“PACE, LAVORO, GIUSTIZIA SOCIALE” da IL FATTO
Il messaggio 5S è attuale, guai a inseguire Pd e Avs
LUCIO BACCARO 15 GIUGNO 2024
Le elezioni europee hanno avuto un impatto differenziato sui soggetti della sinistra italiana. Mentre il Movimento 5 Stelle ne è uscito sconfitto, passando dal 17% del 2019 al 10% del 2024, il Pd ha guadagnato qualche punto percentuale (dal 22,7 al 24,1), e l’Alleanza Verdi-Sinistra ha conosciuto un piccolo exploit, raggiungendo un risultato insperato alla vigilia, il 6,8%. Come vanno interpretate queste differenze?
Il primo tratto da sottolineare è il tasso di partecipazione molto basso: di poco superiore al 48% su scala nazionale, ancor più basso nelle regioni in cui il Movimento pesca una buona parte dei suoi voti, nel Meridione (42%) e nelle Isole (35%). Peraltro, nelle località in cui le elezioni europee sono state abbinate alle elezioni comunali, l’affluenza è stata di 14 punti più elevata (dati YouTrend), a dimostrazione del fatto che non siamo di fronte a un fenomeno di disaffezione generalizzata, ma a una scelta (razionale?) degli elettori di non prendere parte a uno scrutinio, quello europeo, percepito come di scarsa importanza (non a torto, date le limitate competenze del Parlamento europeo).
L’altro aspetto riguarda la distribuzione asimmetrica dell’astensione tra i gruppi sociali. Secondo un’indagine della Swg, il tasso di non-voto è stato particolarmente elevato tra le persone in difficoltà economica e tra gli operai (58%), ovvero tra i ceti che hanno mostrato in altre consultazioni una propensione a votare 5 Stelle superiore alla media. Secondo un’indagine di YouTrend, fatti 100 gli elettori del Movimento nel 2022, nel 2024 9 di questi sono passati al Pd e 5 a FdI, ma molti di più, 31, hanno scelto di non votare. Gli altri flussi in uscita dai M5S sono stati trascurabili. A confronto, gli astenuti del Pd sono stati 15 su 100. Insomma, una parte importante del risultato elettorale è spiegata dalla partecipazione: mentre i 5 Stelle non sono stati in grado di mobilitare i loro elettori potenziali, il Pd, che può contare su un elettorato più scolarizzato e anziano (e più fidelizzato), ha avuto meno problemi a farlo.
Questo non significa che la strategia elettorale non abbia giocato alcun ruolo. In un’elezione con un’affluenza così bassa ha prevalso il voto identitario e di opinione (ma non, in tutta evidenza, il tema della pace, dato il magro bottino della lista di Santoro & C.). In queste condizioni è utile avere candidati visibili che incarnino alcuni temi centrali per l’offerta politica del partito. Puoi rinunciare a essi solo se disponi di un “marchio” forte che segnali una promessa credibile di cambiamento indipendentemente dalle individualità (“uno vale uno”). Ma questo non è più da tempo un atout dei 5 Stelle, che sono stati al governo e hanno perso l’aura di novità. Più pagante dal punto di vista elettorale è stata la strategia di fudging del Pd, che ha riempito le sue liste di personaggi ben conosciuti (specie a livello locale), nonostante esprimessero posizioni molto diverse (per es. sulla pace). Questo gli ha consentito di conciliare le sue varie anime, anche se a discapito di un profilo programmatico chiaro.
Il M5S rappresenta a mio parere quanto di più vicino ci sia in Italia a un partito di sinistra economica, che mette al centro le questioni del lavoro, del salario, della precarietà, dell’intervento pubblico in economia, della sanità e della scuola pubblica, mentre riduce l’enfasi sui temi identitari e woke della sinistra borghese. Un profilo simile ha il Bsw di Sahra Wagenknecht in Germania, l’unica formazione della sinistra tedesca (Spd, Verdi e Linke) a non essere uscita dalla consultazione europea con le ossa rotte. Al contrario, ha ottenuto un lusinghiero 6,2% alla sua prima prova elettorale, con percentuali intorno al 15% nei Länder dell’Est.
