazione la sua grammatica politica.

Dall’utopia sionista al teocratico colonialismo armato

La prima frattura intellettuale che Odifreddi affronta è quella tra il progetto sionista originario e ciò che lo Stato israeliano è diventato. Il sogno di una “terra per un popolo senza terra” si è rapidamente trasformato, già nel dopoguerra, in un processo sistematico di espropriazione, sostituzione etnica e annessione. Una dinamica che nulla ha più a che vedere con l’idea di rifugio o autodeterminazione, e tutto invece con la logica implacabile di un’espansione coloniale che ha fatto della Palestina una terra deprivata, disarticolata, senza continuità geografica, senza risorse proprie, e senza sovranità.

A Gaza, dice Odifreddi, non si sta combattendo una guerra: si sta portando a compimento, con strumenti tecnologici del XXI secolo, un modello che ricorda le praterie dell’Ovest americano nel XVII secolo. La storia è nota, eppure sistematicamente dimenticata: una popolazione straniera si insedia in una terra già abitata, la dichiara propria, e attraverso una progressiva ma inesorabile politica di violenza, espulsione, emarginazione e sterminio, elimina o neutralizza i nativi. Così avvenne con gli indiani d’America, così – osserva – avviene oggi con i palestinesi.

E come nel caso degli Stati Uniti, la memoria del massacro è ricoperta da una retorica di civilizzazione, di progresso, di diritto alla sicurezza. Il paradosso è che Israele, come “unica democrazia del Medio Oriente”, mantiene prigioni segrete, detenzioni amministrative senza processo, torture sistematiche, bombardamenti su scuole e ospedali. Una democrazia che detiene centinaia di testate nucleari ma che si arroga il diritto di impedire che altri, come l’Iran, possano anche solo sognarle.

L’apartheid, parola che brucia

Il termine “apartheid” – troppo spesso liquidato come iperbole – viene invece riportato da Odifreddi alla sua cruda precisione: lo usano da anni Nelson Mandela, Desmond Tutu, Jimmy Carter. Tre figure che hanno conosciuto l’apartheid e il razzismo sulla propria pelle. Non sono attivisti improvvisati, né ideologi. Sono premi Nobel per la pace, presidenti, autorità morali. Ma il loro giudizio è stato rimosso.

Cosa distingue Gaza e Cisgiordania dalle riserve indiane? Cosa distingue i checkpoint israeliani dai bantustan del Sudafrica? Cosa distingue il trattamento riservato ai palestinesi, privati di acqua, libertà di movimento, accesso alla sanità, istruzione, lavoro, da un regime di apartheid? Nulla. O meglio: la sola differenza è che nel caso israeliano l’apartheid è protetto, finanziato, giustificato.

La complicità dell’Occidente e il silenzio calcolato

Odifreddi non ha dubbi: Israele è il nostro gendarme regionale, l’avamposto armato dell’Occidente nel Mediterraneo orientale. Non si tratta di affinità valoriali ma di interessi geopolitici. Controllare la rotta tra lo Stretto di Hormuz e il Canale di Suez è vitale per le economie europee, americane, cinesi. Israele è il garante, armato fino ai denti, che impedisce agli stati arabi di esercitare pienamente la propria sovranità.

Ecco perché nessuno parla: perché Israele è parte della catena di comando dell’Occidente. È il nostro “uomo a Lavana”, la nostra base avanzata, il nostro satellite strategico. Gli lasciamo tutto, in cambio di tutto. Lo dotiamo di armi, tecnologie, appalti, software di sorveglianza. Come ricorda Odifreddi, l’Italia stessa ha aperto i suoi bandi per l’intelligence digitale a imprese israeliane. E il governo Meloni, nonostante provenga da una tradizione storicamente filopalestinese, ha voltato le spalle a ogni residuo di dignità diplomatica, piegandosi alla logica dell’asse atlantico.

Il doppio pesismo e l’inganno morale

Ciò che rende tutto questo insopportabile – e al contempo invisibile – è il doppio standard morale. Ci scandalizziamo per le repressioni russe in Cecenia o in Ucraina, per la censura cinese, per la brutalità saudita, per la corruzione africana. Ma ci rifiutiamo ostinatamente di applicare gli stessi criteri a Israele. Come se uno Stato che bombarda ospedali, affama bambini, deporta civili e cancella interi quartieri potesse comunque rivendicare una superiorità morale. Come se la Shoah – tragedia incommensurabile della storia umana – potesse giustificare l’annientamento sistematico di un altro popolo.

Nel frattempo, in Israele, l’opposizione interna tace o si occupa solo degli ostaggi. Nessuna mobilitazione paragonabile a quella che portò alla fine dell’apartheid in Sudafrica. Perché la società israeliana, spiega Odifreddi, è ormai completamente militarizzata, coesa attorno a un’identità esclusiva e suprematista, fondata su una narrazione etnica, religiosa e vittimaria.

Destra e sinistra in Italia: l’ipocrisia bipartisan

Ma anche in Italia il dibattito è anestetizzato. Le origini storiche contano poco: la destra, che fu antisionista e filopalestinese, oggi difende Israele in nome della fedeltà a Washington. La sinistra, che un tempo lottava per l’autodeterminazione dei popoli, oggi balbetta, si divide, rinuncia. Odifreddi non fa sconti: le identità politiche si sono sgretolate e ciò che resta è un riflesso condizionato, in cui la posizione è dettata non da convinzioni ma da alleanze.

Il risultato? Nessuna piazza che possa unire. Nessun linguaggio condiviso. Nessuna denuncia pubblica degna di questo nome. Solo una protesta frammentata, isolata, confinata tra chi viene tacciato di antisemitismo se osa pronunciare la parola “genocidio”.

La spirale della violenza e la rimozione della storia

Genocidio annunciato” è il titolo del libro di Chris Hedges, cui Odifreddi ha firmato la prefazione. È un’espressione che dice tutto: non si tratta di un errore, ma di una strategia a lungo termine, in cui ogni atto è parte di un disegno più ampio. Lo sterminio lento, la riduzione della Palestina a brandelli, l’espulsione silenziosa, l’umiliazione sistematica. E dietro a ogni colpo di artiglieria, dietro a ogni casa rasa al suolo, dietro a ogni bambino sventrato da un drone, c’è una logica che non è follia: è ideologia, calcolo, volontà di potere.

Odifreddi lo dice senza ambiguità: il terrorismo, quello palestinese, è anche la conseguenza di una storia di oppressione, disillusione, negazione dei diritti fondamentali. Non lo giustifica, ma lo spiega. E lo ricorda con le parole stesse di Mandela: “ci avete costretti ad arrivare fin qui”.

Ecco perché oggi, chi tace è complice. Perché il crimine peggiore non è solo uccidere, ma impedire agli altri di chiamare le cose col loro nome.

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