L’ONU ANCORA INCAPACE DI IMPORRE LA TREGUA SU GAZA da IL MANIFESTO
Il veto di ritorno, l’Onu ancora incapace di imporre la tregua su Gaza
ISRAELE/PALESTINA. La risoluzione Usa bloccata da Cina e Russia: non chiedeva il cessate il fuoco immediato ma ne sottolineava solo la necessità. Quinto giorno di assedio israeliano dello Shifa: bulldozer, missili, arresti e uccisioni
Chiara Cruciati 23/03/2024
Si rivoterà oggi, alle 14 ora di New York, una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza, per un cessate il fuoco immediato a Gaza. La mozione inizia a circolare nel Palazzo di Vetro poche ore dopo la bocciatura della prima risoluzione statunitense che conteneva al suo interno l’espressione «cessate il fuoco». È stata abbattuta dal veto cinese e russo.
IL MOTIVO: non chiedeva il cessate il fuoco immediato ma ne sottolineava la necessità e legava una tregua di sei settimane al negoziato in corso tra Doha e Il Cairo. Agli occhi dei contrari, dunque, quel cessate il fuoco non sarebbe che un auspicio, non certo un’imposizione del Consiglio di Sicurezza.
Inoltre, condiziona l’eventuale pausa all’andamento del dialogo indiretto mediato da Usa, Egitto e Qatar: inutile, secondo Mosca, perché non fa tacere le armi. E non elimina, aggiunge l’Algeria, il rischio di un’operazione terrestre israeliana su Rafah, città-rifugio per 1,5 milioni di sfollati palestinesi.
A New York è andata in scena la più fine battaglia diplomatica, sulle parole e sulle intenzioni. Washington risponde alle critiche: quella risoluzione conteneva il rigetto di ogni ulteriore sfollamento della popolazione di Gaza e «il bisogno urgente di ampliare il flusso degli aiuti umanitari», accanto alla condanna dell’attacco di Hamas del 7 ottobre (che ha provocato l’uccisione di quasi 1.200 israeliani) e alla richiesta di rilascio di tutti gli ostaggi ancora a Gaza. Agli avversari non basta erano più avanzate, dicono, le risoluzioni precedenti – quelle che chiedevano un cessate il fuoco immediato e senza condizioni – bloccate dai veti statunitensi.
Secondo Riyad Mansour, ambasciatore palestinese alle Nazioni unite, il rigetto del tentativo Usa è «ovvio»: non menziona mai Israele. La Francia da parte sua ha promesso di portare sul tavolo del Consiglio una nuova risoluzione, negoziata con le tante anime che lì dentro si confrontano da mesi senza riuscire a trovare un accordo che ponga fine al massacro di Gaza. Qualcosa si muove pure a Londra, dove ieri Alicia Kearns, a capo del comitato per gli affari esteri della Camera dei Comuni, ha annunciato il possibile stop britannico alla vendita di armi a Israele.
Mentre nelle capitali occidentali si discute, a Gaza non c’è pace. L’ospedale Shifa è al suo quinto giorno di assedio israeliano. L’Organizzazione mondiale della Sanità ieri ha detto di aver perso i contatti con il proprio staff medico all’interno e di non avere idea delle condizioni dei pazienti. «Entrare dentro è ora impossibile e ci sono notizie di lavoratori sanitari arrestati», ha scritto su X il capo dell’Oms Tedros Ghebreyesus.
LE FORZE ISRAELIANE hanno bombardato alcuni edifici del grande complesso dello Shifa e dato alle fiamme il dipartimento vascolare. Bombe anche su palazzine nei dintorni dell’ospedale. Secondo il ministero della sanità di Gaza, 240 pazienti del reparto di radiologia sarebbero agli arresti, insieme a dieci medici.
Testimoni – chi riesce a sfuggire ai cecchini – hanno raccontato di nuovo ieri alle agenzie stampa il girone infernale che è lo Shifa: i soldati «picchiano tutti i giovani e li arrestano», ha detto un paziente, Younis, all’Afp. Per Israele si tratta di miliziani: 150 quelli uccisi, ha detto ieri l’esercito, in «operazioni precise» dentro l’ospedale.
Le accuse di crimini di guerra, giornalieri ormai, si accumulano: ieri la ong Euro-Med Human Rights Watch ha pubblicato un breve rapporto sulle ultime 24 ore allo Shifa: esecuzioni extragiudiziali, bombardamenti e incendi appiccati alle case intorno, dicono testimoni e sfollati che raccontano di incursioni nelle abitazioni, pestaggi e arresti. E di residenti cacciati via che hanno visto le loro case date alle fiamme.
Si bombarda anche altrove. Il bilancio aggiornato dei palestinesi uccisi dal 7 ottobre ha superato i 32mila, a cui si aggiungono 74.300 feriti. Due terzi sono donne e bambini. Otto le vittime ieri a Rafah, colpita dall’aviazione israeliana; tre a Khan Younis nel bombardamento di una casa. I palestinesi denunciano uno «schema» preciso, prendere di mira edifici residenziali. È successo ieri anche a nord di Gaza City: una famiglia di dieci persone uccisa in un raid.