È importante che la riflessione sugli esiti del voto non induca a conclusioni affrettate. Ad esempio, non sono d’accordo con l’analisi di Mario Ricciardi (sul Fatto di mercoledì), secondo cui il M5S avrebbe perso perché non ha scelto da che parte stare, mentre il Pd lo avrebbe fatto. A mio avviso è più vero il contrario. Credo che il progetto del M5S sia abbastanza chiaro e rimanga di forte attualità: ridare voce a una sinistra di popolo. Il rischio per un partito con questo obiettivo non è che la sua base potenziale migri verso altri partiti, ma che non vada a votare. In particolare, una lezione da non trarre dalle ultime Europee è che la strategia vincente sia quella adottata dall’Avs, tutta centrata sull’utilizzo di figure simbolo delle battaglie civili, dalle condizioni carcerarie (Salis) all’accoglienza e integrazione dei migranti (Lucano). Benché le questioni siano meritorie, non è un modello adatto all’elettorato dei 5 Stelle. Dubito inoltre che sia applicabile alle elezioni politiche, in cui il tasso di partecipazione si alza. Potrebbe rivelarsi un fuoco di paglia come l’8,5% ottenuto dalla Lista Bonino alle Europee del 1999.
* Istituto Max Planck per la Ricerca Sociale di Colonia
Pace e Lavoro: così Matteotti smaschera i finti “riformisti”
FABRIZIO D’ESPOSITO 15 GIUGNO 2024
Gli ultimi due lustri hanno dimostrato che il riformismo è una definizione alla deriva, una parola diventata flaccida e ambigua e abusata da tutti, non solo a sinistra. Finanche uno scudo generico che racchiude tre “ismi” letali: consociativismo, impunitismo, bellicismo. Ed è per questo che il centenario del martirio antifascista di Giacomo Matteotti è l’occasione per riscoprire il significato vero del riformismo. Ché Matteotti fu socialista e riformista, non comunista e rivoluzionario, e il suo sacrificio veniva da lontano, sin da quando giovanissimo cominciò le sue lotte per i lavoratori nel Polesine, l’attuale provincia di Rovigo, dov’era nato. Il Matteotti politico, e non solo eroe e martire, è al centro del saggio di Federico Fornaro, storico e parlamentare del Pd: Giacomo Matteotti. L’Italia migliore. Un libro che ha il merito di smascherare i falsi riformisti di oggi. Appunto.
A partire da come Matteotti intendeva il metodo della pratica gradualista: “Richiede un lavoro enorme, molteplice, vario; propaganda e organizzazione, revisione teorica e azione pratica, studio ed esperimento, preparazione tecnica per le riforme legislative, preparazione per l’opera amministrativa nei Comuni”. E ancora: “Facoltà di comprendere l’ideale e il reale; l’immediato e il lontano: di discernere il lecito dall’illecito, di conoscere l’anima popolare, di non titillarla demagogicamente, ma non di prenderla di fronte e allontanarla da sé con atteggiamenti a essa inaccessibili”.
In quest’ultima frase Matteotti tratteggia una postura politica e anche morale che è agli antipodi di quella assunta dalle élite finto-riformiste con l’entusiastico sostegno ai governi Monti e Draghi e passando per l’unità nazionale di Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni: scelte di mero potere che hanno fatto perdere voti al centrosinistra e generato scissioni parlamentari. Anche perché – come è accaduto con la monarchia repubblicana di Giorgio Napolitano – si è compiuto il fatale errore di sovrapporre il riformismo al consociativismo per alimentare un realismo di convenienze reciproche, al punto da legittimare la malapolitica berlusconiana. Al contrario, Matteotti, anche durante il caos delle violenze fasciste che assediarono gli ultimi governi liberali, non valutò mai l’ipotesi di collaborare con Mussolini, a differenza dei popolari cattolici e di altri socialisti aperturisti. Di qui la sua fama di riformista intransigente, un ossimoro ai tempi d’oggi. Non solo.
Per descrivere il nucleo del suo pensiero politico, Fornaro riprende una decisiva definizione dello storico Gaetano Arfè: “I suoi valori sono la giustizia sociale, quale strumento di liberazione umana; la pace quale rigetto di ogni ideologia che creda nella virtù demiurgica della violenza”. Matteotti fu infatti un pacifista convinto, (“La fratellanza tra i popoli e l’avversione alla guerra avevano una componente di natura ‘quasi religiosa’”, sempre Arfè) e che si batté per le sorti dei lavoratori, senza “fare come in Russia”. Anche qui la distanza coi sedicenti riformisti attuali è abissale: si pensi al bellicismo di alcuni correnti del Pd oppure al renzismo di governo che ha avuto come bussola il maglioncino di Marchionne e fece il Jobs Act in odio alla Cgil.
Ed è per questo che il martirio di Matteotti isolato dal suo riformismo pacifista e intransigente dà vita a quello che Fornaro definisce un “mito dimezzato”, benché quasi tutte le città italiane gli abbiano intitolato una piazza, un corso o una via.
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