L’ONU PARTORISCE UN TOPOLINO. SULLA PELLE DEI PALESTINESI da IL MANIFESTO
Sei giorni dopo, su Gaza l’Onu vota una risoluzione annacquata
NIENTE CESSATE IL FUOCO. Il segretario generale Guterres: «Non era il testo auspicato. Il cessate il fuoco è l’unico vero mezzo per porre fine alle sofferenze. La risoluzione di oggi può aprire quella strada»
Luca Celada, LOS ANGELES 23/12/2023
Erano le 12.07 di New York quando un’alzata di mano ha messo agli atti dell’Onu una storica risoluzione del Consiglio di Sicurezza. La mozione chiede «urgenti ed estese pause e corridoi umanitari in tutta la Striscia di Gaza, tali da permettere il pieno, rapido, sicuro e libero accesso umanitario» alle popolazioni civili.
La risoluzione chiede anche di «creare le condizioni per una cessazione sostenibile delle ostilità». L’appello alla «creazione di condizioni» piuttosto che alla cessazione delle ostilità è il sofisma che ha reso storico il voto di ieri.
SI TRATTA della prima volta dal 1972 che gli Stati uniti non pongono il veto a una mozione che critica l’operato del proprio alleato. La mozione è rivolta a tutte le parti in causa ma, dato che è sottinteso, come ha specificato il segretario generale Guterres, che la causa principale e diretta della catastrofica crisi umanitaria sono le operazioni di guerra e, ha aggiunto il delegato cinese Zhang Jun, «la punizione collettiva della popolazione civile», la richiesta può essere letta come appello diretto a Israele.
Per oltre cinquant’anni un rappresentante di Washington si è assicurato che ogni appello alla pace, alla moderazione o alla protezione dei civili, ogni richiamo al rispetto delle norme internazionali e umanitarie, fallisse la ratifica Onu col pretesto di un’inaccettabile parzialità.
Con questa logica gli Usa si sono opposti a mozioni contro gli insediamenti legali nei territori occupati, per la protezione dei civili nella repressione delle intifada, per il rispetto degli accordi su Gerusalemme est, in generale contro le violenze indiscriminate contro la popolazione palestinese e per il rispetto degli accordi multilaterali regolarmente ignorati da Israele.
In ogni occasione un ambasciatore americano all’Onu ha posto il veto che assicurava il fallimento delle risoluzioni in questione, spesso sostenute da centinaia di nazioni contro due. Tecnicamente, il record è ancora intatto: nemmeno ieri gli Stati uniti hanno votato a favore, limitandosi a un’astensione (assieme alla Russia).
Nel convoluto gioco diplomatico del Palazzo di Vetro, quella posizione ha però di fatto permesso la ratifica di una posizione che, seppur per omissione, ha visto per la prima volta Washington unirsi al coro che chiede a Israele quantomeno di moderare le proprie azioni.
LA RISOLUZIONE chiede maggiori aiuti per Gaza, ma non una tregua immediata. Quella clausola faceva parte del testo originalmente proposto e approvato a larga maggioranza dall’Assemblea generale (153 a favore, 10 contrari e 23 astenuti). Nel Consiglio di Sicurezza, dove le risoluzioni sono vincolanti, si è riprodotta la consueta dinamica con l’opposizione americana a impedire la ratifica.
La novità sono stati gli intensi negoziati diplomatici seguiti per trovare un compromesso che permettesse all’amministrazione Biden di modulare una posizione di «biasimo» verso il genocidio in atto, rispondendo alle crescenti pressioni dell’opinione pubblica americana e in seno allo stesso partito democratico.
Quelle che la rappresentante americana Linda Thomas Greefield ha definito «molti giorni e lunghe notti di intensi lavoro» hanno prodotto un compromesso che ha sostituito «cessazione delle ostilità» con l’eufemistica formulazione dei «passi urgenti che favoriscano una cessazione sostenibile delle ostilità». Thomas-Greenfield ha definito la ratifica «uno spiraglio di speranza in un mare di sofferenza». «Hamas non ha interesse – ha aggiunto – a lavorare per la pace, ma vorrebbe ripetere all’infinito gli orrori del 7 ottobre. Per questo gli Usa appoggiano il diritto di Israele a proteggersi dal terrorismo».
ALLA LUCE dell’«astensione favorevole» le parole sono parse una concessione minore all’alleanza con Israele, oggi per la prima volta in mezzo secolo effettivamente isolata dall’Assemblea delle nazioni. «Non era il testo che avevamo auspicato – ha confermato Guterres – ma possiamo scegliere di vedere il bicchiere mezzo pieno. Il cessate il fuoco è l’unico vero mezzo per porre fine alle sofferenze e muoversi verso la pace. (La risoluzione di) oggi può aprire quella strada».
Una guerra da «vincere» sulla pelle dei palestinesi
MEDIO ORIENTE. Siamo in guerra ma facciamo finta di niente e siccome non si è passati neppure da un dibattito parlamentare le nostre forze politiche, con qualche rara eccezione, fanno gli gnorri. Si va avanti così nella «guerra mondiale a pezzi» di cui parlava papa Francesco
Alberto Negri 23/12/2023
Il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan, alla vigilia del massacro di Hamas del 7 ottobre aveva dichiarato che «negli ultimi vent’anni il Medio Oriente non era mai stato così tranquillo come oggi». Pochi giorni dopo gli Usa sono stati coinvolti nel conflitto fornendo bombe da 900 chili a Israele, quattro volte quelle usate a Mosul contro l’Isis, e stanziando 14 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele.