Emergono anche le prove di stragi passate, registrate da un drone israeliano e fatte arrivare alla stampa: a inizio gennaio l’uccisione, dal cielo, di quattro giovani palestinesi a Khan Younis, mentre camminavano disarmati lungo una strada distrutta poco prima da un bulldozer israeliano. Il drone li ha seguiti per un po’, poi ha aperto il fuoco.
INTANTO nel resto dei Territori occupati è stato un altro venerdì di divieti, arresti ed espansione coloniale. Con la moschea di al-Aqsa chiusa a buona parte dei fedeli musulmani che avrebbero voluto pregare sulla Spianata nel secondo venerdì di Ramadan, il ministro delle finanze (colono e leader del partito di ultradestra Sionismo religioso) Bezalel Smotrich ha annunciato ieri l’intenzione di costruire nuove colonie su 80 ettari di terra nella Valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata.
Alla stampa israeliana ha parlato di piani di costruzione di centinaia di unità abitative e anche di un distretto industriale. Un «obiettivo strategico» ha detto: mentre tutti guardano a Gaza, l’avanzata in Cisgiordania non si è fermata nemmeno per un secondo.
Netanyahu: «Entreremo a Rafah con o senza il supporto Usa»
GAZA NEL TUNNEL. La sesta visita in Israele del segretario di Stato Antony Blinken. L’operazione «Sarebbe un errore. Non c’è modo per i civili di mettersi in salvo»
Giovanna Branca 23/03/2024
«Non abbiamo modo di sconfiggere Hamas senza entrare a Rafah ed eliminare ciò che resta dei battaglioni che si trovano lì». A Blinken «ho detto che spero che lo faremo con il supporto degli Stati uniti. Ma se dobbiamo – lo faremo da soli». Il conciso comunicato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu rappresenta un’ulteriore e spregiudicata escalation del confronto con lo storico alleato statunitense, quasi un invito a mostrare le carte, evidenziando una ferma indifferenza nei confronti dell’opposizione americana all’andamento dell’operazione militare a Gaza. Una posizione, quella del premier, per nulla diversa da quella espressa solo con meno acrimonia dal suo oppositore Benny Gantz: «Gli ho comunicato – ha scritto su X, aprendo a Blinken solo (e solo a parole) sull’ingresso nella Striscia di più aiuti umanitari – l’imperativo di completare la missione a Gaza, Rafah inclusa»
IN EGITTO il giorno prima, giovedì, nel corso di una conferenza stampa con il suo omologo egiziano Sameh Shoukry, Antony Blinken aveva dettagliato l’opposizione Usa affermando a lettere sempre più chiare, attribuite direttamente anche al presidente Joe Biden: entrare a Rafah «sarebbe un errore». Valutazione che ha ripetuto tre volte nel corso dell’incontro. «Non c’è modo per i civili ammassati a Rafah di mettersi in salvo. E per coloro che inevitabilmente rimarrebbero lì si profilerebbe un disastro umanitario».
Parlando con i giornalisti ieri delle «oneste conversazioni» avute a Tel Aviv con Netanyah il presidente Isaac Herzog e il gabinetto di guerra – nel corso della sua sesta visita in Israele dall’inizio del conflitto – Blinken ha aggiunto che «una operazione militare su vasta scala a Rafah» non è il modo per garantire la sicurezza di Israele. «Rischia di uccidere altri civili. Rischia di scatenare il caos nella distribuzione di assistenza umanitaria». E «rischia di isolare ulteriormente Israele dal resto del mondo e nel lungo periodo di mettere in pericolo la sua sicurezza».
Poco prima di imbarcarsi su un volo diretto in Qatar, dove stanno per ripartire i negoziati, ha anche condannato come «cinico» il veto posto da Russia e Cina sulla risoluzione per il cessate il fuoco presentata dagli Stati uniti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, che il giorno prima in Egitto Blinken aveva presentato come un elemento di speranza.
NEL CORSO della missione mediorientale di Blinken – rivela Axios -, a Washington il suo dipartimento di Stato ha ricevuto da Israele un documento in cui si «certifica» che le armi fornite dagli Usa a Tel Aviv non vengono impiegate per azioni in violazione delle leggi internazionali e statunitensi sui diritti umani. La «certificazione» firmata dal ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant era stata chiesta agli alleati dal governo statunitense entro questa domenica, e sulla carta a essa è legata la continuazione degli aiuti Usa a Israele. Se le valutazioni di Tel Aviv venissero ritenute «lacunose» – o in parole povere false – dalla revisione che il dipartimento di Stato è incaricato di condurre entro maggio, Biden potrebbe decidere di sospendere l’invio di armamenti a Israele. Alla lettera, confermano delle fonti del Washington Post, farà seguito una delegazione di ufficiali israeliani, convocata dallo stesso presidente, per discutere dell’offensiva in corso.
MENTRE BLINKEN è diretto a Doha, due comunicati quasi identici del portavoce del dipartimento di Stato Matthew Miller a seguito dei colloqui con Netanyahu e Herzog riportano, in versione edulcorata, le posizioni già espresse dal segretario: «Colloqui» con Arabia Saudita e Egitto «per una pace duratura e la sicurezza di Israele e della regione», la priorità di un cessate il fuoco e «la necessità di proteggere i civili a Gaza e aumentare l’assistenza umanitaria, sia via terra che via mare»
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