Visto che il congresso americano blocca i fondi all’Ucraina, è abbastanza chiaro per Washington qual è la guerra da vincere assolutamente. Mentre all’Onu per ora viene votata una singolare risoluzione minore sugli aiuti umanitari a Gaza, con Stati Uniti e Russia astenuti, che non chiede una tregua immediata; proprio mentre Israele assicura che «la guerra continua per il rilascio degli ostaggi», mentre Guterres ammonisce che è proprio «l’offensiva di Israele il vero ostacolo per gli aiuti a Gaza».
Ora il coinvolgimento Usa ed europeo è diventato diretto nel momento in cui gli Houthi, alleati di Teheran, hanno deciso di bersagliare con i droni le navi mercantili nel Mar Rosso dirette in Israele. Washington guida adesso una coalizione navale di «volonterosi» costituita da un ventina di Paesi tra cui l’Italia.
SIAMO in guerra ma facciamo finta di niente e siccome non si è passati neppure da un dibattito parlamentare le nostre forze politiche, con qualche rara eccezione, fanno gli gnorri. Si va avanti così nella «guerra mondiale a pezzi» di cui parlava papa Francesco e sulla quale ci facciamo quasi sempre un’opinione quando tornare alla diplomazia diventa impossibile.
Il conflitto in Medio Oriente si è già allargato con i missili tra gli sciiti Hezbollah e Israele su un confine dove lo Stato ebraico ha mobilitato 200mila soldati ed evacuato 80mila civili. Manovre per tenere sotto controllo la frontiera? In realtà sia Hezbollah che Teheran non sembrano intenzionati ad avviare un conflitto in grande stile: «La Siria ci è costata tantissimo», mi dice un diplomatico iraniano, mentre Israele con il suo ministro della difesa Gallant minaccia di tanto in tanto «di far tornare il Libano al Medio Evo». L’equilibrio qui appare sempre appeso a in filo.
Tutti i giorni, o quasi, Israele, partendo dal Golan che occupa dal 1967 (nonostante una recente risoluzione Onu gli imponga il ritiro), bombarda in Siria le postazioni di pasdaran iraniani ed Hezbollah libanesi, così come le milizie sciite bersagliano le basi americane nella regione petrolifere di Deir Ez-Zor che Washington non ha nessuna intenzione di mollare.
I raid israeliani in Siria sono il segnale che quell’accordo tra Putin e Netanyahu regge ancora: mai Mosca ha protestato contro il governo di Tel Aviv che prende di mira i maggiori alleati dei russi in Medio Oriente.
La Siria, dopo l’inizio della rivolta contro Bashar Assad nel 2011, è diventata una sorta di condominio militare che racchiude guerre e rivalità degli ultimi decenni. A cominciare dall’Isis, che partendo dall’Iraq nella sua guerra rivolta soprattutto contro gli sciiti e i loro alleati, prima che contro l’Occidente, è ancora presente, Idlib e provincia sono il santuario di vari gruppi jihadisti, la Russia, storica protettrice di Damasco, ha le sue basi militari siriane, mentre la Turchia occupa fasce consistenti di territorio nel nord della Siria dove ha massacrato i curdi con l’assenso americano, dopo che questi erano stati stoici alleati dell’Occidente contro il Califfato.
GLI AMERICANI per altro hanno anche seri problemi con le milizie sciite in Iraq, circa 250mila uomini più forti dello stesso esercito iracheno. Dal 2003 con la guerra lanciata dagli Usa contro Saddam Hussein la Mesopotamia ha visto centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. In vent’anni da allora queste ferite non si sono rimarginate.
Se poi si volge lo sguardo al Medio Oriente «allargato» i motivi di preoccupazione sono molteplici. A partire dalla guerra civile in Sudan tra i due generali Burhan ed Hemetti clamorosamente uscita dai nostri riflettori, ma che continua con durissimi combattimenti e una tragedia umanitaria: secondo le Nazioni unite, il conflitto in Sudan ha causato da aprile almeno dodicimila vittime e più di sei milioni di sfollati.
Per non parlare di quanto accade in Afghanistan, travolto da una crisi umanitaria senza precedenti, dove gli Usa congelano i fondi del governo talebano e impediscono persino l’attività umanitaria di base. Eppure sono stati loro a riconsegnare il paese dopo 20 anni ai talebani prima con gli accordi di Doha e poi con la fuga da Kabul nel 2021.
Soltanto uno sprovveduto poteva dichiarare che il Medio Oriente è «tranquillo» come ha fatto Sullivan. A meno che non si fosse così ottimisti (o sconsiderati) pensando di stendere un velo sulla regione con il “Patto di Abramo”, che puntava a ottenere il riconoscimento dello Stato ebraico da parte di Paesi come gli Emirati, il Bahrein, il Marocco, il Sudan e, soprattutto, l’Arabia Saudita. Ma ora tutto quanto è finito un binario morto a causa del conflitto in corso nella Striscia.
Ora su Gaza, dopo le rappresaglie indiscriminate e decine di migliaia di morti, si aggira lo spettro dell’espulsione dei palestinesi. Con la conferma alla presidenziali egiziane del generale Al Sisi, si sono moltiplicate le pressioni sul Cairo perché si prenda i gazawi, o almeno una parte di loro. Una questione esplosiva e un’opzione per ora respinta da al-Sisi. Eppure in un paio di mesi l’Egitto ha ricevuto, o ottenuto la promessa, di prestiti e aiuti per 26 miliardi di dollari, 9 miliardi di euro dall’Unione europea. Dietro le quinte si sta già scrivendo un storia amara sulla pelle dei palestinesi.
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